![]() Aprile 1998 IL FATTOL'ULTIMA MINA di Manuela CartosioLa Valsella, una delle tre aziende italiane produttrici di mine, finalmente si riconverte. E distrugge i brevetti. Ma la lotta è stata durissima.di Manuela Cartosio Squilla il telefono nell'ufficio di Bruno Campovecchi,
segretario della Filcea Cgil di Brescia. Neppure il tempo di tirare fuori
il taccuino ed è già Valsella, una delle tre aziende italiane
produttrici fino a qualche anno fa di mine antiuomo. Bruno parla - anzi
grida - in bresciano stretto, ma il nocciolo dell'animata discussione risulta
comprensibile. All'altro capo del telefono, un ex operaio della Valsella,
uno di quelli che sono riusciti a trovare un altro posto di lavoro e hanno
"mollato". Una decisione più che comprensibile: dalla scorso settembre
la Valsella non pagava più gli stipendi, correva verso il fallimento.
L'accordo, sottoscritto in extremis il 14 febbraio, l'ha evitato. La Valsella
Meccanotecnica di Castenedolo è stata rilevata dalla Ve&D che
attuerà la riconversione (dall'anno prossimo si produrranno veicoli
ecologici) ostinatamente rifiutata da Giovanni Borletti (l'ex direttore
- proprietario del 50 per cento della Valsella, l'altro 50 per cento era
della Marelli - Fiat). I 35 dipendenti rimasti alla Valsella, pur dovendo
accettare un anno di cassa integrazione, hanno la garanzia del posto di
lavoro. Gli arretrati verranno pagati in comode (per la Ve&D) rate,
a partire da settembre ed è per gli arretrati che telefona l'ex
operaio della Valsella, sostiene che il sindacato aveva fatto credere che
li avrebbe pagati Borletti e subito. "Io ho una parola sola e non ho mai
detto una cosa simile - risponde Campovecchi - e poi cosa vuoi che paghi
quel vigliacco di Borletti, ha 20 miliardi di debiti e adesso pretende
anche d'essere assunto dalla nuova proprietà". Bruno mette giù
la cornetta e si sfoga: "sono scappati quando la nave affondava e adesso
gli stessi che alle assemblee per anni alzavano la mano e dicevano "diamogli
fiducia a Borletti" vogliono i soldi tutti e subito perché "hanno
famiglia". La famiglia ce l'hanno pure quelli che hanno tenuto duro". "
E stato un accordo tirato con i denti" aveva detto Campovecchi subito dopo
la firma. Quella frase alludeva a molti e diversi ostacoli, l'ultimo dei
quali toccava proprio il nervo scoperto degli arretrati. La Ve&D voleva
vendere ad aziende spagnole e austriache brevetti e seminatori di mine
Valsella, incassare due miliardi e con quelli pagare gli arretrati. Mine
anticarro o antiuomo? Delle ultime la legge 374, in vigore da novembre,
vieta tassativamente l'uso, la produzione e la commercializzazione. Il
divieto è esteso esplicitamente alla cessione dei brevetti. L'esperienza
insegna che quando ci sono di mezzo le armi si fanno carte false, è
facile escogitare qualche stratagemma per spacciare un ordigno antiuomo
come ordigno anticarro. Comunque, fossero anche state mine anticarro, lavoratori
e sindacato hanno rifiutato lo scambio. "Abbiamo preferito un accordo pulito
e questo lo è, una riconversione vera e questa è, un risultato
fantastico".
Guidando verso Castenedolo il "sindacalista di frontiera" - così si definisce Campovecchi, in pensione da un anno fa il segretario della Filcea come volontario - ritrova il buon umore. Scherza sul "caso clinico" Borletti, "uno che non ci ha mai dato la soddisfazione di dire "smetto di fare le mine". Non ci sono spiegazioni razionali per il rifiuto di Borletti "un aristocratico, intendiamoci, mica un buzzurro analfabeta bresciano" a riconvertire la fabbrica. C'è da fidarsi di questa Ve&D, una società di engineering che fa il salto nella produzione? E le auto ecologiche non si riveleranno la solita bufala? "La Ve&D ha un solido staff di una trentina di ricercatori, non sono due o tre pataccari. Le commesse ci sono". Della Fiat, naturalmente, trattandosi di quattro ruote. La doppia presenza - in entrata e in uscita - della Fiat nella vicenda Valsella è un elemento in più per dire che la vicenda si doveva e si poteva chiudere prima. In località Fascia d'oro prendiamo una stradina stretta e tutta buchi, si stenta a credere che da questo quasi viottolo di campagna sia partito il carico di morte seminato in milioni di "pezzi" in tutto il mondo. Fuori dalla Valsella ci aspettano tre operaie, "ragazze" sulla cinquantina che in questa fabbrica hanno passato più della metà della loro vita. Agnese Zamboni, Fernanda Parolini e Franca Faita, la delegata della Filcea Cgil protagonista della lotta contro le mine antiuomo. Il padrone Borletti l'ha punita con la cassa integrazione selettiva, il suo nome era sempre nella lista. "A Franca non è stato risparmiato niente - racconta Campovecchi - le hanno girato il banco per farla lavorare faccia al muro, per impedirle di parlare con le compagne". "Ci facciano produrre caramelle, non abbiamo scelto noi di fabbricare mine". Questa frase aspra e ruvida Franca me la disse nel '94, la campagna per la messa al bando delle mine antiuomo era appena iniziata in Italia. Traspariva da quelle parole l'orgoglio ferito di chi percepiva che "gli altri" fuori stavano facendo quel che avrebbero dovuto fare lavoratori e sindacato dentro la fabbrica. Nello stesso tempo, in quelle parole, c'era la durezza di una condizione operaia che non si può permettere il lusso dell'obiezione di coscienza. L'orgoglio ferito ha lasciato il posto alla consapevolezza d'aver fatto la cosa giusta. La moratoria prima e la legge poi "ci hanno aiutato moltissimo", afferma Franca, "ma un po', anzi tanto, del merito della riconversione lo rivendichiamo per noi". Sono stati anni difficili, racconta Agnese, e se si guarda "ai pochi che siamo rimasti, solo donne, invalidi e manovali", per colpa di, "quel testardo di Borletti" la soddisfazione per la riconversione è venata da più di un filo di tristezza. "Però meglio aver avuto questi anni duri che continuare a fare le mine". Vedere gli effetti delle mine "fa venire la pelle d'oca". Agnese racconta d'averli visti per la prima volta "nel programma televisivo del dottor Gino Strada" (è il Maurizio Costanzo Show, ma è bello che in questo caso l'ospite sia più importante del padrone di casa). "Da quella sera mi sono detta: basta, basta, basta". Perché la televisione abbia pesato più di tante lotte operaie per la riconversione per Agnese è detto in poche parole: "Noi siamo di una categoria bassa, non riusciamo a muoverci fuori dal tran-tran casa lavoro, non sappiamo comunicare". "Gino Strada ci ha aperto gli occhi" dice Franca che ricorda il primo incontro con il chirurgo di guerra fondatore di Emergency. "Ha aperto una cassetta, dentro c'erano le Vs50. Le ho riconosciute, le facevo io. Poi mi ha spiegato cosa succede quando scoppiano. Cosa fanno le Valmara 69 l'abbiamo saputo da padre Marcello Storgato, il missionario saveriano promotore della campagna italiana contro le mine. Mica dai tecnici e dagli operai nostri colleghi". Significa che fino al '94 voi operaie non sapevate di produrre mine? Fernanda dice d'aver avuto i primi dubbi verso l'87: "qui da noi si stampavano solo gli involucri esterni, il caricamento con l'esplosivo si è sempre fatto in un'altra fabbrica, la Sei. Stampi per giocattoli, dicevano. E io per dieci anni ci ho creduto. Quando è venuto fuori che erano mine, noi abbiamo cercato subito di fare la riconversione. Il padrone ci ha risposto "io sono nato per fare mine". Così adesso ha fatto una brutta figura. Se la faceva lui la riconversione, si prendeva il merito". Il risentimento verso i colleghi maschi non riguarda solo il passato, il "loro sapevano e non ce l'hanno detto", coinvolge gli anni più vicini che Franca, con la consueta sincerità, riassume così. "Quando il sindacato ha spiegato per filo e per segno che facevamo le mine e che così non si poteva continuare, alle riunioni eravamo sempre solo noi donne. Gli uomini continuavano a cercare degli alibi, tipo "tanto se non le produciamo noi, le fanno gli altri", "le mine danno da vivere". Detto in altri e ancor più crudi termini: "Se si fosse continuato a produrre mine, io mi sarei licenziata. Molti invece, se per caso cambiasse la legge, tornerebbero tranquillamente a fare le mine. Significa che hanno smesso solo per obbligo". Proviamo a scavare nel diverso atteggiamento maschile e femminile verso le mine. Le tre operaie, sulle prime, imboccano concordi la spiegazione classica che attribuisce alla donna-madre maggior sensibilità per tutto ciò che riguarda il dare e il togliere la vita. Poi si arrestano perplesse, non vogliono essere buone "per natura". "Io non lo sono", dice Franca. "Qui bisogna stare sempre con le unghie fuori, con gli occhi aperti, bisogna essere maliziose. E' la malizia che mi ha fatto scoprire che volevano vendere i brevetti e i seminatori". Animata da sana cattiveria e motivata sospettosità la delegata si è autocandidata a far parte del "comitato etico", forse la conquista più avanzata dell'accordo Valsella. Sarà formato da un rappresentante dei lavoratori, uno dell'azienda e uno del sindacato provinciale, "delibererà le modalità di dismissioni della vecchia produzione bellica nel rispetto della legge 374". "Qua dentro - spiegano le tre operaie - c'è ancora un sacco di materiale che non deve uscire alla chetichella per destinazione ignota o fasulla. La legge fissa delle procedure, i materiali devono essere trasferiti nei depositi militari e poi distrutti. Noi vigileremo perché i protocolli vengano rispettati". Bisognerà vigilare anche sui soldi che pioveranno copiosi per la dismissione, perché non si sprechi denaro pubblico. E' già successo, a beneficio di Borletti che in una manciata d'anni ha presentato ben sette piani di riconversione "sabbia negli occhi" solo per arraffare un po' di grana. Vigilare è un termine un po' abusato, ma una fortuita coincidenza (la seconda, dopo la telefonata dell'ex operaio Valsella) s'incarica di dimostrare che "vigilare" non è fuori luogo. Sulla stradina groviera viene avanti adagio un macchinone-transatlantico. Il mingherlino al volante abbassa il finestrino e domanda: "è vero che la Valsella ha riaperto?" Ripassi tra un anno, e comunque a lei cosa interessa? "domanda Franca. "Avrei qualche lavoro da proporre". Il mingherlino non aveva quel che si dice una faccia "ecologica". Non è stata una storia semplice, univoca sul versante dei lavoratori, quella della Valsella. Ci consegna però qualche certezza. Quando sentirete il solito fesso dire che "i sindacalisti sono culi di pietra buoni solo di scaldare la sedia", ricordatevi di Bruno Campovecchi. Se il fesso dirà che "gli ex sessantottini sono diventati tutti pantofolai", pensate a Gino Strada. Se il fesso dirà che "gli operai badano solo alla pagnotta", ricordatevi di Franca Faita. Un'operaia - lo scriviamo per la prima volta, forzando il suo riserbo in proposito - che ha perso la mano destra sotto una stampatrice della Valsella dove si producevano mine che hanno tranciato gambe, braccia e vite. E qui la coincidenza - la mano di plastica che rimanda alle stampelle e alle gambe di legno che illustrano le pubblicazioni della Campagna antimine - diventa un tragico corto circuito. A proposito di Emergency
<BOX 1>
Brescia, dicembre 1997
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