Partito
della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 21 - 22 settembre 2013
Documento Bellotti
Sinistra, classe, rivoluzione
Per un nuovo inizio
Claudio Bellotti, Franco Bavila, Donatella Bilardi, Margherita Colella, Antonio Erpice, Lucia Erpice, Alessandro Giardiello, Francesco Giliani, Luisa Grasso, Domenico Loffredo, Lidia Luzzaro, Sonia Previato, Jacopo Renda, Dario Salvetti, Paolo Scarabelli, Ilic Vezzosi
Una liquidazione di fatto
La serie di sconfitte subìte dal Prc a partire dal 2008 determina un processo di liquidazione di fatto. Rifondazione comunista ha perso la rappresentanza parlamentare nazionale e buona parte di quella nelle istituzioni locali, due terzi dei propri iscritti e gran parte del proprio elettorato; il radicamento nel mondo del lavoro e fra i giovani è ridotto ai minimi termini, quello territoriale continua a contrarsi con intere zone del paese dove ormai il partito non è presente in forma organizzata. La struttura nazionale è un guscio vuoto senza reali radici, un apparato centrale sempre più ridotto continua a dibattersi alla ricerca di una base sulla quale sostenersi, senza produrre alcuna inziativa coerente capace di dare all’insieme del partito un orientamento politico e un terreno di costruzione sul quale impegnarsi in modo sistematico.
È in corso un processo di balcanizzazione o “federalizzazione” del partito stesso; sempre di più i livelli locali tendono ad autonomizzarsi, in particolare laddove rimane un insediamento istituzionale attorno al quale si raggruppano spezzoni di gruppi dirigenti.
Il Prc non è oggi una forza politica presente nella coscienza di massa, né è uno strumento considerato utilizzabile per settori di avanguardia del movimento.
La crisi organizzativa è il riflesso della profonda crisi politica, del crollo degli assi sui quali, con alterne vicende, il partito si è retto in questi vent’anni.
Si è creato un vero e proprio “labirinto ideologico”, nel quale si cerca di volta in volta la pietra filosofale capace di risolvere magicamente la nostra crisi e rimetterci in campo. Il Prc rischia di trasformarsi in una setta, senza peraltro liberarsi dell’istituzionalismo che è stata una delle cause fondamentali delle sconfitte passate.
Di fronte a questa crisi si è diffusa in un settore della militanza l’idea che il partito possa essere rilanciato sulla base di un puro attivismo slegato da un progetto, un programma, una teoria, una strategia. È un concetto unilaterale che se portato alle ultime conseguenze crea un rischio di spoliticizzazione. Raccogliere le spinte che provengono dai settori più combattivi dei lavoratori e dei giovani è indispensabile, ma è un obiettivo che non può essere perseguito sulla base del semplice volontarismo, o dell’idea che “le grandi discussioni non servono e creano solo divisioni, dobbiamo fare subito qualcosa per chi subisce le conseguenze della crisi”. Per creare le basi di un lavoro di base efficace è precisamente necessaria la chiarezza delle analisi, delle scelte politiche e delle strategie di intervento.
Irresponsabilità del gruppo dirigente
Il gruppo dirigente ha sistematicamente rifiutato di assumersi le proprie responsabilità di fronte al partito. Per oltre due anni si è portata avanti la finzione della Federazione di sinistra; crollata questa sotto il peso di contraddizioni insolubili si è passati senza colpo ferire a una nuova proposta di aggregazione a sinistra (Prc, Idv, Sel) che a sua volta si è dimostrata impraticabile e ha condotto al tentativo di Alba, sfociato in “Cambiare si può” che a sua volta è morta nel giro di un mese cedendo il passo a Rivoluzione civile…
Questo rincorrersi frenetico di proposte sempre più improbabili si è svolto senza che mai venisse tratto un bilancio onesto dell’esperienza precedente. Si afferma un metodo grottesco di “autocritiche a scoppio ritardato”: nel 2008 si fa l’autocritica per l’errore del 2006 (entrata nell’Unione), nel 2012 si compie l’autocritica per l’errore della Federazione della sinistra, ora si fa l’autocritica per Rivoluzione civile… È un metodo che nega il principio della responsabilità politica e mina alla base qualsiasi possibilità di rigenerazione del partito. Questo metodo è stato riproposto anche nella fase preparatoria di questo congresso con la scelta di rinviarlo di oltre sei mesi (rimangiandosi le solenni dichiarazioni del Segretario) al solo scopo di guadagnare tempo per tornare ad avanzare l’ennesima proposta di aggregazione a sinistra che non si distingue in nulla da quelle che sono fallite negli scorsi anni.
Va registrato che la sconfitta elettorale non ha prodotto nel corpo del partito una reazione tangibile. Lo “straordinario congresso” in nome del quale è stato di fatti impedito di aprire il dibattito subito dopo la sconfitta elettorale, ha prodotto l’eterno ritorno del sempre uguale, ossia una nuova versione della linea che ci ha portato alle sconfitte degli ultimi anni; la maggioranza “unitaria” che reggeva la segreteria uscente va in pezzi e si divide tra due opzioni egualmente errate, ovvero tra la riproposizione della linea precedente e la proposta di inseguire con maggiore determinazione Sel e le forze riformiste variamente intese, cercando di gettare un ponte verso il Pd e il centrosinistra.
Una crisi organica del sistema capitalista
La crisi esplosa nel 2008 va qualificata come crisi organica del sistema. Non si tratta del “semplice” manifestarsi di una massiccia sovrapproduzione, dalla quale ancora il sistema nel suo insieme non è uscito, ma anche della destabilizzazione degli equilibri mondiali, dei rapporti fra gli Stati e soprattutto fra le classi.
La fase della cosiddetta globalizzazione termina con una crisi altrettanto globale e nell’esplosione di giganteschi movimenti di massa.
La crisi dell’egemonia mondiale degli Usa è ormai un fatto conclamato non solo a livello economico, ma anche politico e militare. Le sanguinose avventure militari in Afghanistan e Iraq sono clamorosamente fallite, gli Usa non riescono a trovare un saldo punto d’appoggio per intervenire nel Medio Oriente sconvolto dalle insurrezioni popolari, in America Latina non riescono a recuperare il terreno perso negli ultimi dieci anni.
La globalizzazione capitalistica e la liberalizzazione estrema dei mercati che l’hanno contraddistinta non era l’espressione di un capitalismo apolide, capace di reggersi senza un apparato statale che ne difendesse e coordinasse gli interessi generali; essa si era potuta produrre precisamente grazie alla supremazia indiscussa degli Stati Uniti, che dava una base all’operato dei vari organismi interstatali e intergovernativi (Wto, Banca mondiale, Fmi, ecc.) che presiedevano ai processi di liberalizzazione, privatizzazione e demolizione dello Stato sociale e delle tutele sindacali.
Quella fase si sta chiudendo: sotto i colpi della crisi si assiste al ritorno in grande stile dell’intervento statale al fine di socializzare le gigantesche perdite del settore finanziario, e anche per la protezione delle proprie industrie, dei propri mercati, delle fonti di materie prime, delle vie di approvigionamento e delle rotte commerciali. In alcuni casi si assiste anche alla rinazionalizzazione di settori della finanza, banche fallite ma anche sistemi pensionistici privati.
Contestualmente si passa da una fase di liberalizzazione spinta degli scambi e dei movimento di capitali a un ritorno protezionista. C’è chi, anche a sinistra, considera questo un passaggio positivo grazie al quale al mondo unipolare dominato dallo strapotere dell’imperialismo a stelle e strisce succederà un mondo multipolare nel quale il dialogo e il rispetto della sovranità nazionale e quindi della sovranità popolare saranno più garantiti. Nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà. Si apre invece una fase di accresciuta concorrenza e lotta per l’egemonia nei vari settori del pianeta. L’aspetto positivo della nuova situazione risiede nella rottura della gerarchia che reggeva il capitalismo mondiale, nell’aprirsi di contraddizioni nella classe dominante a livello mondiale, che creano varchi nei quali processi rivoluzionari possono più facilmente prendere piede e diffondersi, come dimostra l’enorme capacità dei movimenti di questi anni di diffondersi al di là di frontiere e continenti.
I processi rivoluzionari non nascono solo dal basso, dalla ribellione di massa di fronte a condizioni intollerabili e alla chiusura di qualsiasi prospettiva di un futuro degno, ma nascono anche dall’alto, ossia dalla crisi della classe dominante che non è più in grado di mantenere il consenso e la forza sufficienti per governare la società e le classi subalterne, che si divide sulle scelte fondamentali per affrontare le contraddizioni generate dalla crisi.
Il processo rivoluzionario aperto nel mondo arabo costituisce una chiarissima conferma di questa analisi.
Dialettica della rivoluzione araba
Il risveglio del popolo arabo iniziato con la rivoluzione in Tunisia nel gennaio del 2011 e proseguito con la rivoluzione egiziana ha colto di sorpresa non solo i vecchi regimi, crollati come castelli di carte di fronte al movimento delle masse, ma anche le potenze imperialiste che nel giro di poche settimane si sono trovate prive di alcuni dei loro tradizionali punti d’appoggio.
La sinistra a sua volta è stata completamente incapace di prevedere o di comprendere il processo in atto, schiava di una concezione che vedeva nelle masse arabe una popolazione sottomessa e politicamente arretrata. Una versione particolarmente perniciosa di questa visione è quella che dipinge la primavera araba come frutto di un complotto degli Usa e delle altre potenze imperialiste.
Tali visioni denunciano il vero e più profondo male che avvelena la sinistra, ossia la completa sfiducia nei lavoratori, nei giovani, negli oppressi.
Siamo di fronte a un nuovo e gigantesco risveglio del popolo arabo, che ripropone su scala incommensurabilmente più vasta i problemi storici irrisolti che furono alla base della prima ondata delle rivoluzioni arabe, quella che negli anni ’50 e ’60 vide il popolo arabo tentare di scrollarsi di dosso le eredità coloniali e neocoloniali ed esprimere la sua aspirazione all’unità e a una vera indipendenza. Oggi il processo è molto più avanzato a causa della diversa composizione sociale di molti di questi paesi, che hanno visto una forte proletarizzazione e la presenza di una generazione di giovani spesso scolarizzati e privati di qualsiasi futuro. Inoltre il livello di integrazione economica e anche politica del mondo arabo nei meccanismi del capitalismo su scala mondiale (attraverso lo sviluppo dei rapporti commerciali e dei flussi di capitale, nonché nella forte emigrazione) conferisce a questi avvenimenti una importanza mondiale. Non è solo per sentimentalismo che Piazza Tahrir è diventata un simbolo mondiale di rivolta e di rivoluzione.
La debolezza della sinistra nel mondo arabo e la sua sudditanza nei confronti delle forze liberali filo occidentali hanno permesso in una prima fase ai partiti islamici tradizionali (Fratelli musulmani, Ennahda) di presentarsi come depositari delle speranze popolari. Tuttavia sono bastati pochi mesi per smentire questa pretesa e anche chi, nella sinistra, formulava fosche previsioni di deriva islamista della rivoluzione e di dominio incontrastato dell’islam politico e della Sharia. Va ricordato innanzi tutto che né in Tunisia né in Egitto i partiti islamisti hanno mai conquistato la maggioranza dei consensi neppure a livello elettorale. Ma il punto centrale è che si sono dimostrati del tutto incapaci di dare risposta alla crisi sociale e ai bisogni immediati delle masse lavoratrici, che ben presto si sono trovate a riprendere la strada della mobilitazione con scioperi e manifestazioni diffuse.
Il tentativo dei partiti islamici di monopolizzare l’apparato statale, il loro appoggio allo squadrismo di estrema destra (ricordiamo l’assassinio in Tunisia di Choukri Belaïd e Mohamed Brahmi) hanno generato una nuova ondata di rivolta che in Egitto ha portato alle più grandi manifestazioni della storia con 17 milioni di persone in piazza. Decine di municipi sono stati occupati dagli insorti, le sedi dei fratelli musulmani sono andate a fuoco in tutto il paese, in numerose città l’apparato statale era di fatto sparito e il potere era in mano alle massse. Il movimento è stato a un livello assai più alto, per numeri e per determinazione, di quello del 2011 e solo questo spiega la scelta dei vertici dell’esercito di costringere Morsi alle dimissioni. In assenza di tale decisione e nella impossibilità di reprimere un movimento di quella portata, la prospettiva di una spaccatura nell’esercito era tutt’altro che remota, come confermato da diverse testimonianze.
Il disegno islamista era sostenuto fortemente dal governo turco dell’Akp di Erdogan e dal regime del Qatar, entrambi in prima linea anche nell’intervento in Libia. Ma lo stesso Erdogan che aspirava a rilanciare le ambizioni turche nel mondo arabo anche attraverso l’intervento diretto nella guerra civile siriana ha dovuto fare i conti con il “convitato di pietra”, ossia con l’improvviso e inaspettato erompere del movimento di piazza Taksim, che ha messo a nudo la fragilità del suo governo e l’opposizione alla sua politica interna ed estera.
Come tutti i processi reali, la rivoluzione araba non procede in linea retta. Il bonapartismo è un rischio reale che minaccia la rivoluzione egiziana, se il movimento di massa non riesce a creare una direzione politica e a sviluppare gli strumenti di un contropotere espressione delle masse che hanno rovesciato Mubarak e Morsi, l’esercito può tentare di elevarsi al di sopra delle parti in lotta accentrando ulteriormente il potere nelle proprie mani e portando la rivoluzione a un fallimento drammatico. Ma si tratta di uno scontro aperto nel quale l’onda oggi è ancora ascendente e può creare le condizioni per una vittoria rivoluzionaria. Il nostro compito non è di unirci a coloro che tutti i giorni recitano il necrologio della rivoluzione araba, ma contribuire attivamente, in Italia e nel mondo, all’emergere dell’alternativa di classe.
Accanto all’erompere della rivoluzione c’è stato lo schierarsi delle forze reazionarie che in Libia e in Siria sono riuscite ad emarginare le forze progressiste che inizialmente animavano la protesta, aprendo una sanguinosa guerra civile nella quale tutte le forze più oscurantiste, dai regimi del Golfo ai Talebani, ad Al Qaeda, sono intervenute nel tentativo di liberarsi di Assad ma soprattutto di ristabilire un punto di appoggio per la reazione nella regione. Usa, Francia e Gran Bretagna, hanno approfittato della situazione in Libia e hanno tentato di fare lo stesso in Siria.
Anche qui però si vede come la destabilizzazione dei rapporti di forza a livello mondiale e regionale non permetta più alle potenze imperialiste di fare il bello e il cattivo tempo. La rivoluzione araba è un calderone ribollente nel quale è assai rischioso mettere le mani e la classe dominante è fortemente divisa al riguardo, come dimostra la clamorosa sconfitta di Cameron quando il parlamento inglese gli ha negato il via libera per l’intervento in Siria.
Va in pezzi la visione di chi, per motivi opposti, presentava come uniche opzioni possibili l’appoggio o alle “guerre democratiche e umanitarie” oppure alle forze fondamentaliste. Si apre invece un nuovo spazio nel quale il movimento di massa dei lavoratori in tutto il Medio Oriente dovrà costuire le proprie espressioni politiche indipendenti per dare uno sbocco positivo alla rivoluzione iniziata due anni fa, con il definitivo rovesciamento delle forze del vecchio sistema che apra la strada a una federazione socialista che garantisca il diritto a una esistenza pacifica a tutti i popoli, etnie e confessioni religiose sulla base di un’economia nazionalizzata e pianificata democraticamente. È questa anche l’unica soluzione progressista all’incancrenirsi senza fine della questione palestinese.
La crisi e l’Unione europea
Sotto gli effetti della crisi l’Unione europea sta mostrando tutte le sue contraddizioni. Nell’ultimo anno la Bce ha tamponato la crisi dei debiti sovrani con una versione “creativa” delle politiche della Fed e delle altre grandi banche centrali che hanno inondato i mercati di valuta fresca ritirandone in cambio titoli per migliaia di dollari e di euro e impedendo il tracollo del sistema bancario. Ma questa politica ha limiti ben precisi. Spostare i debiti dai bilanci privati a quelli statali e da questi a quelli delle banche centrali (già oggi rigonfi di carta straccia scambiata con moneta sonante) non è una soluzione per una crisi di questa dimensione. Alla lunga tale politica non fa altro che spostare il debito da una parte all’altra accumulando inoltre un rischio inflazionistico che al momento non si manifesta su vasta scala solo per la debolezza generale della domanda.
In Europa tale contraddizione è aggravata dalla natura dell’euro, valuta che non è sorretta da uno Stato ma da un’Unione le cui economie accumulano crescenti contraddizioni.
In realtà l’euro non è già più pienamente una moneta unica: le misure di emergenza prese durante la crisi cipriota (blocco dei conti correnti sopra i 100mila euro, forti limitazioni all’esportazione di valuta anche all’interno dell’eurozona, limiti ai prelievi, ecc.) di fatto hanno introdotto tacitamente il principio che un euro non è più eguale a qualsiasi altro euro: un euro a Cipro non ha più le stesse prerogative (e quindi potenzialmente lo stesso valore) di un euro in un altro paese. Così Martin Wolf ha commentato i risultati della crisi cipriota: “…un euro non ha lo stesso valore ovunque. (…) Quello che è successo a Cipro mostra chiaramente che il valore di un euro di passività bancarie dipende dalla solvibilità della banca stessa e dalla solvibilità del Governo che sta dietro a quella banca. Se tanto la banca quanto lo Stato sono insolventi, i prestatori hanno buone possibilità non solo di perdere una grossa fetta dei loro soldi, ma anche di scoprire che il resto è congelato sotto la cappa dei controlli di capitale.” (Financial Times, 27 marzo).
Il vero significato degli “aiuti” ai paesi indebitati è ben chiarito da queste cifre sull’impiego dei fondi destinati alla Grecia.
Dalla primavera 2010 al giugno 2013 la Grecia ha ricevuto dalla Troika 219 miliardi di euro. Di questi 122,2 miliardi sono stati spesi per ripagare i possessori dei bond, 41 miliardi nei programmi riacquisto e ristrutturazione debito, 48,2 miliardi nella ricapitalizzazione delle banche e soli 7,6 miliardi nel sostegno al bilancio dello Stato. Solo una parte di questi ultimi sono andati a salari e pensioni. Da qui al 2016 lo Stato deve pagare, per interessi e rinnovare debiti, 105 miliardi euro. Il debito pubblico complessivo rimane a 330 miliardi di euro. Queste cifre dimostrano il fallimento della linea dell’austerità e l’impossibilità di risolvere le contraddizioni che attraversano l’eurozona.
L’euro sopravvive per ora grazie alla copertura offerta da Draghi, ma al di sotto di questa apparente calma continuano i processi di disgregazione della moneta unica e della stessa Unione europea. Le banche, che necessitano sempre più dell’appoggio degli Stati oltre che della Bce, tornano a concentrarsi sulla propria base nazionale di origine; la stessa crisi industriale vede tra i suoi effetti un ritorno delle multinazionali al proprio territorio di riferimento, come dimostrano anche le scelte delle multinazionali tedesche presenti in Italia.
Il sogno dell’integrazione europea su basi capitalistiche si è trasformato in un incubo nel quale tutti gli avanzamenti sociali e i diritti conquistati in decenni di lotte del movimento operaio vengono sacrificati sull’altare delle politiche di bilancio imposte dalla troika, senza peraltro che questi sacrifici ottengano alcun risultato positivo.
Uno studio della banca d’affari Usa JP Morgan afferma candidamente che i diritti sindacali e i diritti democratici sono incompatibili con la soluzione capitalistica della crisi europea.
D’altro canto il ritorno alla dimensione nazionale è non meno utopistico e reazionario dell’europeismo borghese. Lo sviluppo industriale e tecnologico ha ormai da decenni superato le dimensioni ridotte degli Stati nazionali, tanto più di quelli europei. Se il “socialismo in un solo paese” è fallito nello scorso secolo, ancora più assurdo appare il sogno di un ritorno alla “sovranità nazionale” nelle condizioni odierne. Il mercato mondiale previsto oltre 150 anni fa nelle pagine del Manifesto del partito comunista è oggi la realtà dominante dell’economia e della politica su scala planetaria.
Il movimento operaio ha una sola opzione progressiva da avanzare: il superamento non solo della proprietà privata dei mezzi di produzione, ma anche delle barriere degli Stati nazionali e la costruzione di una economia pianificata su scala internazionale, nella quale l’insieme delle risorse del pianeta venga razionalmente impiegato non in base alle priorità del profitto e del mercato, ma in base ai bisogni della popolazione e di un rapporto non distruttivo con l’ambiente naturale e con le risorse del pianeta.
Ma a questo fine non si può arrivare per riforma, evoluzione o democratizzazione delle istituzioni dell’Unione europea. L’europeismo, ossia l’ideologia fondata sul tentativo di integrare l’Europa su basi capitalistiche, è stato spacciato a sinistra per anni come una sorta di internazionalismo, contribuendo non poco alla sconfitta della sinistra nel nostro paese. Ai limiti del grottesco, oggi nel nostro partito ci si propone una autocritica che con “soli” 17 anni di ritardo riconosce l’errore compiuto nel 1996 con l’adesione al processo di fondazione della moneta unica (che coincise con il nostro sostegno al primo governo Prodi).
La sinistra e l’Europa
Il Partito socialista europeo è stato una delle forze decisive nella costruzione dell’Unione europea e non a caso oggi subisce le conseguenze della crisi dell’euro. Il Pasok è il caso più evidente date le condizioni estreme della crisi greca e della polarizzazione sociale e politica che ha generato. Ma anche negli altri paesi vediamo l’impotenza e la crisi politica di queste forze. In Spagna, Francia, Portogallo, Italia, sia dal governo che dall’opposizione i partiti del Pse sono stati attivi promotori delle politiche di massacro sociale.
Per noi è ancora più importante la posizione che assumono le forze a sinistra del Pse, particolarmente in quei paesi dove sono in forte avanzata elettorale (Grecia, Francia, Spagna). La posizione ad oggi prevalente rimane quella di un’utopistica riforma o “rifondazione” dell’Unione europea, di una riforma della Bce che le permetta di condurre politiche inflazionistiche analoghe a quelle seguite dalla Fed, dalla Banca d’Inghilterra e dalla Bank of Japan. Esistono poi posizioni che propongono come soluzione il ritorno alle valute nazionali, espresse ad esempio in un appello firmato fra gli altri dall’ex segretario del partito comunista spagnolo, Anguita.
A causa di queste contraddizioni, la Sinistra europea assume posizioni equilibriste e confuse (lottare per la riforma dei trattati europei, se non si raggiunge l’obiettivo considerare la disobbedienza unilaterale, che potrebbe portate alla cacciata di uno o più paesi dall’euro, ma che potrebbe essere la leva di nuove aggregazioni…) che si riflettono anche nel nostro dibattito.
La nostra posizione deve essere chiara: siamo contro l’Unione europea capitalista. Una unione autenticamente democratica può nascere solo sulla base di un’economia socialista. Il problema quindi non è dove risiede la “sovranità” (se a Roma o a Bruxelles), ma quale classe detiene il potere.
Se in un paese europeo le forze della sinistra dovessero andare al governo (Grecia) il compito sarebbe la denuncia dei trattati, il rifiuto di onorare gli accordi capestro, la nazionalizzazione del sistema bancario e il controllo dei movimenti di capitale come misure immediate difensive anche a costo di subire la cacciata dalla moneta unica. A chi risponde che questo comporterebbe gravi e pesanti sacrifici rispondiamo che i sacrifici ci vengono imposti ormai da anni senza produrre altro risultato che il peggioramento della situazione e l’approfondirsi del divario fra ricchi e poveri a livelli mai visti da generazioni.
Il lavoratori e i pensionati greci hanno subìto di fatto un dimezzamento del proprio tenore di vita, uno stato di saccheggio e immiserimento diffuso nel paese, fino al punto che si calcola un calo dell’aspettativa di vita di 7-8 anni: parliamo quindi non solo di un calo statistico del tenore di vita, ma di un impoverimento fisico, biologico, delle classi subalterne.
Da quando l’ascesa elettorale di Syriza ha reso probabile il suo arrivo al governo, il gruppo dirigente ha sensibilmente moderato il proprio discorso politico. Tsipras tenta di rassicurare i centri di potere del capitalismo internazionale che un governo di Syriza agirà per salvare l’euro. Ma l’idea di mantenere la Grecia nell’euro e al tempo stesso evitare i piani di austerità e applicare una politica socialmente equa è la peggiore delle illusioni, la stessa contro la quale per due volte si è scontrata Rifondazione comunista partecipando ai governi di centrosinistra per poi uscirne politicamente distrutta.
È quindi un punto decisivo sul quale il Prc deve chiarire la propria posizione e avanzarla anche nel dibattito internazionale: ci opponiamo all’illusione di una riforma o rifondazione dell’Europa su basi capitaliste, quale che sia la terminologia con la quale viene abbellita (“Europa dei popoli”, “difesa del modello sociale europeo”, ecc.), siamo per la denuncia dei trattati e della rottura con l’Unione europea capitalista come parte di un programma di transizione il cui obiettivo finale non è il ritorno alle piccole patrie ma la costruzione di una federazione socialista sulla base di una economia democraticamente pianificata, alla quale i popoli possano aderire su basi realmente volontarie e democratiche.
Il programma necessario
La crisi ha minato le basi economiche di qualsiasi politica di autentiche riforme, non solo sul piano sociale ma anche sul terreno dei diritti democratici. I programmi “ragionevoli” delle forze riformiste e in particolare delle burocrazie sindacali sono completamente sconnessi dalla realtà. Alla fine sono tutte proposte legate al sogno del ritorno indietro sulla base di un utopistico rilancio delle politiche keynesiane. Si sogna un capitalismo equilibrato, nel quale la finanza sia messa sotto controllo, il fisco sia più equo, lo Stato aiuti le imprese produttive, ecc.
La moderazione estrema di questi programmi non convince affatto il padronato e al tempo stesso allontana i lavoratori che non vedono alcuna seria risposta alla gravità della situazione.
Non esiste un “programma minimo” realizzabile oggi per poi passare in un futuro più o meno distante a una piattaforma più avanzata. La nostra piattaforma fondamentale deve partire dalle risposte immediate alla crisi sociale nella logica del programma di transizione, ossia di un programma nel quale non c’è una barriera che separa le rivendicazioni immediate e la prospettiva del rovesciamento di questi rapporti di produzione.
Le rivendicazioni più urgenti vanno avanzate in questa logica.
Contro la crisi industriale devastante lottiamo per l’esproprio sotto la gestione dei lavoratori delle aziende che chiudono, licenziano, delocalizzano le produzioni.
Nazionalizzazione delle banche, effettiva pubblicizzazione di Cassa depositi e prestiti e di Poste italiane, creazione di una banca pubblica che garantisca i piccoli risparmiatori, il prestito alle classi popolari e sostenga un piano economico nazionale di rilancio delle industrie espropriate.
Nazionalizzazione dei grandi gruppi industriali a partire dal gruppo Riva e dal gruppo Fiat. Le nazionalizzazioni striscianti oggi in atto (vedi Monte Paschi, o le proposte di “nazionalizzazione temporanea” dell’Ilva) ripropongono la vecchia logica di socializzare le perdite (e i danni ambientali) e privatizzare i profitti. Questa politica ha portato alla distruzione dell’intera industria pubblica (elettronica e telecomunicazioni, chimica di base, siderurgia, ecc.) negli ultimi 30 anni. A questo opponiamo la rivendicazione dell’esproprio senza indennizzo salvo per i piccoli azionisti, l’apertura dei libri contabili per recuperare i profitti fatti negli scorsi anni, e la trasformazione in aziende pubbliche sotto il controllo dei lavoratori e degli utenti.
Nazionalizzazione delle reti fondamentali (trasporti, telecomunicazioni, energia, acqua, autostrade, ciclo dei rifiuti). Rinazionalizzazione o municipalizzazione delle utilities privatizzate in questi vent’anni e loro trasformazione in servizi pubblici sotto il controllo dei lavoratori e degli utenti.
Diritto alla casa e lotta alla speculazione. Nazionalizzazione del suolo, per un piano nazionale di edilizia popolare attraverso il censimento e il riutilizzo delle case sfitte e l’esproprio del patrimonio delle grandi immobiliari.
Contro le politiche di austerità. Rottura unilaterale coi trattati europei che obbligano all’austerità permanente; pagamento del debito solo ai piccoli risparmiatori.
Colpire le grandi ricchezze. Tassazione dei grandi patrimoni, controllo dei movimenti di capitali. Abolizione delle imposte indirette che gravano sui consumi di massa. Forte progressività dell’imposta sui redditi. Soppressione di Equitalia e di tutte le agenzie private di riscossione delle imposte.
Difesa e rilancio dei salari. Salario minimo intercategoriale fissato per legge, non inferiore ai 1200 euro mensili come soglia minima per tutti i contratti di lavoro. Per una nuova scala mobile che indicizzi il salario minimo e l’intera scala salariale all’inflazione reale.
Lotta alla disoccupazione e alla precarietà. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario. Blocco dei licenziamenti. Salario ai disoccupati pari all’80 per cento del salario minimo. Abolizione delle leggi precarizzanti, dal pacchetto Treu alla legge 30, trasformazione dei contratti precari in assunzioni stabili. Ritorno al collocamento pubblico
Per uno Stato sociale universale e gratuito. Abolire tutte le controriforme che hanno introdotto la privatizzazione o la logica privata nella sanità, nella scuola, nell’assistenza. Raddoppio immediato dei fondi destinati all’istruzione e alla sanità, abolizione di ogni finanziamento alle strutture private. Abolizione delle Aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, contro la scuola e l’università-azienda. Nazionalizzazione dell’industria farmaceutica e degli istituti di ricerca.
Pensioni pubbliche e dignitose, abolizione della legge Fornero, in pensione con 35 anni di lavoro o a 60 anni con una pensione pari all’80 per cento dell’ultimo salario e comunque non inferiore al salario minimo. Incorporazione dei fondi pensione in un unico sistma Inps pubblico con restituzione del tfr ai lavoratori. Scorporo delle prestazioni assistenziali dall’Inps e loro trasferimento a carico della fiscalità generale.
Per la difesa dell’ambiente e del territorio. Unificazione e coordinamento delle vertenze ambientali (No Tav, No Muos, lotta contro le discariche e gli inceneritori…) con un programma di esproprio e riconversione sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che inquinano, per un piano nazionale di riassetto del territorio, di riconversione energetica, di investimento sulle energie rinnovabili, sul ciclo dei rifiuti, sul trasporto sostenibile, possibili solo sulla base di un sistema industriale pubblico e pianificato democraticamente.
Istruzione pubblica, laica, democratica e gratuita. No alla logica privata dell’autonomia scolastica e universitaria; istruzione gratuita nell’accesso e nei servizi (libri, alloggi, trasporti). No ai test d’ingresso e al numero chiuso. Per un piano di rilancio dell’edilizia scolastica, massimo di 20 alunni per classe. Gestione democratica dell’istruzione, contro presidi e rettori-manager, poteri effettivi a consigli paritetici di istituto e di facoltà. No a qualsiasi finanziamento alle scuole private, abolizione dell’ora di religione.
Solo sulla base di un programma economico che intervenga alle radici della crisi economica e sociale è possibile sviluppare una effettiva difesa dei diritti democratici, e in particolare:
Abolizione della Bossi-Fini, dei flussi e delle quote, dei Cie e del reato di immigrazione clandestina. Permesso di soggiorno per tutti, diritto di voto per chi risiede in Italia da un anno, pieno accesso a tutti i servizi sociali; cittadinanza dopo cinque anni per chi ne faccia richiesta, cittadinanza italiana per tutti i nati in Italia.
Abolizione delle leggi repressive, della Fini-Giovanardi alle leggi di emergenza ancora usate pesantemente contro i movimenti di protesta e di lotta.
Diritti delle donne. Lotta per una effettiva parità nel lavoro. Per garantire le basi reali e materiali dell’autodeterminazione femminile lottiamo per una effettiva socializzazione del lavoro domestico e di cura attraverso una rete capillare di asili nido, di scuole materne e di strutture assistenziali (disabilità, anziani, ecc.) pubblici e gratuiti, per servizi pubblici (lavanderie, mense, ecc.) che strappino queste funzioni dalle mura di casa. La legge 194 va non solo difesa ma rilanciata nei suoi punti fondamentali e superata nei suoi limiti. Estensione e rilancio della rete dei consultori pubblici, esclusione delle strutture private confessionali e non. Gratuità degli anticoncezionali e introduzione della RU 486 su tutto il territori nazionale. Educazione sessuale nelle scuole.
Per uno Stato laico, abolizione del Concordato e dell’8 per mille, esproprio del patrimonio immobiliare e finanziario della Chiesa e delle sue organizzazioni collaterali (circa il 20 per cento dell’intero patrimonio immobiliare italiano), nessun finanziamento ad alcuna confessione religiosa, piena separazione tra Chiesa e Stato.
Controllo operaio, democrazia dei lavoratori. Le “caste” si combattono lottando per la eleggibilità e la revocabilità di tutte le cariche pubbliche, introducendo il principio per cui nessuna carica può essere retribuita con un salario superiore a quello di un lavoratore qualificato, sviluppando a tutti i livelli la lotta per il controllo dei lavoratori, degli utenti, dei cittadini sulle attività economiche, sociali, culturali. La lotta per superare l’economia capitalista è anche una lotta contro i suoi sottoprodotti: privilegi, corruzione, abusi, burocratizzazione.
Sulla base di questa traccia è necessario sviluppare una discussione dentro e fuori del partito che porti alla elaborazione di un programma complessivo che costituisca la base della nostra azione in tutti i campi in cui interveniamo.
La crisi italiana marcisce preparando una gigantesca esplosione sociale e politica
La crisi senza precedenti del sistema politico italiano non è un fatto puramente interno e nazionale, ma la manifestazione specifica, nelle condizioni del nostro paese, della crisi globale del capitalismo. L’assenza di un movimento di massa generalizzato non rimuove le contraddizioni di fondo, che si esprimono nel tracollo di tutte le istituzioni, partiti, apparati di governo. I governi di larghe intese, prima Monti e poi Alfano-Letta, sono l’espressione più chiara della crisi politica della borghesia italiana. Tre partiti, ciascuno a suo modo sconfitto nelle elezioni politiche, si arroccano e costituiscono un governo la cui unica attività è promettere un futuro migliore e sopravvivere fino alla settimana successiva. Al di sotto di questa cupola politica marcescente, la crisi sociale precipita, dilagano il disincanto, la rabbia e il distacco generale da qualsiasi illusione o speranza nelle istituzioni della democrazia borghese.
In assenza di chiari riferimenti a sinistra questo processo si è manifestato nel voto al Movimento 5 stelle. Il movimento di Grillo si configura come fenomeno transitorio, il suo carattere informe e contraddittorio non reggerà di fronte al manifestarsi anche nel nostro paese di un chiaro conflitto di classe che costringerà tutti a schierarsi su linee di demarcazione nette.
I vertici dei sindacati confederali, nella ritrovata unità al loro interno e con la Confindustria di Squinzi, sono pienamente interni a questo processo e non a caso il documento comune (l’ennesimo) firmato congiuntamente dalle “parti sociali” il 3 settembre apre la lista delle richieste al governo con l’auspicio della “governabilità”.
Lo sbocco inevitabile di questo stallo politico sarà una gigantesca esplosione dal basso, sulla falsariga di quanto abbiamo visto in altri paesi dell’Europa del sud, ma anche in Brasile o in Turchia. Il fatto che nessuna forza politica o sindacale si ponga in sintonia e dia una espressione organizzata allo stato d’animo di rabbia e di opposizione che esiste fra la gran maggioranza dei lavoratori e dei giovani ha l’effetto temporaneo di ritardare lo scoppio di una protesta. Ma inevitabilmente questo le conferirà un carattere esplosivo, spontaneo e inatteso esattamente come è accaduto per tutti i principali movimenti a livello internazionale negli ultimi anni.
Questo non significa che si debba attendere passivamente il risveglio e la scesa in campo di nuovi movimenti di massa. Un lavoro sistematico di costruzione, di organizzazione fra i settori più attivi, di chiarificazione politica e programmatica, non solo favorirà lo sviluppo del movimento ma è indispensabile per determinarne la traiettoria e dargli una espressione il più possibile cosciente e organizzata. È questo oggi il compito fondamentale dei comunisti nel nostro paese.
In Italia, a differenza di altri paesi, il ritardo nello sviluppo di un movimento di massa ha fatto sì che la crisi scoppiasse direttamente sul terreno politico, manifestandosi inizialmente come crisi del regime politico, delle istituzioni, dei partiti e in generale di tutto il sistema di dominio e degli equilibri della democrazia borghese. Se la sinistra perbenista ed educata sparge lacrime sulla “crisi della democrazia”, il “distacco dei cittadini dalla politica”, il nostro compito è invece capire le radici e gli esiti possibili di questo processo.
Il fatto che milioni di persone non credano più alla rispettabilità e alla imparzialità delle istituzioni dominanti e siano alla ricerca di una alternativa è enormemente positivo. Tale rottura si è in realtà consumata nella coscienza di milioni di lavoratori, di giovani, di ceto medio impoverito dalla crisi. Milioni di persone, probabilmente la maggioranza, non si aspettano ormai più nulla dal complesso delle istituzioni (partiti, parlamento, governo, ecc.) che dovrebbero garantire la gestione del sistema. È un passaggio necessario e positivo. Altrettanto positiva è la difficoltà crescente della classe dominante a dare un assetto stabile al proprio sistema politico.
L’unità nazionale che a partire da due anni è la formula di governo obbligata, non è un segno di forza bensì di debolezza estrema della classe dominante sul piano politico. Questa debolezza si è manifestata in modo plateale nel fallimento clamoroso del progetto di Monti, che pur godendo dell’appoggio dei settori più forti della borghesia nazionale e internazionale ha subìto una sconfitta umiliante alle ultime elezioni e oggi è completamente marginale nello scenario politico.
L’unità nazionale sfocia in una paralisi politica destinata ad esplodere sotto la spinta di interessi di classe sempre più inconciliabili che lacerano la società, minando nel profondo la base di appoggio dei partiti che la sorreggono.
Da questa crisi politica non si può uscire con la “rinascita della democrazia”, non più di quanto dalla crisi economica si possa uscire con il rilancio di politiche economiche riformiste: sono due lati della stessa realtà. Di tutte le proposte in campo la più illusoria e fallimentare è quella di una “rivoluzione democratica”, di “difendere e attuare la Costituzione”. Quale dovrebbe essere il contenuto sociale e di classe di tale “rivoluzione democratica”? Quali forze la sosterrebbero e contro quali forze si dovrebbe compiere? La “democrazia progressiva” fondata sulla Costituzione è stata per decenni la pietra angolare della strategia e della ideologia del gruppo dirigente del Pci e ha avuto quasi mezzo secolo a disposizione, da Togliatti a Berlunguer, per dimostrare la sua inconsistenza. Il fatto che oggi si riproponga la stessa idea in versione più o meno aggiornata è la più chiara indicazione di come i gruppi dirigenti della sinistra vivano in un passato che non può tornare.
Il nostro compito non è “riavvicinare i cittadini alle istituzioni e alla politica”, bensì trasformare il sentimento embrionale e certamente confuso di rifiuto, di opposizione e di rigetto del sistema esistente in un movimento di massa nel quale porre con nettezza la questione del superamento di questo sistema.
Il Partito democratico è un tentativo di “unità nazionale in un solo partito”, nel quale il residuo insediamento di sinistra legato all’eredità del Pds-Ds e al rapporto con la Cgil vengono subordinati all’egemonia del settore borghese. In conformità con questa sua natura, il Pd è destinato a diventare uno dei punti dove più fortemente si scaricheranno le tensioni sociali generate dalla crisi. Per due volte in due anni, nel 2011 e nel 2013, il Pd ha volontariamente rinunciato all’opportunità di dare il colpo di grazia a Berlusconi, aprendo di conseguenza la crisi più profonda della sua breve storia. L’ascesa di Renzi alla guida del Pd appare ormai inevitabile e, pur inserendosi in un processo in corso già da anni, rappresenta un passaggio qualitativo. La speranza del “cambiamento” promessa da Bersani (e Vendola) è stata l’ultima bandiera sventolata di fronte all’elettorato di sinistra, con la convinta collaborazione dell’apparato della Cgil. Su quella base Bersani aveva vinto le primarie a fine 2012 e impostato la propria campagna elettorale. Il cambiamento tuttavia non c’è stato, Bersani ha subìto una doppia catastrofica sconfitta nelle elezioni e nell’elezione del Presidente della repubblica, il Pd governa con Berlusconi e Renzi si appresta a prendere in mano il partito.
Questi sviluppi si riverseranno nel congresso del Pd e contribuiranno a rendere ancora più evidente il vuoto enorme a sinistra.
La crisi della sinistra e la necessità del partito di classe
Le ripetute sconfitte subìte dalla sinistra a partire dal 2008 hanno lasciato un campo estremamente frammentato ma soprattutto incapace di uscire dalle alchimie elettoraliste. Si susseguono oramai a getto continuo gli appelli a nuove aggregazioni, nuovi spazi politici, nuovi processi “unitari”, in una danza immobile nella quale i protagonisti, sempre gli stessi, si scambiano le posizioni scomponendosi e ricomponendosi senza che tutto questo affannarsi produca alcun esito reale.
Una profonda crisi politica ha investito in questi anni la sinistra italiana. Le responsabilità del gruppo dirigente del nostro partito sono centrali, ma si inseriscono in un quadro più generale di crisi del riformismo, che è un fenomeno mondiale, legato alla crisi economica capitalista più seria dagli anni ’30.
Esiste qui una contraddizione: da un lato la perdita dei riferimenti esistenti ha creato un forte disorientamento politico, un ulteriore spostamento a destra delle burocrazie sindacali, la frantumazione fra gli attivisti; dall’altro lato la crisi della socialdemocrazia e dello stalinismo apre la strada alle idee dell’autentico marxismo. In un certo senso i rivoluzionari non hanno più la strada sbarrata verso i lavoratori da organizzazioni di massa, come era il vecchio Pci che aveva fatto rientrare un movimento di massa come quello degli anni ’70 negli argini del compromesso storico.
La crisi profonda della sinistra rende possibile e necessario un nuovo inizio, una battaglia aperta per la costruzione del partito di classe, per l’espressione politica indipendente degli interessi dei lavoratori e delle classi oppresse.
È un compito storico che non può essere assolto con le autoproclamazioni o con aggregazioni improvvisate. Necessita da un lato determinate condizioni obiettive e in particolare la ripresa del conflitto di classe su vasta scala; dall’altro il ruolo del fattore soggettivo, degli attivisti e in particolare di una forza anche ridotta nei numeri, ma politicamente coesa e fondata su un chiaro impianto teorico e programmatico di classe, sarà decisivo nel determinare sia il ritmo che l’esito di questo processo.
Nessuno può prevedere esattamente attraverso quali percorsi può formarsi un partito di massa dei lavoratori nel nostro paese. Possiamo vederne la direzione. Il nostro compito oggi è prendere atto che il partito è stato nei fatti liquidato dalle scelte scellerate del suo gruppo dirigente e che l’unica via d’uscita possibile è di dar vita a un movimento politico che metta al centro la questione di un programma operaio di risposta alla crisi.
Dobbiamo anche superare una visione limitata e provinciale che prende in considerazione solo quello che è stato lo specifico percorso del movimento operaio italiano. Storicamente a livello internazionale il movimento operaio ha visto forme assai diverse attraverso le quali è riuscito a definirsi come forza indipendente nella società e a rompere la subordinazione agli interessi della classe dominante; inoltre tale conquista non è acquisita una volta per tutte, ma può essere messa a rischio o persino cancellata, come è avvenuto nel nostro paese in questi anni.
In Germania, Austria e Russia il movimento operaio ebbe inizio come movimento politico. I sindacati in un primo momento erano sconosciuti. Furono costruiti da un partito politico di impostazione marxista.
Nei paesi latini: Francia, Spagna, Italia, lo sviluppo fu invece differente. Il movimento politico socialista e quello sindacale ebbero percorsi distinti. In un primo momento i sindacati vennero controllati dagli anarchici. Poi i socialisti prevalsero e conquistarono la maggioranza al loro interno. Ma la formazione dei sindacati e dei partiti operai fu più o meno contemporanea. Il Psi nacque a Genova nel 1892, e anche se la Cgl si formerà solo nel 1906, le prime camere del lavoro si erano già formate a partire dal 1891 a Milano, Torino e Piacenza.
Nei paesi anglosassoni le trade unions sono esistite per decenni in assenza di un vero e proprio partito dei lavoratori che si sviluppò con oltre mezzo secolo di ritardo (anche se c’era stata l’anticipazione cartista, distrutta dalla sconfitta della rivoluzione del 1848).
In Gran Bretagna il Labour party si formò con un lungo processo solo con la crisi economica di fine secolo che segnò l’avvio del declino dell’imperialismo inglese. Il movimento sindacale si distaccò dai liberali sostenendo la presentazione di candidati espressi dal movimento operaio (Labour Representation Committee, 1900) e a questa campagna si unirono le piccole organizzazioni politiche già esistenti nella sinistra inglese, tanto che ancora nei primi anni ’20 l’Internazionale comunista proponeva ai comunisti inglesi, piccolo partito che non incideva nel movimento di massa, di aderire in forma organizzata al Labour Party.
Una prospettiva analoga, ossia la costruzione di un partito operaio a partire dai settori più combattivi del movimento sindacale, è stata avanzata più volte nel movimento operaio degli Usa in contrasto con il legame che la gran parte del movimento sindacale ha con il Partito democratico, legame che venne stretto nell’epoca del New Deal e consolidato durante il boom economico del dopoguerra.
L’esistenza di partiti (o sette) socialisti o comunisti non è necessariamente l’unica via attraverso la quale la classe si è espressa politicamente, quando queste forze per limiti ed errori soggettivi si sono dimostrate incapaci di svolgere il loro ruolo. L’America Latina ce ne ha fornito diversi esempi. In Argentina negli anni ‘40 la subordinazione del Partito comunista alle forze politiche legate all’imperialismo Usa (in nome dell’“unità delle democrazie” predicata da Stalin al tempo della Seconda guerra mondiale) permise a un movimento populista borghese come il peronismo di conquistare l’egemonia sul movimento sindacale e sulla gran maggioranza della classe operaia, anche grazie alle condizioni peculiari create dal boom economico. In Brasile l’incapacità del Partito comunista di rompere con la politica di collaborazione di classe fece sì che in un contesto di ascesa rivoluzionaria (lotta contro la dittatura, scioperi di massa) sorgessero il Partito dei lavoratori (Pt) e la Cut come organizzazioni di massa. Non a caso grazie a quel contesto politico il Pt si caratterizzò nei primi anni come “partito senza padroni”, in contrasto con coloro che lo avrebbero voluto caratterizzare fin dal principio come partito “di tutta la società”, ossia interclassista. Altra cosa sono stati gli sviluppi successivi e la deriva riformista che ha caratterizzato in anni più recenti la traiettoria di quel partito.
Questi esempi ci aiutano a capire come il problema del partito di classe può essere affrontato solo in una relazione tra azione soggettiva e dinamica del conflitto di massa.
Produrre una rottura dei sindacati e della sinistra con il Partito democratico è oggi l’obiettivo principale che deve porsi un partito comunista che non si rassegni a restare nell’anonimato. La parola d’ordine del Partito di classe risponde a questa necessità e su questo dobbiamo sfidare i movimenti che si produrranno nella prossima fase, i sindacati più combattivi, come la Fiom, e l’insieme della sinistra.
Questa parola d’ordine si rende indispensabile nella misura in cui la sola salvaguardia del Prc non è più proponibile come soluzione al problema posto e perde quindi di senso la polemica tra liquidatori e antiliquidatori. La battaglia per la difesa del Prc non è in contrasto con la proposta del partito di classe, se si comprende come la prima parla solo a un settore di avanguardia mentre la seconda, in determinate circostanze, può essere decisiva nell’indicare una prospettiva di massa.
Radicarsi fra gli attivisti
A causa della sua crisi prolungata oggi il Prc non è in grado di organizzare e neppure di raggiungere con le proprie proposte la maggioranza dei lavoratori e dei giovani. Il tentativo di scimmiottare un partito di massa che non esiste non fa che peggiorare la situazione: periodicamente si lanciano le grandi campagne “di massa” (ultima della serie, il “piano per il lavoro”) con obiettivi tanto confusi quanto faraonici, campagne che rapidamente cadono nel dimenticatoio senza aver prodotto alcun risultato tangibile se non quello di generare maggiore frustrazione nella militanza.
Occorre partire dalla realtà e non dai propri desideri. Oggi l’unico compito veramente urgente e indispensabile non è quello di gridare più forte di quanto la nostra voce ci consenta nella speranza che la massa ci ascolti, bensì quello di condurre un lavoro sistematico e paziente fra i settori più attivi e militanti, senza i quali è impossibile anche solo pensare di potere influenzare il movimento nel suo insieme.
Si tratta di condurre un lavoro in questo settore più avanzato, quindi, con la consapevolezza che non si tratta solo di raggruppare uno strato militante già esistente, ma soprattutto di scavare più in profondità nella realtà del conflitto di classe e dotarci di strumenti di analisi e di intervento adeguati alle necessità di quegli elementi che si trovano in prima linea nei conflitti. Solo conquistando credibilità e radicamento in questi settori possiamo in futuro ambire a collegarci alla massa.
È decisivo mettere al centro della nostra attenzione il processo di radicalizzazione in corso fra i giovani. Una intera generazione sta maturando la propria coscienza in un quadro sociale e politico completamente diverso dalle generazioni precedenti. La disoccupazione di massa, la chiusura di ogni sbocco, la distruzione della scuola e dell’università pubblica, accompagnata da fenomeni di vera e propria regressione sociale come il crescente abbandono scolastico, sono tutti fattori che creano condizioni esplosive sulle quali si innesca una coscienza antisistema diffusa, anche se priva di chiari riferimenti politici e culturali.
Va tratto un bilancio critico della struttura dei Giovani comunisti, che vive un indebolimento parallelo a quello del partito e si dimostra incapace di produrre analisi che non siano mere trasposizioni della crisi del partito stesso. Esiste uno spazio enorme di intervento che non può essere colmato con la impostazione attuale, che da un lato ha replicato in sedicesimi le vicende del partito (tentativi di riunificazione con la Fgci, diplomazia senza costrutto con questa o quella propaggine burocratica di politica “per i piccoli”), dall’altro si dimostra incapace di costruire strumenti di organizzazione e conflitto fra le giovani generazioni.
L’esistenza di una organizzazione giovanile perde di senso nel momento in cui questa non esprime alcun elemento di controtendenza rispetto alla crisi del partito, né riesce a sviluppare un intervento specifico nei conflitti espressi dalle giovani generazioni.
Questione sindacale
La linea sindacale del Prc si è caratterizzata in questi anni per un codismo deteriore, prima al seguito di un’area quale Lavoro Società, di fatto gamba “sinistra” della gestione Epifani e Camusso in Cgil. Ancora più paradossale il fatto che ci sia rifiutati di contribuire con chiarezza alla battaglia della Fiom quando questa apriva obiettivamente delle contraddizioni nella Cgil con la presentazione della mozione alternativa allo scorso congresso.
Una linea sindacale non può essere tracciata secondo le convenienze del momento, spesso dettate da logiche elettoralistiche o di pura diplomazia, scegliendo di volta in volta l’interlocutore sindacale che pare più vicino.
La subordinazione profonda della maggioranza della Cgil al quadro politico, compresa l’unità nazionale, e la sua incapacità di sviluppare un programma e un percorso di mobilitazione all’altezza delle necessità non significa che si aprano automaticamente spazi alla sua sinistra. Al contrario assistiamo a una crisi profonda delle tradizionali sinistre interne, come pure di gran parte del sindacalismo di base. La ragione risiede nella crisi economica, che erode qualsiasi possibilità di conquistare autorità nel movimento operaio semplicemente in base a rendite di posizione o a una critica di sinistra che però si dimostra incapace di tradursi in una battaglia a tutto tondo che non soffochi nel dibattito interno all’apparato sindacale, ma sia capace di proiettarsi nella costruzione del conflitto reale nei luoghi di lavoro, a partire da quelle punte avanzate che in assenza di un movimento generale della classe sono il terreno fondamentale sul quale fondare una linea alternativa.
Sui lavoratori e sui delegati più combattivi si scarica una pressione senza precedenti che somma le condizioni economiche, il ricatto padronale e la distanza e l’ostilità dell’apparato sindacale verso qualsiasi conflitto radicale. L’azione organizzata di un soggetto politico di classe dovrebbe essere un parziale contrappeso, ma essa viene completamente a mancare, né mai nel Prc ci si è posti seriamente l’obiettivo di costruirla.
Il gruppo dirigente si è sempre rifiutato di orientare i militanti del Prc nel sindacato ed organizzare una battaglia coordinata al loro interno. Si tratta di un grave errore. Una energica e coerente azione tra i lavoratori e nella base sindacale di questo paese ci avrebbe permesso di costruire una forza decisiva nel movimento, fondamentale per un partito comunista e di cui oggi siamo quasi completamente privi.
Si è preferito mantenere delle relazioni diplomatiche di vertice, che ribaltavano completamente il rapporto che i comunisti dovrebbero stabilire con il sindacato, così facendo invece di essere noi a organizzare un’opposizione nei sindacati sono state le propaggini burocratiche della Cgil che hanno organizzato le loro lobbies nel partito, quando il Prc era in parlamento e contava qualcosa, per poi abbandonarlo quando perdeva gli agganci istituzionali.
Il gruppo dirigente del Prc in questi anni ha difeso una “non linea” sindacale. All’ultimo congresso della Cgil non ha preso posizione, sulle divisioni interne al sindacalismo di base (ad esempio rispetto alla nascita dell’Usb nel 2010) non ha preso posizione. Sull’accordo di Grugliasco non ha preso posizione, sull’accordo della rappresentanza del 31 maggio 2013, ha preso una posizione equilibrista. La lista potrebbe continuare a lungo.
Ci si è limitati a dire che bisognava “dialogare con tutti”. Su cui ovviamente si può concordare a condizione che si difendano posizioni precise e non ci si barcameni tra le diverse posizioni presenti nella cosiddetta sinistra sindacale.
La centralità della Fiom e dei metalmeccanici nello scontro di classe del nostro paese non ha bisogno di essere spiegata, questo però non ci dispensa dal dovere di criticare le scelte del suo gruppo dirigente quando questo manifesta elementi di arretramento.
È necessario dotarci di una strategia sindacale coerente e di lungo periodo, senza la quale è impossibile costruire un serio radicamento nei luoghi di lavoro. Dobbiamo avanzare e praticare percorsi di autorganizzazione e collegamento dal basso fra le Rsu e i lavoratori, sfidando le burocrazie di tutte le sfumature, nel sindacato confederale come nei sindacati di base.
Oggi parecchi spazi di agibilità nel sindacato sono stati chiusi, il ruolo della burocrazia è diventato sempre più soffocante; è pertanto indispensabile per una forza comunista fare un lavoro politico di base all’interno dei luoghi di lavoro per allargare gli spazi democratici di discussione e di lotta.
Solo attraverso lo sviluppo di un movimento di massa si possono superare divisioni, travalicando i recinti organizzativi e le gelosie di apparato o di micro apparato. Un nuovo movimento dei consigli, autoconvocato dal basso così come si è visto in altre fasi storiche (Autunno caldo, 1984, 1992-’93) è l’obiettivo a cui lavorare.
Rompere con l’elettoralismo
La sconfitta delle ultime elezioni politiche è stata particolarmente distruttiva perché a un risultato misero sul piano numerico si è sommato il percorso di costruzione di Rivoluzione Civile che ha sfigurato il profilo politico del Prc. Le responsabilità del gruppo dirigente sono enormi, basterà citare, fra i tanti esempi, la lettera agli iscritti con la quale il segretario Ferrero il 16 gennaio salutava l’avvio della campagna elettorale di Rivoluzione civile: “Innanzitutto considero un successo politico essere riusciti a dar vita a questa lista autonoma dal PD. Erano anni che ci lavoravamo e ancora poche settimane a molti fa pareva una impresa impossibile.” Queste parole venivano scritte a un mese dal voto che cancellava nuovamente il nostro partito dalle mappe elettorali.
La segreteria nazionale passò dei mesi fingendo di tenere in vita il cadavere della Federazione della sinistra, e altri mesi successivi a improvvisare appelli, assemblee e costruzioni fittizie fino a “Cambiare si può”, nata e morta nel giro di un mese per approdare infine sotto l’ala di Ingroia.?La campagna elettorale del candidato premier è stata ai limiti dell’analfabetismo politico, dapprima alla rincorsa di Grillo quando pareva che il suo movimento vivesse una battuta d’arresto, poi, quando su quel fronte si è alzato un muro invalicabile, proponendo Rivoluzione civile come una brutta copia di Sel, rivendicando l’accordo col Pd, aprendo all’ipotesi di fare il ministro in un governo Bersani, fino all’ineguagliabile “se perdo potrei tornare in Guatemala”. Le dichiarazioni post elettorali nelle quali Ingroia ha dato la colpa del disastro al Pd chiedendo le dimissioni di Bersani (!) hanno messo la ciliegina sulla torta. Che un personaggio simile sia stato spacciato come la figura che poteva trarre la sinistra fuori dall’isolamento è una macchia incancellabile per questo gruppo dirigente.
Siamo favorevoli a praticare anche il terreno elettorale come uno dei fronti della nostra battaglia politica, ma questo può essere solo un aspetto subordinato alla strategia generale qui proposta. Il mimetismo, l’eterna ricerca di un carro sul quale salire per potere entrare nelle istituzioni, hanno prodotto disastri peggiori di qualsiasi risultato negativo delle urne. In ogni circostanza e su ogni terreno, incluse le elezioni, dobbiamo partire da una presentazione onesta e chiara di ciò che siamo e di quali sono i nostri obiettivi.
Per il partito di classe, per l’alternativa rivoluzionaria
Come si concilia oggi la necessità di difendere ciò che resta del patrimonio militante del Prc con quella di avanzare una strategia che si rivolga all’insieme della classe lavoratrice? È ormai abbondantemente chiaro che la semplice posizione antiliquidatoria oggi, a differenza del passato, non può essere credibilmente avanzata come risposta ai problemi dell’insieme del movimento operaio. Quella polemica è stata risolta nei fatti, a negativo, dal prevalere di un processo oggettivo di liquidazione.
La necessità di un partito dei lavoratori oggi deve essere articolata e spiegata in ogni ambito in cui interveniamo, ma non può essere assolta solo in base alla nostra azione soggettiva. Sarà il processo obiettivo della lotta di classe, unito al ruolo del fattore soggettivo, a determinare tempi e modi con cui verrà data risposta a questa necessità storica.
In questa relazione sta anche la risposta alla domanda sopra posta: mantenere e rafforzare una avanguardia militante e aggregata attorno a una chiara prospettiva anticapitalista è un compito fondamentale per potere intervenire in un processo più vasto che prima o poi inevitabilmente si darà, e per condurvi all’interno una chiara battaglia egemonica. Altre forze, in primo luogo legate alle burocrazie sindacali e ai settori di sinistra del Pd potrebbero trovarsi in futuro a tentare di occupare lo spazio a sinistra, particolarmente in presenza di movimenti di massa che altrimenti rischierebbero di diventare incontrollabili. La stessa Sel rappresenta un tentativo di questo genere, seppur dai risultati ad oggi modesti.
Già oggi sono sempre più numerosi gli appelli alla “rinascita della sinistra”, a costruire la “rappresentanza del lavoro”, ecc. Al di là della loro effettiva consistenza (molti di questi tentativi di aggregazione sono adunate di generali senza esercito) la maggior parte di questi appelli evitano accuratamente di dire quale sinistra e quale rappresentanza intendano promuovere: sinistra riformista o sinistra anticapitalista? Rappresentanza elettoralista agganciata al carro della coalizione di classe, come è accaduto in questi vent’anni, o espressione autentica e coerente dei bisogni dei lavoratori di fronte alla crisi del capitalismo?
Questo è lo scontro che ci troveremo a combattere, e non lo si potrà vincere semplicemente trovando la formula o l’aggettivo giusto per l’ennesima “costituente” o lista elettorale. Si tratta di sfidare a livello di massa le forze del movimento operaio a rompere con l’eterna subordinazione al centrosinistra, con la concertazione, con la collaborazione di classe, metterle in contraddizione sul piano del programma e dell’azione di massa, conquistare terreno facendo leva sui punti di conflitto più avanzati. Su questa linea dobbiamo sfidare apertamente anche quei dirigenti come Landini che parlano tutti i giorni della necessità di una rappresentanza del mondo del lavoro ma che poi concretamente non fanno nulla per costruirla.
La crisi del capitalismo oggi si manifesta in modo concentrato nella crisi della sinistra, della direzione del movimento operaio. L’incapacità del riformismo di offrire una risposta, il crollo delle sue diverse varianti di destra e di sinistra, l’impotenza della burocrazia sindacale, il tracollo della sinistra politica sono espressioni della crisi e a loro volta generano disorientamento e perdita di punti di riferimento. Dobbiamo tuttavia vedere il rovescio della medaglia. Il tracollo di gruppi dirigenti e di teorie e programmi fallimentari genera in prima istanza un senso di smarrimento, ma libera anche il terreno per la costruzione di nuove forze, capaci di interpretare correttamente la nuova epoca storica che abbiamo di fronte, gli enormi sconvolgimenti e le opportunità rivoluzionarie che ne nasceranno.
Chi si attarda a piangere sulle sconfitte resterà inesorabilmente alla coda degli avvenimenti. Rompere con questo passato e gettare le basi per agire nel nuovo scenario è lo scopo di questa mozione congressuale e dell’azione politica che ne deriverà, nel Partito della rifondazione comunista e nel campo aperto del conflitto di classe.