Comitato Politico Nazionale
Partito della Rifondazione Comunista
6/7 novembre 1999
Conclusioni di Fausto Bertinotti
Care compagni e cari compagni, questa mia replica lascia in
ogni caso la conclusione vera dei nostri lavori al voto sul documento politico finale. Ma
il dibattito che abbiamo svolto merita un esame e qualche considerazione. Sapendo che era
chiaro fin dallinizio che non potevamo certo pensare di mettere la nostra
discussione al riparo della crisi che attraversa complessivamente le sinistre. Accanto a
questo, io credo che il nostro confronto riflette anche la difficoltà generale del
partito in questa fase; e la difficoltà della politica. Viviamo una fase in cui la
modernizzazione capitalistica tende ad aprire una partita di egemonie: perché, a dieci
anni dalla caduta del Muro, sa che non basta a vincere lidea di esistere senza il
comunismo. Perciò, è sotto gli occhi di tutti unoffensiva incalzante, che investe
la cultura, i comportamenti sociali, la vita quotidiana. E tutto questo non può non
definire un quadro di difficoltà, per noi. A me pare però che noi stessi rendiamo
talvolta ancora più difficile la nostra discussione. Credo che, da questo punto di vista,
non possiamo dirci soddisfatti di questo Cpn. Lo dico anche constatando la bassa
partecipazione in molti momenti del dibattito: non è una questione formale, né un
rilievo puramente di metodo, è la constatazione di un segnale molto significativo. Ancora
il segnale duna difficoltà, anche soggettiva. A sua volta, la gerarchia dei temi e
dei problemi approcciati nel corso della discussione, risulta a mio modo di vedere
fortemente viziata da una propensione inadeguata. Parlo di un istituzionalismo e di un
politicismo che si affaccia spesso dietro langolo e che fa velo al confronto reale
sul compito che abbiamo indicato: aprirci alle soggettività critiche, sociali, politiche
e culturali. Quel limite della discussione riflette un limite del nostro modo di essere:
ed esso va superato, se vogliamo affrontare davvero uninnovazione e unapertura
che sono necessarie ad affrontare la costruzione di un nuovo partito comunista di massa.
Mi pare di poter dire, invece, che una correzione importante dei vizi del nostro confronto
sia venuta da diversi interventi, soprattutto dei segretari di federazione e regionali.
Anche questo è un dato significativo e, stavolta, positivo: evidentemente, chi reca
lesperienza di un lavoro di direzione delle nostre organizzazioni sul territorio
porta nel comitato politico nazionale urgenze più concrete e una diversa attenzione
critica. Poi, però, vorrei segnalare alcune modalità della nostra discussione che
francamente non capisco. Intanto, quella per cui si acutizza il dissenso quasi
manifestando lidea che solo così si segnali efficacemente una propria posizione nel
partito. Emerge così lo scarso interesse persino a convincere della propria posizione;
sino al punto di ignorare le obiezioni di fatto che nel frattempo si ricevono.
Come se i fatti e le obiezioni non contassero, in uno schema fisso. Mi pare che la
minoranza esprima così lidea di capitalizzare qualche disagio nel partito come una
propria rendita, anche a costo di deformare la proposta che qui è stata avanzata. Di
questa si dà una versione del tutto distorta: si legge «levento» come una
riapertura nei confronti del governo di centrosinistra. Quando invece questa versione è
stata smentita sempre e non è nei fatti. Se poi largomentazione diventa astratta e
tocca la possibilità di un altro governo, evidentemente si fa sofistica: perché certo le
ragioni della nostra opposizione sono concrete, e in assoluto il partito comunista non è
votato per sua natura alla sola opposizione. Ma qui, palesemente, si perpetua un equivoco
rispetto alle nostre scelte passate: nel 96 il partito ha praticato una linea che
rispondeva ad attese diffuse di cambiamento, per poi dimostrare un rapporto del tutto
originale con la questione del governo, scegliendo in modo nientaffatto scontato e
banale il primato dei contenuti e del programma. E patendo per questo ben due scissioni.
Occorre ribadire ancora una volta la centralità di un tema: la costruzione di un blocco
sociale per la trasformazione è la vocazione fondamentale scelta da Rifondazione
comunista. Mi soffermo sulle distorsioni operate sulla proposta, perché ritengo che
lonestà nel confronto sia un punto essenziale del nostro modo di essere. E il
constatarne un limite, peraltro espresso dalla minoranza, ci propone un problema, che
nessuno vuole affrontare amministrativamente ma che è uninterrogazione politica per
tutti noi: se cioè esista tra di noi una maggioranza e unopposizione, oppure due
partiti. Quanto alla gerarchia dei temi, anche qui emergono dei limiti talvolta
sorprendenti. Io penso che non possiamo discutere per ore della Sardegna e della sua
giunta, persino al di là del merito. Tra questa attenzione e quella al dispiegarsi della
nostra iniziativa su temi di massa, come la proposta di aumentare di 200 mila lire le
pensioni sociali facendo leva sulla Tobin tax, in contrapposizione alla miseria insultante
della proposta delle 18 mila lire del governo, non cè alcuna relazione. E
daltra parte credo che lintera riflessione sugli enti locali può avere un
senso solo se inquadrata nella discussione generale. Sapendo, inoltre, che si tratta di
esperienze ognuna dotata di particolarità e inserita in situazioni complesse. Nessuno
può eleggersi a tribunale del popolo: al di là del grande rispetto che si deve portare
ad alcuni compagni, questo dovrebbe valere per tutti. Sono poi colpito
dallimputazione che è stata mossa al gruppo dirigente, di aver compiuto
prevaricazioni nei confronti di realtà locali. Faccio solo un esempio, quello delle
elezioni suppletive di novembre: noi eravamo per un atteggiamento differenziato, e avremmo
anche potuto far valere la precedenza di una valutazione centrale su una scadenza
elettorale di ordine nazionale, ma invece abbiamo preferito valorizzare al massimo le
decisioni e lorientamento degli organismi locali. Anche per quanto riguarda la
conduzione delle esperienze di governo locali, vorrei chiedere unattenzione
differente nel discuterne. Bisognerebbe porsi domande più aperte alla problematicità e
alla ricchezza delle realizzazioni conseguite. Le aziende privatizzate sono davvero tutte
uguali? Sono uguali le privatizzazioni brutali, rispetto alle realizzazioni di società
per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria, in servizi fondamentali per le città?
Anche qui, prima di ergersi a giudici, sulla base di un punto di vista politico generale,
bisognerebbe bandire lastrazione e la semplificazione. Insomma, in generale penso
che occorra, per aprire una fase di reale efficacia della nostra azione, una ben più
ricca articolazione di analisi e di lettura dei processi.
Questo serve anche per confrontarsi con il problema della più importante scadenza
elettorale a noi prossima, quella delle regionali. La pratica differenziata che avremmo
voluto sulle suppletive, credo resti un obiettivo per le elezioni di primavera: per
incalzare la deriva moderata del centrosinistra, tentando di cogliere contraddizioni e
controtendenze e comunque, quando non fosse possibile, caratterizzandoci sui contenuti,
smarcandoci dalla degenerazione del quadro politico. In questa luce, occorre allora
correggere la tendenza a liquidare le esperienze nelle amministrazioni con una
semplicistica propensione a soddisfare pulsioni populistiche e demagogiche. Sempre che
questa propensione non sia assolutamente strumentale: come quando, facendo perno sul
giudizio negativo nei confronti delle esperienze locali, si vuole associare immediatamente
alla valutazione sulle regionali quella sulle future elezioni politiche. Uno
schiacciamento di piani danalisi e di proposta inaccettabile.
Noi dobbiamo invertire questi schemi: dobbiamo partire dal rapporto con la società, con
la produzione di soggetti e di movimenti, per indagare il rapporto con la politica e le
istituzioni. Invece perdurano una cultura e un approccio istituzionalisti, che hanno un
versante di sinistra e uno di destra. Sono in ogni caso dei lacci: lacci che imprigionano
la crescita del nostro partito. Per capire quanto sia determinata la proposta nel
promuovere un approccio differente, e quanto sarebbe invece funzionale alla nostra
riduzione a soggetto subalterno una prospettiva politicista, basta vedere
loscuramento cui siamo stati sottoposti. In un quadro di omologazione, avremmo fatto
notizia se avessimo proposto qualcosa a questo governo, inserendoci nella lizza tra Ulivi
e Trifogli: non lo facciamo, e cè il silenzio.
Perché se cè una cosa che fa paura e devessere esorcizzata è la nostra
differenza, il fatto che discutiamo di unalternativa lontana dal Palazzo, di
società anzitutto. Per questo, la tendenza a giudizi liquidatori nei confronti degli
interlocutori nella discussione sulla Consulta e sulla costruzione duna sinistra
dalternativa è perniciosa. Inoltre, manifesta una presunzione: come, cioè, se non
valesse la reciprocità possibile del giudizio, che invece in politica vale sempre.
Bisognerebbe, ancora, avere qualche pudore nel liquidare storie e personalità di notevole
significato per una vicenda comune quanto articolata e complessa, come quella del
movimento comunista in Italia. Specie da chi è tanto giovane, atteggiamenti di
censura precostituita verso chi è tanto più anziano e tanta più storia ha
attraversato, sono così leggeri da apparire ben poco credibili. Nellinterlocuzione
con i soggetti critici della sinistra, daltra parte, abbiamo guadagnato anche una
significativa rottura di incomunicabilità a lungo protratte. Penso al caso de il
manifesto, che ci mosse in diverse occasioni critiche ben dure, pur senza impedirci di
fare le nostre scelte: ma ora quellatteggiamento si converte in unattenzione
particolare, produttiva e che va valorizzata. Anche in un raggio dazione più ampio,
con interlocutori più distanti e certo non iscrivibili alle file dellalternativa,
pregherei di smettere le semplificazioni. Ad esempio, su un tentativo
dinterlocuzione con Mino Martinazzoli, che viene argomentato anche sulle
particolarità della sua formazione culturale, ci vuole cautela: le fondazioni di una
personalità politica non sono indifferenti, bisogna conoscerle per giudicare. Specie se
la personalità in questione ha avuto recentemente modo di dichiarare: «Marx diceva che
occorre cambiare il mondo e non più descriverlo soltanto; non vorrei che DAlema ci
stesse dicendo che bisogna tornare a descriverlo e basta». E interessante, o no,
per noi? Discutiamo, allora, su quella che è stata davvero proposta come unipotesi
di lavoro. In primo luogo, la proposta è quella di ricercare una convergenza di pratiche,
sociali, politiche e istituzionali che si mettano fuori dal neoliberismo. In secondo
luogo, e in modo distinto anche se la relazione di contesto col primo obiettivo è
evidente, si propone un confronto con pratiche politiche e sociali che possono contribuire
al cambiamento del quadro attuale e disporre dunque condizioni più avanzate per la nostra
azione. Di nuovo, occorre ribadire che una pratica unitaria così concepita, vincolata
cioè ai contenuti duna politica e ad un obiettivo di cambiamento, si realizza
scavalcando le premesse di valore. Si realizza anzitrutto sui territori, a partire da
azioni che abbiano una dimensione di sistema: anzitutto, dunque, come proponiamo nel caso
delle regionali, scegliendo come chiave del confronto una nuova programmazione dello
sviluppo. E qui che è possibile individuare punti di resistenza alla mobilità
volatile del capitale speculativo, che per sua natura propone invece lindifferenza
ai territori. Per questo dovremmo ragionare noi sugli assetti dei territori e su proposte
conseguenti: in stretto rapporto con la piattaforma sociale che abbiamo definito e dunque
con i soggetti che essa vuole coinvolgere, sui suoi singoli punti, nella società. So
bene, daltra parte, come i ceti politici locali sinao spesso ancora più interni di
quelli nazionali ai processi di privatizzazione e liberalizzatori. Ma anche per ciò
emergono, progressivamente, momenti di crisi, contraddizioni, nuove dislocazioni di forze
che si diversificano da questa tendenza. Dobbiamo, dunque, costruire le esperienze e su
queste misurare la nostra discussione. Assumendo la capacità di relativizzare: quando mai
un singolo accordo regionale ha offerto la cifra complessiva e strategica duna
politica? Il Pci fece lesperienza del governo Milazzo in Sicilia, in cui era
coinvolta alnche qualche destra: definiva forse, quel tentativo, il profilo politico
globale del Pci? Eppure, sono comparse qui obiezioni più interessanti, diverse dalle
semplici distorsioni o banalizzazioni. Ad esempio, sul caso stesso della Sicilia, dove è
stata mossa una critica sulla lettura della dislocazione delle forze e dei movimenti
sociali. Questo tipo di discussione mi interessa, benché mi senta di ribadire la
validità del tentativo siciliano. E la negazione dogni ricerca, invece, che
va respinta. La questione fondamentale, in ogni caso, è cogliere l'asse oggettivo e
d'analisi che muove l'accelerazione che abbiamo scelto di imprimere alla nostra proposta.
Esso si individua nella deriva moderata e neocentrista della sinistra e del centrosinistra
di governo.È essenziale cogliere a tempo la possibilità d'un intervento su questa
deriva, di inserire un nuovo protagonista per non subirla passivamente.Per questo,
dobbiamo guardare agli sviluppi del congresso dei Ds. E dobbiamo porci anche
l'interrogativo di quali sviluppi sopraverranno dopo le elezioni politiche, nelle quali è
assai probabile si realizzi una rivincita delle destre.L'interrogativo ancor più di fondo
è, in verità, un altro ancora: è o no nell'ordine delle cose possibili un'implosione
dei Ds? Io penso di sì. E penso anche che non si dia, in quell'eventualità, uno
spostamento automatico di forze a sinistra: perché quel che si spezza e si dissolve, ora,
è un intero tessuto connettivo, che in passato consentiva di pensare ad una dinamica del
genere come naturale.E allora, in positivo, l'interrogativo principale per noi è: come
intervenire? Di qui la proposta d'una azione a tutto campo, capace di spostare forze
reali. Capace di produrre, cioè, spostamenti verso di noi, verso la costruzione d'una
sinistra d'alternativa e verso convergenze possibili efficaci contro la deriva moderata.
Ad esempio, alla sinistra sinistra Ds non chiediamo certo di fare una scissione. Le
chiediamo invece di rafforzare il carattere alternativo della sua piattaforma nel
congresso dei Democratici di sinistra. Per parte nostra, noi proponiamo a questi soggetti
un confronto politico e azioni comuni su alcuni punti programmatici. Diritti, Tobin Tax,
orario di lavoro: elementi significativi per promuovere pratiche unitarie con altre forze,
quand'anche esse non sono ancora dislocate sul terreno dell'alternativa.
Cosa diversa, e che però assume un carattere centrale nella nostra iniziativa
complessiva, è appunto la costruzione della sinistra d'alternativa. Cosa diversa, e che
insieme non può essere intesa come una soluzione organizzativistica. Questa costruzione
ha, al contrario, al suo cuore la premessa d'un reciproco riconoscimento: che comprenda il
riconoscimento, da parte degli altri soggetti, della nostra scelta di costruire la
rifondazione di un partito comunista nuovo.
Le discriminanti per questa impresa comune sono già poste con chiarezza: la scelta dell'alternativa al neoliberismo, e l'alternativa d'una cultura di pace alla guerra costituente del nuovo ordine imperiale. Discriminanti, queste, che evidentemente precipitano in quella dell'opposizione alle scelte del governo.
Questa è la Consulta che proponiamo. Un punto di incontro,
anche, di competenze ed esperienze: non solo della sinistra politica, ma di espressioni di
nuovi saperi, nella cultura e nel sociale. Un lavoro di lunga lena, in cui entriamo non
solo con la nostra storia, ma anche col nostro progetto attuale. A questo lavoro dobbiamo
chiedere la crescita d'una idea di società, d'una mappa di conflitto e vertenze: non un
club, dunque, ma una forte realtà politica e culturale.
L'«evento» è insomma la possibilità che a fronte della deriva moderata e neocentrista
si manifesti una sinistra d'alternativa. E tra i compiti del partito, questa indicazione
ci fa iscrivere con maggior forza quello dell'«apertura». La costruzione
dell'alternativa passa di qui: ed è un compito urgente in Italia, ma che riguarda il
teatro dell'Europa. Tanto più possiamo dirlo, se il dibattito nel Gue-Ngl ha perfino
visto la proposta d'un "partito europeo", avanzata dalla Pds tedesca: dobbiamo
dire che si tratta d'una iniziativa ad oggi immatura, ma dobbiamo anche saper raccogliere
lesigenza che la anima.
Senza l«apertura» l'obiettivo dell'alternativa non è perseguibile. È un processo
che dobbiamo avviare con decisione; anzitutto al cospetto della critica mossa dal
paradigma di genere della cultura delle donne. Qui si verifica insieme l'urgenza e il
ritardo dell'apertura nel modo di essere del partito.
Ed è un sintomo del ritardo anche la penuria di discussione, in questo Cpn, sulla nostra
piattaforma sociale. Più in generale, vorrei chiedere: quante ore di lavoro e di
dibattito ha riscosso nel partito, la piattaforma? Per noi è un punto cruciale: è il
nesso con la realtà, l'azione connettiva coi soggetti che ci interessano. Ancora rispetto
all'aumento miserevole di 18mila lire al mese per le pensioni sociali indicato dal governo
D'Alema, siamo noi capaci non solo di opporre la proposta di 200mila lire reperite con la
Tobin Tax, ma di attivare una vera e propria campagna nel Paese? E sui diritti
fondamentali, dopo aver già ottenuto una verifica dell'impatto che ha sui giovani, quali
proposte di iniziativa e d'arricchimento facciamo? Quali proposte nuove, ancora, avanziamo
sul salario, dopo la dimostrazione della forza che può avere un'ipotesi come quella dei
"minimi" e dei "massimi"? Quale proposta, infine, possiamo far
maturare per contribuire a far avanzare la sinistra sindacale? Come la nostra piattaforma
interloquisce complessivamente con i soggetti che individua? Nominiamo spesso l'inchiesta:
ma non è forse assunta ancora come un fatto puramente settoriale?
Infine: come realizziamo la necessaria «auto-riforma» del partito? Indicheremo adesso un
convegno su questo tema, un altro e nuovo dopo Chianciano. Ma è fin da subito chiara la
centralità dell'apporto delle donne e dei giovani. Su questi, è avanzata in questi
ultimi tempi l'evidenza del contributo programmatico e d'iniziativa, a partire dalla
piattaforma sociale e dalla sua articolazione. È comunque necessario agire con maggior
forza se pure con gradualità su un altro versante, complementare, che è quello del
coinvolgimento nella vita del partito e nelle funzioni dirigenti.
Da subito, però, va promossa un'innovazione delle forme organizzative, d'aggregazione e
d'insediamento. Anche sulla scia degli spunti che in questa discussione sono tornati.
Nuove case del popolo, dei popoli, case dei lavori: sono luoghi e strumenti di cui si
parla sempre di più, dobbiamo iniziare a diffonderli.
È su questasse che è possibile raccogliere il maggior contributo che ci viene dai
giovani: una nuova cultura delle pratiche e della sociabilità politica. Dobbiamo saperla
vedere, dobbiamo saperne imparare, ora.