di Antonello Patta* -
La commissione europea ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita e al rialzo l’andamento dell’inflazione in Europa, come conseguenza della crisi energetica e dell’aumento delle materie prime aggravata dalle strozzature commerciali e di prezzo sulle filiere internazionali, dalla guerra e dalle sanzioni.
Le politiche fiscali e monetarie restrittive che l’Europa sta rilanciando come annunciato da tempo non servono per fermare in via diretta l’inflazione, che deriva dall’offerta di beni importati e non certo dall’eccesso di domanda; al contrario, inducono direttamente e indirettamente ad una riduzione ulteriore degli investimenti e della spesa sociale, rendono più concreta la possibilità che tutta l’economia europea finisca in recessione con gravi conseguenze sulla tenuta del sistema produttivo, aumenterebbero riduzione delle produzioni e chiusure di aziende, e dell’occupazione.
L’Italia è esposta a maggiori rischi perché la situazione di partenza è ancora più grave a causa della contrazione della domanda sia nella componente estera sia sul fronte dei consumi interni a causa dei bassi salari, dell’alto tasso di disoccupazione e del crollo degli indici di fiducia delle famiglie.
Il governo ha continuato a fare previsioni sulla crescita dell’economia nel 2022 troppo ottimistiche: già col Def di aprile aveva dovuto rivedere le previsioni programmatiche contenute nella Nadef di settembre riducendo le stime della crescita dal 4,7% al 3,1%, ora è costretto a prendere atto dell’ulteriore riduzione al 2,4% che arriva dalla Ue che tra l’altro rivede al ribasso anche il dato del 2023; lo stesso avviene sul debito sul quale la UE E purtroppo non è la UE ad essere pessimista, anzi i principali previsori internazionali danno stime peggiori.
Aggiungiamo che questo è lo scenario migliore dei tre analizzati in sede europea; Il peggiore, che avrebbe effetti molto più negativi, si verificherebbe nel caso in cui l’Italia, il secondo paese importatore di gas russo, subisse interruzioni delle forniture, cosa non esclusa se si continua a sostenere la linea Usa dell’escalation della guerra e l’espansionismo della Nato. La recessione secondo l’UE sarebbe assicurata: il tasso di crescita per il 2022 avrebbe il segno meno bruciando anche il margine di crescita già acquisito come trascinamento della crescita del 2021, l’inflazione aumenterebbe di altri tre punti.
A un risultato simile si potrebbe comunque arrivare in caso di prolungamento della guerra fino al prossimo inverno con una nuova tornata di aumenti delle materie prime energetiche e non cui concorrono molteplici fattori.
La cosa che colpisce di più è che tutto ciò avviene al tempo del PNRR, con una quantità di risorse straordinarie grazie alle quali, si era detto, si sarebbe riusciti a tirar fuori l’Italia da un trentennio di stagnazione quasi ininterrotta con calo degli investimenti, spread inflazionistico e differenziali di crescita a due cifre rispetto agli altri paesi europei.
Non andrà così per le conseguenze dei fattori di crisi, accentuati dalle scellerate scelte guerrafondaie dei governi europei che nell’immediato stanno azzerando il potenziale delle risorse messe in gioco; non andrà così perché le risorse, scarse, sono erogate alle imprese a pioggia senza una programmazione pubblica, l’unica in grado di mettere mano alla riorganizzazione complessiva dell’apparato produttivo oggi indispensabile per stare con un qualche ruolo nel mercato europeo delle produzioni e dei capitali, mentre si tagliano le spese per l’welfare e prosegue la politica delle privatizzazioni.
Molto dipende anche dall’ispirazione ferreamente neoliberista di Draghi e del suo governo che, nonostante sia stato del tutto evidente come il forte rimbalzo del 2021 sia derivato dall’aumento significativo della spesa pubblica (vedi il boom dell’edilizia legata alla discutibile iniziativa del superbonus), ha proceduto già in corso d’anno a tagliare oltre misura il deficit, e la spesa, per rientrare a tappe accelerate nei parametri dei vincoli europei riaffermati a marzo da tutti gli organismi comunitari.
Da una lettura più attenta dei numeri forniti dalla UE arriva un’altra pessima notizia: il ritorno del Pil ai livelli del 2019, già non eccellenti, non avverrà entro la metà del 2021 come ipotizzato dal governo, ma nella seconda metà del 2023.
A tingere a tinte ancor più fosche la fotografia della situazione economica del nostro paese arriva il confronto tra la crescita dell’Italia e quella dell’Eurozona che rispetto al 2019 cresce due volte e mezzo più dell’Italia, il paese che, come si diceva, più di tutti ha utilizzato le risorse del Next Generation EU!
Continua quindi drammaticamente, nonostante la momentanea sospensione del patto di stabilità durante il covid e i fondi del NGEU, il processo di divergenza dell’economia italiana rispetto ai paesi dell’Europa centrale: continuano ad aumentare le disuguaglianze economiche tra le nazioni, le disuguaglianze sociali anche all’interno dei singoli paesi e nel nostro caso tra il sud e il nord del paese.
Prosegue il trend, visto tra il 2002 e il 2018 quando il divario tra gli investimenti pubblici e privati in Italia rispetto ai paesi europei avanzati crebbe del 28% mentre la quota dell’Italia sul pil europeo si riduceva di 4 punti. Col risultato che a fine 2019 il pil nazionale era ancora sotto il livello del 2007; oggi come allora continuano ad aumentare i divari salariale, occupazionale e quello degli indici di protezione del lavoro.
Non possono che essere queste le conseguenze di un’architettura europea della totale libertà dei movimenti di capitale, della deregolamentazione della finanza, dei rigidi vincoli fiscali, delle restrizioni alle politiche pubbliche su un paese come l’Italia caratterizzato da debolezze strutturali nelle produzioni e nell’economia frutto della frammentazione dell’apparato produttivo e della disgregazione degli assetti proprietari perseguiti nella stagione delle privatizzazioni e del piccolo è bello.
In queste condizioni strutturali continuando a lasciare l’economia italiana nelle mani del mercato e delle imprese senza guida pubblica prevarranno i poteri economici e finanziari ben più attrezzati a scala europea e il destino dell’Italia continuerà ad essere quello progressivamente più subordinato, terreno di conquista nella forte ripresa della centralizzazione dei capitali a guida franco tedesca
Il capitalismo italiano continuerà, in assenza di lotte sociali, a registrare la complice convivenza tra quella parte (piccolo e medio capitale) che sopravvive grazie a bassi salari, lavoro precario, mancanza di innovazione e ricerca e quelle frange del capitale industriale e finanziario che, con poche eccezioni, hanno rinunciato ad aggregazioni su scala nazionale, magari in un intreccio col pubblico e cercano di accomodarsi nelle holding dei grandi padroni francesi e tedeschi.
Permanendo queste condizioni, non si fa fatica ad accettare le previsioni dei principali organismi economici mondiali che danno un progressivo arretramento dell’economia italiana nei prossimi anni in riferimento a tutti gli indici economici e sociali.
Le risposte che sarebbero necessarie rimandano tutte a una forte ripresa del ruolo pubblico in Italia e a una riscrittura dei trattati europei, che non si potranno avere se non in presenza di un nuovo grande ciclo di lotte che rimettano al centro il conflitto capitale e lavoro e la necessità di un modello economico e sociale che abbia al centro il lavoro, le persone e l’ambiente e non i profitti.
*Resp nazionale lavoro, Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea