Partito
della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 23- 24 settembre 2011
Per il partito di classe
(Bozza presentata da Claudio Bellotti alla Cpn del 23-24/9/2011)
1. Crisi della rappresentanza di classe.
A partire dal 2008 abbiamo visto aprirsi una voragine nella rappresentanza
e nell’espressione organizzata dei lavoratori nel nostro paese.
La scomparsa della sinistra dal parlamento per la prima volta dal 1892
è stata solo l’espressione più clamorosa di questo
vuoto, che in realtà si era già creato nei due anni di
governo Prodi con la completa incapacità della sinistra di affermare
gli interessi di classe all’interno di una coalizione dominata
da politiche confindustriali sul piano interno e filo-atlantiche sul
piano internazionale.
Non è scomparsa tuttavia la militanza di sinistra, che in questi
anni ha continuato a cercare terreni sui quali esprimersi, né
tantomeno è scomparso il conflitto sociale, tornato a farsi sentire
con forza crescente. Neppure il Prc è scomparso, a dispetto delle
scissioni e dell’abbandono di una parte della propria militanza
ha mantenuto un patrimonio di forza organizzata. In quale direzione
investire questo prezioso e unico patrimonio del nostro partito è
il tema di questo congresso.
2. “Pomigliano non si piega!” e la ripresa del movimento
di massa.
Immediatamente dopo la sconfitta elettorale 2008 la questione della
rappresentanza di classe è stato percepita soprattutto in forma
negativa. La cancellazione dal parlamento, la vittoria elettorale delle
destre e lo choc prodotto dalla crisi, che pareva stordire i lavoratori
e minarne la capacità di resistenza, facevano prevalere nella
nostra militanza e in generale nella sinistra letture pessimiste. Si
teorizzava lo “sbocco a destra” della crisi, l’atomizzazione
sociale e una “lunga marcia nel deserto” per la sinistra.
Al tempo stesso il vuoto e lo sbandamento politico lasciavano spazi
per tentativi populisti di varia natura. Forze estranee al movimento
operaio come l’Idv tentavano di accreditarsi una funzione di “tutela”
degli interessi operai attraverso una demagogia di stampo vagamente
peronista
Dopo il 2009 la questione si è posta in modo positivo, grazie
al risveglio del conflitto di classe nei luoghi di lavoro e in primo
luogo fra i metalmeccanici. Se la Innse nel 2009 è stato un primo
annuncio, lo scontro frontale apertosi nel gruppo Fiat e poi a cascata
in tutto il settore metalmeccanico e anche in altre categorie, con la
firma di accordi separati riguardanti oltre sette milioni di lavoratori,
ha posto al centro la questione del conflitto operaio e delle sue espressioni
sindacali e politiche. Il 16 ottobre 2010 la risposta di massa all’appello
della Fiom ha dimostrato come il conflitto operaio potesse essere il
punto di raccolta di tutti i movimenti di lotta che attraversano il
nostro paese. Questo si è confermato nei giorni del referendum
di Mirafiori e dello sciopero metalmeccanico del 28-29 gennaio 2011.
Oggi è chiaro che anche nel nostro paese, come in Grecia, Spagna,
Gran Bretagna, all’ordine del giorno non dobbiamo mettere il ripiegamento
di fronte a una destra egemonica, ma il dispiegarsi del conflitto di
classe al livello più alto. Questo si deve in primo luogo alla
capacità di settori operai di farsi carico, in quasi totale solitudine,
dell’intero peso dello scontro come dimostrato dalla svolta di
Pomigliano e dalle sue successive ricadute.
I mesi successivi hanno mostrato l’ampiezza e l’articolazione
del fronte del conflitto, dagli studenti del 14 dicembre fino al movimento
per l’acqua pubblica e agli scioperi generali del 6 maggio e 6
settembre 2011, alla grande manifestazione del 3 luglio in Val Susa,
la ripresa del movimento degli immigrati con la lotta di Milano e Brescia
e con vertenze operaie, in particolare nel settore della logistica,
nelle quali le rivendicazioni strettamente sindacali si sono intrecciate
con una forte affermazione della soggettività dei lavoratori
migranti, espressa anche nella lotta di Nardò.
La sintesi più accurata di questo processo è la seguente:
per la prima volta da 30 anni, ossia dalla sconfitta della Fiat del
1980, nel nostro paese si può produrre un movimento di massa
che veda al centro una chiara discriminante di classe, e la classe lavoratrice
come suo architrave ed elemento egemonico.
3. Miseria dell’elettoralismo
Centrale è quindi il modo come il nostro partito si pone di
fronte a questi sviluppi. A dispetto delle decisioni assunte nel documento
conclusivo del Congresso di Chianciano (alternatività strategica
al Pd, ricostruzione del partito “in basso a sinistra”,
immersione nel conflitto sociale), negli ultimi due anni la discussione
del gruppo dirigente è stata completamente dominata da un solo
punto: come garantire al Prc una rappresentanza istituzionale che permettesse
di “rientrare nei giochi”. Tutte le scelte e discussioni
fondamentali sono state condizionate da questo solo punto. Come sottoprodotto,
ognuna delle componenti presenti nell’attuale maggioranza del
partito è stata guidata dalla priorità di posizionarsi
nel conflitto interno al partito per poter beneficiare del poco di rappresentanza
istituzionale che rimane e di una futura auspicata presenza parlamentare
(oltre che delle strutture di partito).
Si sono così generate dinamiche di divisione e ricomposizioni
all’interno delle correnti che reggono la “gestione unitaria”
e successivamente anche della Federazione della sinistra, in un conflitto
permanente a somma zero che ha mortificato ogni tentativo di fare uscire
il partito e soprattutto i suoi militanti dalle secche nelle quali era
entrato. Rompere questa gabbia è il primo compito del dibattito
congressuale.
4. Quale lettura della crisi
L’analisi della crisi capitalistica, delle sue conseguenze e
delle risposte che genera nei diversi settori della società costituisce
il punto qualificante per determinare il carattere di una opzione politica.
La crisi esplosa nel 2007 vede sommarsi la classica crisi ciclica che,
a dispetto di tutte le teorizzazioni degli anni ’90 e 2000 rimane
anche nell’epoca attuale una caratteristica ineliminabile del
sistema capitalista, con un cambiamento di fase che va al di là
del semplice ciclo boom-recessione. Stiamo quindi parlando di un passaggio
d’epoca nel quale entrano in crisi e si modificano in maniera
profonda non solo determinati indicatori economici, ma i rapporti tra
le classi, i rapporti internazionali, l’intero equilibrio capitalistico.
Lungi dall’essere una crisi finanziaria, essa nasce dalla gigantesca
sovrapproduzione o sovracapacità produttiva accumulata nei due
cicli precedenti (1991-2000; 2001-2007), rinviata per alcuni anni grazie
all’enorme espansione del debito e della finanza e dal rilancio
del saggio di profitto che su scala mondiale si avvantaggiava dell’espansione
asiatica (entrata nel mercato di milioni di lavoratori a bassi salari)
e del basso prezzo delle materie prime ottenuto in primo luogo grazie
al riaffermarsi dell’egemonia dell’imperialismo Usa dopo
il 1991. La relativa pace sociale, l’abbattimento delle barriere
commerciali, la ulteriore penetrazione in aree del mondo in precedenza
parzialmente sottratte al dominio del mercato mondiale grazie ai processi
rivoluzionari del periodo post-coloniale e ai diversi rapporti di forza
su scala mondiale, l’apertura cinese al capitalismo e al mercato,
sono alcuni dei fenomeni che hanno accompagnato e rafforzato il ciclo
ascendente.
Proprio l’aver procrastinato l’esplosione di una crisi di
questo genere, in particolare dopo la crisi del 2001, con politiche
monetarie espansive oltre ogni limite (si ricordi la “irrazionale
esuberanza” citata dall’allora Governatore della Federal
Riserve Alan Greenspan che pure ne fu uno dei principali responsabili)
ha causato infine il suo carattere generalizzato e la portata destabilizzante
su scala globale.
Seppure questi concetti siano patrimonio largamente diffuso nella sinistra,
esiste una evidente contraddizione tra l’analisi della crisi,
definita “sistemica”, “strutturale”, ecc. e
le risposte che vengono messe in campo.
La crisi produce anche la critica del sistema, tuttavia ciò non
è sufficiente di per sé a determinare uno sbocco alternativo.
Esiste una critica interna alla classe dominante, volta a trovare misure
che ristabiliscano l’equilibrio perduto; esiste una critica che
proviene da settori di ceto medio, piccola impresa, piccola borghesia,
che si caratterizza sempre più per il suo carattere rabbioso
ma anche impotente a indicare soluzioni credibili. Non esiste, ad oggi,
una chiara e coerente posizione antisistema, che può essere espressa
solo dal movimento operaio.
Al di là delle spiegazioni “popolari” che ne cercano
le cause negli “eccessi” della finanza e nella “mancata
regolazione” dei mercati, è la stessa borghesia ad individuare
con determinazione inflessibile il punto centrale e inaggirabile per
rilanciare l’accumulazione, ossia la lotta per la diversa ripartizione
della giornata lavorativa tra lavoro e capitale; la lotta per l’incremento
del plusvalore assoluto e relativo, per l’estensione della giornata
e della vita lavorativa, per l’intensificazione della prestazione
di lavoro. Il modello Marchionne non è solo la risposta di un
capitalismo relativamente debole quale è quello italiano, ma
una lucida interpretazione delle necessità vitali del sistema.
Lavorare più ore nella settimana, più anni della vita,
più intensamente e per un salario minore: questo il semplice
nocciolo della risposta al problema di ricostituire la profittabilità
del capitale investito.
5. L’illusione tardo keynesiana
L’intervento statale in forma di socializzazione delle perdite
del sistema finanziario e di salvataggio di gruppi industriali è
diventato una realtà a partire dal 2008. Tuttavia sarebbe errato
vedere in ciò un abbandono del cosiddetto neoliberismo. Non a
caso si è parlato, a proposito del salvataggio delle banche,
di “socialismo dei ricchi”.
Indubbiamente esistono settori della classe dominante che si rendono
conto della necessità di introdurre alcuni correttivi e di rinunciare
a qualcosa in nome dell’interesse generale (borghese). Non deve
stupire quindi che i Montezemolo o i Profumo parlino di imposta patrimoniale
o di riequilibrare il sistema fiscale. Tuttavia sarebbe esiziale confondere
queste posizioni, dettate dal tentativo di ricostruire l’equilibrio
di un sistema completamente destabilizzato, con la possibilità
di un terreno di incontro, sia pure temporaneo, fra gli interessi dei
lavoratori e quelli di un settore borghese, magari in nome della “produzione”
contro la “finanza”, rischiando di attribuire patenti di
progressismo a demolitori dei diritti dei lavoratori come accadde a
Bertinotti nei confronti di Marchionne. Da sempre, e oggi più
che mai, l’“interesse generale” è l’interesse
dell’insieme della borghesia, e i sacrifici per sostenerlo ricadono
inesorabilmente su chi lavora.
Nella sinistra riformista è oggi egemone l’idea che si
tratti semplicemente di orientare diversamente tali masse di denaro
pubblico affinché ne scaturiscano effetti benefici per i lavoratori
e i ceti popolari. Analogamente si propongono misure la cui logica ispiratrice
è quella di un ritorno indietro nel tempo: una tassazione un
po’ più equa, una certa regolamentazione e limitazione
della finanza, un accordo internazionale sulle valute, una maggiore
attenzione all’economia reale, un freno alle disparità
sociali eccessive, maggiori strumenti di intervento degli Stati nell’economia…
in sostanza un tentativo di ritornare agli anni d’oro del boom
economico postbellico e delle classiche politiche keynesiane.
Si tratta di una utopia illusoria e pericolosa al tempo stesso. Illusoria,
perché non tiene conto delle circostanze che resero possibile
quella determinata fase storica del capitalismo; pericolosa, perché
proponendo al movimento operaio di accodarsi a questo o quel settore
“riformatore” del sistema apre in realtà lo spazio,
questa volta sì, al rischio concreto che di fronte all’inevitabile
fallimento di questi tentativi, siano in una fase successiva le forze
di destra ad avanzare la propria egemonia basandosi sulla disillusione
dei lavoratori e sulla disgregazione sociale.
Peraltro data l’esplosione dei debiti pubblici negli ultimi tre
anni, né negli Usa, né in Europa è pensabile un
rilancio di politiche classicamente keynesiane, per le quali non esistono
le risorse (dato l’enorme indebitamento pubblico e privato), né
tantomeno la volontà politica. Passi in questa direzione potrebbero
essere effettuati solo come sottoprodotto di un conflitto di classe
che raggiunga livelli tali da mettere a rischio il potere della classe
dominante. Non a caso nel mondo di oggi le uniche nazionalizzazioni
di carattere effettivamente progressivo, sia pure incomplete e limitate,
si sono date in quei paesi latinoamericani investiti da processi rivoluzionari
quali Bolivia e Venezuela.
6. Europa
Nell’ambito di una crisi che è mondiale, la situazione
europea vive la peculiarità della moneta unica, che lungi dal
porci “al riparo dalla crisi”, come si teorizzava al tempo
della sua creazione, si è dimostrata uno strumento che, con la
sua rigidità estrema, ne ha amplificato gli effetti. Su basi
capitalistiche è impossibile unire sistemi economici che vanno
in direzioni diverse; senza rompere le compatibilità del sistema
l’Unione europea non può essere altro che un club di capitalisti
dominato dalle banche e dai grandi monopoli degli Stati membri a partire
dai più forti. È inevitabile che paesi deboli, sicuramente
la Grecia e forse altri, siano costretti ad un determinato momento a
fallire e in via ipotetica ad abbandonare la moneta unica. Se l’uscita
di alcune economie periferiche quali Grecia, Portogallo e Irlanda è
plausibile, un processo analogo in Italia, per il suo peso relativo
nell’Unione, causerebbe di fatto la fine dell’Euro come
moneta continentale e forse il suo abbandono definitivo.
Una parte della classe dominante tenta di scongiurare questa ipotesi
proponendo una maggiore integrazione delle politiche economiche europee
e la creazione di titoli europei (Eurobond) che contribuiscano ad alleviare
le tensioni sui paesi più deboli. Queste proposte sono ovviamente
più popolari nei paesi sotto attacco speculativo e in generale
vengono fatte proprie dai partiti socialisti, che costituiscono una
delle forze trainanti del processo di integrazione dell’Europa
capitalista.
La nostra posizione deve essere esattamente opposta: qualsiasi tentativo
di maggiore integrazione su basi capitalistiche non può che tradursi,
come già sta accadendo, in attacchi concentrati contro il movimento
operaio e contro ciò che rimane dello Stato sociale, in una austerità
permanente, in una gestione sempre più autoritaria di politiche
di privatizzazione e saccheggio delle risorse pubbliche. D’altra
parte l’accumulo di contraddizioni a livello dei debiti sovrani
e delle istituzioni europee fa sì che questo fronte generalizzato
di attacchi alle condizioni di vita delle masse lavoratrici incontri
la resistenza e la disponibilità alla mobilitazione da parte
di movimenti che possono assumere un respiro continentale, come ha dimostrato
il modo in cui i movimenti in Spagna e in Grecia si sono ispirati reciprocamente.
7. Il Meridione affonda
La crisi ha avuto effetti devastanti al Sud. Secondo il rapporto Svimez
pubblicato nel luglio 2010, il Pil del Meridione è tornato ai
livelli di 10 anni fa. Gli investimenti industriali nel 2009 sono crollati
del 9,6%. È un Sud abbandonato, non solo dai privati ma anche
dallo Stato.
I Fondi Aree Sotto Utilizzate (Fas) sono stati tagliati nel dicembre
2008 per 12 miliardi e 900milioni, su un totale previsto di 64 miliardi
nella finanziaria 2007. Ulteriori tagli sono stati confermati nel 2009
e nel 2010. I fondi sono stati dirottati a coprire i buchi della spesa
ordinaria, soprattutto della sanità. La realtà, taciuta
dalla propaganda leghista, è quella di una diminuzione del trasferimento
delle risorse al meridione.
La percentuale destinata alle otto regioni del Sud sul totale della
spesa in conto capitale (investimenti pubblici e risorse destinate alle
imprese) è passata dal 40,4% del 2001 al 35,3% del 2007. La spesa
in conto capitale è passata dal 2001 al 2006 da 21 a 22,2 miliardi
di euro al Sud mentre nel resto del paese si è passati da 31
a 38,2 miliardi di euro. La spesa per le infrastrutture sociali nel
decennio 1998-2008 è stata del 20% inferiore alla media nazionale.
Degli investimenti statali, la componente che va agli incentivi alle
imprese è considerevole. È più di un terzo del
totale al Sud, mentre al Centro nord è pari a un quinto. Lo Stato
quindi non solo ha diminuito le risorse per il meridione, ma una parte
importante di queste risorse vengono dirottate verso i privati.
Il numero di occupati è tornato a livelli del 2000. Due terzi
dei posti di lavoro persi negli ultimi due anni sono al Sud. Fatto pari
a 100 il reddito medio nazionale, il Sud si ferma al 77, contro il 112
del centro-Nord, con punte del 71 in Calabria e Sicilia. Quasi un meridionale
su tre è a rischio povertà. In termini assoluti, questo
significa che nel Mezzogiorno ci sono oltre 6milioni e 800mila persone
indigenti.
Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato
il Mezzogiorno. Ricordiamo che nel 2009 la popolazione residente al
sud si attestava sui 20,8 milioni di abitanti. (Svimez, rapporto 2010).
Questo abbandono del meridione, che è responsabilità esclusiva
delle classi dominanti (del sud e del nord) produce effetti politici
e sociali. Solo per elencare le più importanti: le lotte della
giovane classe operaia, da Pomigliano a Melfi fino al Porto di Gioia
Tauro, ma anche le rivolte popolari contro i rifiuti in Campania e le
discariche in Calabria, fino ai movimenti di massa contro i megaprogetti
alla Ponte sullo Stretto.
Le navi dei veleni in Calabria, l’impossibilità di valutare
perfino il quantitativo di rifiuti pericolosi che arrivano attraverso
il circuito delle ecomafie, l’avvelenamento delle popolazioni
riscontrato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (con
aumenti fino all’84% dei casi di tumori e malformazioni) mettono
in risalto le principali contraddizioni dell’attuale sistema produttivo:
è sempre più evidente, infatti, che non è possibile
affrontare il problema dei rifiuti senza parallelamente affrontare quello
della produzione e del suo carattere privato.
Negli ultimi anni la diminuzione del trasferimento delle risorse alle
regioni del mezzogiorno ha prodotto anche uno scontento crescente nelle
file del centrodestra e in quei settori sociali che facevano riferimento
a Berlusconi. La divisione crescente tra Nord e Sud del paese è
la base concreta per tutte le ipotesi di leghe del sud e “patti
meridionalisti, spesso trasversali agli schieramenti politici, che cercano
di contrattare più risorse e mantenere così saldo il blocco
di potere mafioso-borghese che ha affamato il sud da un secolo a questa
parte. Una prospettiva che si propone di dividere il movimento operaio
su basi regionali e che dobbiamo contrastare con tutte le nostre forze.
Nel contesto di crisi economica, le mafie continuano a rappresentare
un settore importante dell'economia italiana: 135 miliardi di fatturato,
pari al 7% del Pil, 78 di utili,. Un “ramo commerciale”
che genera un volume d'affari che da solo supera i 100 miliardi di euro.
La ‘ndrangheta fattura da sola 44 miliardi di euro, di cui 5 miliardi
e 733 milioni provenienti da appalti e edilizia.
I processi descritti di deindustrializzazione, di povertà e di
degrado del Mezzogiorno creano condizioni favorevoli alle mafie per
potersi impadronire di manovalanza e estendere il giro d’affari,
come dimostrano le decine di centri commerciali, di appartamenti e di
edifici costruiti su ex aree industriali. Il caso della Calabria ne
è l’esempio più palese: nella regione in cui il
PIL pro-capite è pari solo al 54% di quello nazionale, il tasso
di povertà sfiora il 25% , la disoccupazione il 27%, e le percentuali
di emigrazione sono – secondo lo Svimez - pari a quelle degli
anni ’50.
La militarizzazione del territorio, lanciata già a inizio anni
’90 con l’operazione Vespri Siciliani e periodicamente poi
estesa ad altre regioni meridionali, non solo non è riuscita
a far diminuire il controllo sociale mafioso, ma nemmeno tanto paradossalmente
crea ulteriori affari (approvvigionamento e logistica dei corpi militari)
e viene utilizzata in realtà come arma a difesa degli interessi
statali e privati.
La profonda crisi del Mezzogiorno e il tentativo di trasformare il territorio
in una discarica a cielo aperto produce rivolte come quelle che abbiamo
visto in questi anni a Terzigno, Acerra, Scanzano. È nostro obiettivo
intervenire nelle future esplosioni sociali per offrire al movimento
una espressione politica organizzata.
Questo sbocco è stato nel passato in gran parte impedito dalla
nostra prolungata partecipazione alle giunte regionali di centrosinistra
(Campania, Basilicata, Calabria) individuate dai movimenti come responsabili
dirette del disastro sociale ed ambientale di cui è vittima il
Mezzogiorno. La stessa partecipazione da parte nostra alla giunta de
Magistris a Napoli andrà misurata in funzione di questo criterio,
di non entrare in contraddizioni con i nostri referenti sociali e di
classe.
8. Un movimento internazionale
I movimenti di massa che hanno rovesciato i regimi in Egitto e Tunisia
sono stati una fonte diretta di ispirazione e di “contagio”
anche per le mobilitazioni in Europa. Assistiamo alle prime fasi di
un nuovo movimento internazionale che può scuotere gli assetti
stabiliti per decenni. Se nello scorso decennio i processi rivoluzionari
erano essenzialmente concentrati nel continente latinoamericano, oggi
questi si avvicinano rapidamente alla nostra parte del mondo. L’idea
della rivoluzione non è più confinata a un mondo lontano
nello spazio o nel tempo.
La “primavera araba” ha una volta di più confermato
che nessun regime può resistere a un movimento di massa che coinvolga
i lavoratori e i gli strati più oppressi una volta che questi
siano determinati a portare la loro lotta fino alle ultime conseguenze.
Il movimento si è diffuso con un “effetto domino”
che ha spiazzato anche le diplomazie dei paesi imperialisti, colte completamente
alla sprovvista. Con l’intervento in Libia la Nato è riuscita
a introdurre un cuneo nella regione, così come sta tentando di
fare la Turchia. Dobbiamo quindi rifiutare qualsiasi sostegno alla logica
dell’”intervento democratico” sostenuto con forza
dal Pd e in particolare dal presidente della Repubblica.
E’ quanto mai significativo il fatto che il movimento egiziano
sia stato preso a riferimento anche simbolico (“piazza Tahrir”)
in numerosi paesi europei e persino negli Usa. E in effetti stiamo parlando
di un unico processo, per quanto articolato, che si sviluppa su scala
internazionale. Il risveglio non ha toccato solo la Grecia o i paesi
mediterranei, fondamentale è segnalare l’esplosione del
movimento giovanile e operaio in Gran Bretagna, con una discesa in campo
di giovani e giovanissimi a partire dal movimento studentesco dello
scorso anno, che ha fatto da detonatore anche per l’inizio di
una mobilitazione sindacale di grande significato.
Va rilevato come ad oggi l’arco delle forze socialiste e di centrosinistra
in Europa si sia schierato senza fratture significative sulla linea
dell’austerità e della rigida osservanza delle direttive
della Bce e dell’Unione europea, gestendo in prima persona laddove
governa (Grecia, Spagna) o ha governato fino a poco fa (Portogallo)
i piani di austerità.
9. La logica di un programma di alternativa
Il programma necessario per contrapporsi alle varie ipotesi di ristrutturazione
interne al sistema deve assumere la logica del programma transitorio,
ossia del legame tra i livelli di coscienza e di mobilitazione che si
esprimono oggi nel nostro paese e su scala internazionale, e la necessità
di una prospettiva di superamento del sistema. Dobbiamo cioè
rifiutare l’idea di dividere il nostro programma in due parti,
la prima fatta di “realistiche proposte” accettabili da
un ampio arco di forze, la seconda di rivendicazioni generali, relegate
a una non meglio definita fase successiva;
Oggi sono tre i punti centrali rispetto alle mobilitazioni che si stanno
producendo:
1) La questione del debito
2) Le crisi industriali e in generale la crisi occupazionale
3) La questione dei diritti del lavoro e la prospettiva di una vita
di precarietà permanente.
Grida vendetta al cielo il fatto che mentre la destra si attrezza a
rispondere alla crisi sul suo terreno, non esista ancora una seria piattaforma
programmatica di sinistra capace di parlare al movimento in campo e
di cogliere la sua radicalità, sintetizzata dalla parola d’ordine
“non pagheremo la vostra crisi”.
Il nostro partito deve essere identificato come il partito del pubblico,
delle nazionalizzazioni, del controllo dal basso, da parte dei lavoratori
organizzati e degli strati popolari di quelle risorse che ieri, nella
fase del liberismo trionfante, venivano massicciamente spostate dal
basso verso l’alto e oggi vengono nuovamente dirottate dallo Stato
a beneficio di coloro che sono i primi responsabili della crisi.
Il tema della nazionalizzazione delle principali leve dell’economia
(sistema bancario, settori strategici dell’industria, delle comunicazioni,
della grande distribuzione, del patrimonio immobiliare) diventa rapidamente
comprensibile a milioni di persone di fronte al dilagare di licenziamenti,
crisi, chiusure aziendali e al tentativo di rilanciare in grande stile
le privatizzazioni.
Ci limitiamo ad indicare un pacchetto rivendicativo generale che andrà
sviluppato con una discussione approfondita nel movimento oltre che
nelle nostre fila:
1) Forte tassazione progressiva dei patrimoni e delle grandi rendite.
Il debito è stato fatto dai padroni e dai banchieri perchè
per loro a differenza dei comuni mortali il debito non è fonte
di perdita ma di guadagno. Attraverso la leva del debito in 20 anni
sono riusciti a dirottare 8 punti di Pil da salari e pensioni verso
la rendita e il profitto. Facciamo nostra la parola d’ordine del
movimento greco: noi il debito non lo paghiamo! Verranno indennizzati
solo i piccoli risparmiatori.
2) Blocco delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni del patrimonio
industriale del paese. Nazionalizzazione sotto il controllo operaio
delle fabbriche che minacciano la chiusura. Blocco dei licenziamenti.
3) Difesa ad oltranza dei beni comuni che devono essere pubblici sotto
il controllo dei lavoratori e dei cittadini.
4) Nazionalizzazione delle banche, delle immobiliari, delle finanziarie
e delle compagnie assicurative sotto il controllo e la gestione democratica
dei lavoratori. Le banche devono essere utilizzate nell’interesse
generale della società. Vanno indennizzati solo i piccoli azionisti.
La nazionalizzazione delle banche è l’unico modo per garantire
risparmi e depositi della gente comune.
5) Ritiro dell’articolo 8 e difesa dell’articolo 18 esteso
a tutti i lavoratori. Abolizione del pacchetto Treu, della legge 30
e di tutti i dispositivi che in questi anni hanno precarizzato il mondo
del lavoro. Abolizione della Bossi-Fini e di tutte le leggi contro gli
immigrati, diritti di cittadinanza per tutti.
6) Ritiro dei progetti delle cosiddette Grandi Opere: Tav e ponte sullo
stretto per prime, ma anche progetti quali il Terzo valico e la gronda
autostradale in Liguria.
7) Su queste basi sarebbe possibile raddoppiare i finanziamenti per
il welfare, l’istruzione, la sanità che devono rimanere
pubblici sotto un controllo democratico e partecipato.
8) Abolizione dei finanziamenti alle scuole e alla sanità privata
e dei privilegi per la Chiesa cattolica (dall’8 per mille all’esenzione
dell’Ici).
9) No agli aumenti dell’età pensionabile, ritorno a un
sistema pensionistico pubblico, universale e basato sul sistema retributivo.
Scorporo di previdenza e assistenza (quest’ultima deve passare
in carico alla fiscalità generale) e riassorbimento delle forme
di previdenza integrativa nel sistema pubblico.
10) Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità
di salario.
11) Ripristino della scala mobile. I sindacati e le associazioni dei
consumatori devono elaborare l’effettivo indice per calcolare
l’inflazione reale.
12) Per un piano idrogeologico pubblico dedito alla tutela del territorio,
alla costruzione di infrastrutture ecocompatibili e la riconversione
energetica (energie alternative).
13) Salario minimo intercategoriale (Smi) fissato per legge indicizzato
all’inflazione: non si lavora per meno di 1000 euro netti al mese,
quale che sia la tipologia contrattuale.
14) Salario minimo garantito per disoccupati ai due terzi dello Smi.
15) Reintroduzione dell’equo canone (affitto delle case non superiore
al 20% del salario), esproprio delle case sfitte in mano alle grandi
immobiliari e costituzione di un piano di lavori pubblici teso alla
difesa del patrimonio immobiliare pubblico (case popolari, scuole, ospedali,
strade, ecc.)
16) tutela dell’occupazione femminile, paga uguale per pari mansione,
corsi professionalizzanti, tutela della maternità, per il diritto
alla continuità lavorativa.
17) Socializzazione del lavoro domestico, attraverso un piano di investimenti
pubblici in mense popolari, lavanderie pubbliche, asili nido, ecc, che
dia occupazione e allo stesso tempo liberi le donne dal cosiddetto “doppio
turno”.
Questo programma implica una prospettiva di rottura dei vincoli imposti
dall’Unione europea: trattato di Maastricht, Patto di stabilità,
Trattato di Lisbona, statuto della Bce ecc., fino ai recenti accordi
relativi alla gesione delle crisi debitorie (Patto euro plus). All’Unione
europea del capitale contrapponiamo una libera e volontaria federazione
socialista dei popoli europei.
10. Quale battaglia per i “beni comuni”
La vittoria dei referendum sull’acqua pubblica ha segnalato in
modo dirompente come oggi possa essere maggioritaria la prospettiva
di una economia pubblica e il rifiuto dell’ondata privatizzatrice
che per trent’anni ha segnato non solo l’economia, ma anche
la coscienza diffusa. Di qui l’urgenza di una precisa posizione
da parte nostra rispetto al dibattito che ha attraversato il movimento
per l’acqua.
Si ripropone un dibattito che ha attraversato tutti i movimenti a partire
dal 2001 passando per il movimento in difesa della scuola e dell’università
pubblica, numerose lotte ambientali, ecc., all’interno dei quali
ampi settori hanno abbracciato la posizione che la difesa dei “beni
comuni” possa portare ad immaginare la crescita di un settore
dell’economia “né pubblico né privato”,
ma “oltre” queste forme. Si tratta di una posizione radicale
nella critica ma inconsistente nella proposta, ovvero nell’illusione
che si possa semplicemente “aggirare”, “ignorare”
o “disperdere” il potere della classe dominante (tanto quello
economico quanto quello politico e statale). A questa si legano le proposte
sul reddito sociale nella loro forma “non lavorista”, ossia
slegate dalla prospettiva del conflitto di classe. Seppure è
indiscutibile che l’esistenza di queste diverse posizioni non
precluda la possibilità di costruire fronti di lotta comune come
è stato appunto nel movimento per l’acqua, è altrettanto
necessario segnalare tutti i pericoli impliciti in tali posizioni.
L’illusione di potere aggirare il nodo della proprietà
può aprire la strada a sviluppi assai negativi, poiché
l’idea che possano esistere beni economici né pubblici,
né privati all’interno di un sistema che rimane nel suo
insieme dominato dal mercato e dai meccanismi capitalistici porta fatalmente
o alla scomparsa, o all’assorbimento all’interno di logiche
di ristrutturazione del sistema, come dimostra ampiamente la traiettoria
del Terzo settore, che ha trasformato numerosissime realtà di
volontariato in vere e proprie incubatrici di processi di privatizzazione
all’interno delle logiche della sussidiarietà e del “privato
sociale” funzionali ai processi di smantellamento dello Stato
sociale, oltre che spesso luogo di supersfruttamento e precarizzazione
dilagante dei lavoratori.
L’unico sviluppo coerente della lotta per i beni comuni è
nella rivendicazione della proprietà pubblica e del controllo
dei lavoratori e dei cittadini su aziende nazionalizzate. Anche qui
ci aiuta l’esperienza latinoamericana, dove non a caso le punte
più avanzate dei movimenti di occupazione di aziende chiuse o
sottoutilizzate si sono orientate alle parole d’ordine della nazionalizzazione,
del controllo operaio e al tentativo di costruire forme consiliari di
organizzazione. È su questa prospettiva che dobbiamo intervenire
nel dibattito attorno alla proposta di Costituente dei beni comuni:
una proposta che può costituire un significativo passo avanti
se indirizza alla creazione di un fronte più ampio di lotta per
la ripubblicizzazione di tutti i settori privatizzati in questi vent’anni
e capace di promuovere la costruzione di strumenti di controllo operaio
sulle aziende pubbliche, sulle reti strategiche (energia, telecomunicazioni,
acqua), in una parola di inserire la lotta per i beni comuni in una
prospettiva di classe e anticapitalista.
Decisiva è la mobilitazione che si sta portando avanti in Val
Susa contro il Tav. Un movimento nato per difendere un “bene comune”
e che velocemente ha saputo fare un salto di qualità sia nel
livello di partecipazione e nella capacità di fare egemonia,
sia nella consapevolezza delle dinamiche che rendono fondamentale per
la borghesia italiana la costruzione di questa come di altre opere.
A chi ha portato e porta avanti coerentemente questa vertenza è
chiaro “chi ci guadagna” e “chi ci rimette”.
In questa consapevolezza diffusa è presente, a livello embrionale
o conscio a seconda dei soggetti, il carattere di classe del movimento.
Il nostro compito è far emergere questo carattere e dargli una
forma compiuta. Ma anche in questo campo la nostra ambiguità
è stata un freno al radicamento in una lotta e un contesto di
grande potenzialità per un partito comunista. Da un lato i compagni
attivi nella valle, presenti fin dall’inizio e che hanno contribuito
in maniera spesso decisiva allo sviluppo del movimento. Dall’altro
un continuo rincorrere il centro sinistra e il Pd, convinti sostenitori
dell’opera e in prima linea nel chiedere la massima repressione
del movimento, a livello istituzionale. Lo spazio guadagnato dal movimento
cinque stelle e da Grillo è anche conseguenza di questa ambiguità.
Anche in questo contesto non è sufficiente la presenza del segretario
nazionale ad una o più manifestazioni in valle. È necessaria
una chiara collocazione nel conflitto e all’opposizione di tutti
coloro che sostengono la costruzione dell’opera. Solo così
potrà essere messo a frutto il lavoro dei nostri compagni in
termini di radicamento, influenza politica e militanza.
In assenza di questa prospettiva, la proposta della costituente rischia
di ripetere l’esperienza dei Social Forum del 2001-2002, capaci
nella fase ascendente del movimento di aggregare una partecipazione
di massa, ma poi rapidamente burocratizzati e svuotati dalla logica
di mediazione di vertice fra le varie componenti presenti al loro interno,
nessuna delle quali si dimostrò disposta a costruire forme autentiche
di democrazia nel movimento.
11. Per il partito di classe
Lo scarto che dobbiamo superare riguarda anche la debolezza del nostro
partito, la sua perdita di consistenza, credibilità e radicamento,
e la urgente necessità di ricostruire una autentica rappresentanza
di classe nel nostro paese. La risposta a questo punto decisivo non
risiede nelle alchimie organizzative che da oltre un decennio hanno
infestato il dibattito della sinistra, ma nell’assunzione di una
prospettiva generale da fare vivere all’interno di tutti i contesti
nei quali operiamo, a partire dai movimenti di massa.
La crisi che ha investito il movimento operaio deve quindi trovare una
risposta teorica, ma anche la proposta di un percorso di costruzione
credibile. A nostro avviso esistono forze di molto superiori a quelle
ad oggi organizzate nel Prc che possono essere mobilitate attorno alla
costruzione del partito di classe. Ossia: i quadri della classe che
sostengono il conflitto nei suoi momenti più avanzati sono anche
quelli che devono farsi carico della costruzione di una forza politica
all’altezza delle loro necessità; in assenza di ciò,
il conflitto verrà inquadrato nell’alveo dell’alternanza
di governo come è stato negli anni ’90 e 2000. È
in questa direzione che proponiamo di investire tutte le forze organizzate
oggi nel nostro partito.
Storicamente in più occasioni, in presenza di una crisi profonda
delle organizzazioni di classe, sono stati appunto attivisti d’avanguardia
a farsi carico della costruzione di organizzazioni che potessero dare
espressione politica al movimento operaio; senza volere proporre modelli,
abbiamo presente situazioni quali il Pt brasiliano, il Psuv venezuelano,
la stessa storia del partito comunista in Italia ai suoi albori, che
seppe fondare la sua battaglia su quanto di meglio era stato espresso
dal movimento operaio nel Biennio Rosso. Ci sentiamo di riproporre le
parole di Gramsci pochi mesi prima della fondazione del Pcdi come un
utile orientamento:
“(...) Noi abbiamo sempre ritenuto che dovere dei nuclei comunisti
esistenti nel Partito (socialista – NdR) sia quello di non cadere
nelle allucinazioni particolaristiche (problema dell’astensionismo
elettorale, problema della costituzione di un partito “veramente”
comunista) ma di lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia
possibile risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello
sviluppo organico della rivoluzione comunista. Può infatti esistere
un partito comunista (che sia partito d’azione e non accademia
di puri dottrinari e di politicanti, che pensano “bene”
e si esprimono “bene” in materia di comunismo) se non esiste
in mezzo alla massa lo spirito di iniziativa storica e la aspirazione
all’autonomia industriale che devono trovare il loro riflesso
e la loro sintesi nel Partito comunista?” Ravvisiamo in queste
righe il nesso fra le battaglie che segnarono la nascita dei Consigli
di fabbrica, ossia una delle esperienze rivoluzionarie fondamentali
nella storia del movimento operaio italiano, con la creazione del partito
rivoluzionario allora incarnato dal Partito comunista d’Italia
e un indispensabile richiamo alla connessione tra forma e contenuto,
tra movimento reale di massa e le sue espressioni organizzate.
12. Le forze disponibili
Al di fuori del nostro partito, queste forze esistono oggi: nella Fiom;
nella sinistra Cgil; in un settore dei sindacati di base; in un settore
delle scissioni di sinistra del Prc; nel movimento in difesa della scuola
pubblica e dei beni comuni; queste forze inoltre si allargheranno significativamente
in base all’onda crescente che a partire dalle elezioni amministrative
e dai referendum della primavera di quest’anno, che porta migliaia
di persone e in particolare di giovani verso la partecipazione politica
attiva.
Il punto non è fare una sommatoria, ma indicare il conflitto
di classe come fulcro per l’aggregazione di queste forze. Non
è in discussione che la classe operaia debba essere in grado
di stabilire alleanze e fronti di lotta con altri settori sociali e
movimenti, la questione dirimente è chi eserciterà la
funzione centrale e dirigente in tale fronte. Il 16 ottobre 2010 ha
mostrato almeno potenzialmente come attorno al conflitto operaio si
possa costituire un fronte estremamente vasto, capace di rompere gli
equilibri del bipolarismo di liberarsi della tutela del Pd innanzitutto
sul piano ideologico e programmatico. È quello il modello da
perseguire.
13. Rappresentanza operaia o rappresentanza burocratica?
Il livello di coscienza e combattività crescenti dimostrato
in tante mobilitazioni degli ultimi anni non trova quindi riferimenti
credibili in alcuna forza politica nella sinistra italiana. Il partito
di Pomigliano, il partito di Fincantieri oggi non esiste. È tutto
da costruire; le lotte sono più avanti delle organizzazioni:
questa è la nuda realtà. Non a caso la Fiom si è
trovata a svolgere un ruolo di riferimento politico al di là
della semplice battaglia sindacale, come manifestato chiaramente nella
piazza del 16 ottobre e nello sciopero del 28 gennaio.
Tale questione è dominante nella coscienza di tutti i settori
più avanzati del movimento, in particolare di quelli che sono
stati in prima fila protagonisti delle mobilitazioni di questi anni.
Quale sindacato, quale partito, quale programma possono esprimere in
forma compiuta le istanze che si sono manifestate negli scioperi e nelle
piazze?
Il problema si pone in forma speculare anche negli apparati sindacali
privi di riferimenti e “copertura” politica. La lettura
burocratica di questo problema storico porta a scelte di fiancheggiamento
o costruzione di “coalizioni” che hanno assunto la forma
di una struttura quale “uniti contro la crisi”, il rapporto
di una parte del gruppo dirigente della Fiom con Sel; altre tendenze
danno una risposta ancora più moderata allo stesso problema (Lavoro
e libertà promossa da Bertinotti e Cofferati) che fanno il paio
con l’associazione, nata dalla fusione tra Socialismo 2000 e Lavoro
Solidarietà; quest’ultima propone la costruzione di un
“partito del lavoro” tutto interno all’alleanza di
centrosinistra.
Dobbiamo condurre una classica battaglia di egemonia su questo terreno,
ossia essere la parte militante che lotta coerentemente contro queste
espressioni moderate e che al problema della “rappresentanza del
lavoro” risponde che essa può essere costruita solo in
base a un autentico protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici
e alla irriducibilità dei loro interessi alle compatibilità
di un sistema in crisi.
14. No a un nuovo centrosinistra, per un polo della sinistra di classe.
La crisi protratta del governo Berlusconi nasce da due esigenze contrapposte
della borghesia: da un lato non si ritiene possibile applicare il programma
di lacrime e sangue dettato dai “mercati” con un governo
screditato che affoga negli scandali e le cui priorità sono dettate
sempre più dalle necessità di sopravvivenza di un parlamento
di nominati. D’altro canto temono che una crisi di governo nel
contesto attuale possa diventare ingovernabile e soprattutto temono
“la piazza in rivolta”, come lucidamente paventato dall’ex
ministro Pisanu.
Da qui i tentativi di una transizione il più possibile pilotata,
le ipotesi di salvacondotti giudiziari per Berlusconi se accettasse
di farsi da parte e i frenetici tentativi di lanciare sulla scena politica
i vari Monti, Montezemolo, Profumo.
Qualsiasi alternativa deve necessariamente coinvolgere il Pd, si tratta
quindi di zavorrare il più possibile tale ipotesi per garantire
che il futuro governo, quale che sia, si muova rigidamente nei binari
tracciati. La preferenza è quindi per una soluzione di Grande
coalizione, una forma di unità nazionale che eviti elezioni immediate
ma soprattutto che sia capace di blindarsi per imporre nuovi e più
pesanti sacrifici ai lavoratori.
Il presidente della repubblica Napolitano è il principale interprete
di questa spinta. Il Pd per parte sua ha fornito l’ennesima conferma
della sua totale subordinazione agli interessi capitalistici nazionali
e internazionali mettendosi a disposizione per sostenere tanto l’intervento
militare in Libia e rinunciando a una seria opposizione alle manovre
economiche di Tremonti. Nella crisi del berlusconismo vediamo quindi
già prefigurarsi gli equilibri successivi.
La crisi politica può sfociare in coalizioni di unità
nazionale o in un nuovo centrosinistra. Ma il punto fondamentale è
che, quale che sia la formula politica, il programma è già
dettato: il futuro governo non potrà che applicare la medesima
politica di tagli, austerità, demolizione dei diritti che in
tutta Europa tanto i governi di destra come quelli di centrosinistra
portano avanti in maniera omogenea. Il problema fondamentale che dobbiamo
porre oggi alla sinistra non è solo chi batterà un Berlusconi
ormai a fine corsa, ma chi batterà Marcegaglia, Marchionne, Napolitano,
Draghi…
Significativo l’esempio di Alessandro Profumo, ex amministratore
delegato di Unicredit in procinto di una possibile “discesa in
campo” politica, propone di tagliare non 80 o 130, ma 400 miliardi
di Euro dal bilancio pubblico, come terapia d’urto per ridurre
il debito, trovando per giunta immediato sostegno in un settore del
Pd.
Nasce da queste semplici constatazioni l’esigenza imprescindibile
per noi di mantenere la nostra opposizione strategica al Pd e di farci
promotori di un polo della sinistra di classe con le forze che condividano
questa discriminante fondamentale.
15. Sui fallimentari progetti a sinistra
Il rifiuto di assumere questa prospettiva, cioè di rompere una
volta per tutte il cordone ombelicale con le varie ipotesi di “nuovo
centrosinistra”, porta il dibattito a sinistra ad avvitarsi in
un balletto infinito di posizionamenti e controposizionamenti (primarie,
primarie di programma, aggregazioni elettorali, ecc.) che se da un lato
appassiona irresistibilmente i gruppi dirigenti orfani di governi e
postazioni istituzionali, dall’altro costituisce un ostacolo permanente
allo sviluppo di quel conflitto di massa e radicale che, solo, può
portare a sconfiggere questo governo e soprattutto ad aprire una prospettiva
diversa da quelle già in gestazione nei piani alti del potere
economico e politico.
Nessuna delle proposte fin qui avanzate dal gruppo dirigente per intervenire
nella crisi politica ha avuto alcun esito: non la Federazione della
sinistra, non la proposta di gruppi istituzionali unitari con Sel e
Idv, non le diverse variazioni sul tema del fronte democratico in funzione
antiberlusconiana. Da oltre due anni il Prc viene impantanato in una
discussione sempre più surreale e contorta il cui unico risultato
è di spostare progressivamente verso destra la linea politica:
si è passati dal dichiararsi strategicamente alternativi al Pd
al proporre una semplice alleanza elettorale, poi trasformata in una
proposta di appoggio esterno a un eventuale governo, fino a teorizzare
che oggi non potremmo assumere la stessa posizione che venne sostenuta
nel 1998 (rottura col primo governo Prodi).
Le discriminanti vanno tracciate non in rapporto ad avvenimenti superficiali
legati agli schieramenti elettorali, ma basandosi sugli elementi fondamentali
dello scontro di classe. La prospettiva di alternanza di governo implica
necessariamente il coinvolgimento del Pd e un tentativo di patto sociale
con la maggioranza della Cgil. La sinistra di classe, a partire dal
nostro partito, deve essere il punto di riferimento per chiunque intenda
avversare questi due tentativi e mantenersi sul terreno del conflitto.
Dobbiamo batterci con coerenza contro tutti i tentativi di offuscare
questa divisione e di ricondurci sul terreno di un nuovo centrosinistra.
L’accordo del 28 giugno firmato da tutte le parti sociali prefigura
precisamente quel tipo di sbocco, e non a caso ha avuto non solo l’entusiasta
appoggio del Pd, ma ha anche messo a nudo l’ipocrisia e le contraddizioni
di Sel, che tenta appunto di accreditarsi come unica sinistra capace
di incidere nei processi in quanto inserita nella prospettiva di un
rinnovato centrosinistra. Sel non ha potuto né sostenere l’accordo,
né prendere una posizione realmente contraria, precisamente perché
entrando nel merito delle vere discriminanti di classe (applicazione
del modello Marchionne, deroghe ai contratti nazionali di lavoro, democrazia
sindacale, ecc.) l’accordo di giugno costringeva ad uscire dal
terreno fumoso delle “narrazioni” con relativo contorno
di primarie, lotte per la leadership ecc., mettendo in luce la subalternità
di Vendola.
Proprio per questo dobbiamo rifiutare con nettezza quei terreni di scontro
che tendono ad offuscare le reali discriminanti di classe: l’esatto
contrario di quanto fatto dalla maggioranza del nostro partito, che
accettando la proposta delle “primarie di programma” e in
generale la logica di coalizione, contribuisce, nonostante dichiari
il contrario, precisamente al successo di quelle forze di sinistra moderata
che a parole si dichiara di voler combattere.
Il punto più importante è che anche un governo senza Berlusconi
non sarà nelle condizioni di addormentare il conflitto sociale
come pure fece il primo centrosinistra negli anni ’90. La situazione
sociale è troppo deteriorata, la portata delle misure richieste
dal padronato è troppo devastante per potere immaginare che passino
senza una opposizione di massa nel paese, come peraltro si è
visto in Europa dove le contestazioni non hanno certo risparmiato i
governi socialisti (Spagna, Grecia). È questa la prospettiva
che dobbiamo mettere al centro della nostra strategia.
16. Milano e Napoli: due lezioni importanti
L’idea che dalle primarie potessse venire la spinta per un forte
cambiamento e per superare il moderatismo del Pd era emersa enormemente
rafforzata dopo le elezioni comunali di Milano. Tuttavia sono bastati
pochi mesi per mostrare come il vento del cambiamento che pure si era
espresso nel voto è stato rapidamente spento nelle scelte della
giunta. Pisapia ha immediatamente aperto ai centristi dell’Udc,
escludendo contestualmente il nostro partito dalla giunta; ha confermato
le decisioni della giunta Moratti in merito alla decisiva questione
dell’Expo e del PGT, ha aumentato il biglietto del trasporto pubblico
del 50 per cento.
Il nostro partito si è trovato senza neppure rendersene conto
in una posizione di opposizione quando pensava invece di essere entrato
nella plancia di comando di Palazzo Marino. A tutto questo si aggiunge
l’inchiesta sulle aree ex Falck, che mette in luce una volta di
più come il Pd sia del tutto interno alle logiche di gestione
del potere, degli affari e del territorio che hanno segnato questi ultimi
decenni in Lombardia come dappertutto. La prospettiva rimane per noi
quella di costruire una opposizione efficace e radicata.
La vicenda napoletana si differenzia soprattutto in un punto: mentre
Pisapia è un candidato interno alla borghesia milanese tanto
quanto la Moratti, De Magistris era un outsider che al momento della
sua elezione non aveva schierati dietro di sé i poteri forti
del territorio campano. In un contesto politico e sociale quale quello
napoletano De Magistris, per mantenere il consenso conquistato, potrebbe
essere spinto a compiere scelte che lo approfondiscano questa contraddizione.
Abbiamo qui una opportunità, ma anche un pericolo: esiste il
rischio reale che nella crisi della sinistra e nella crescente radicalizzazione
sociale la rabbia e lo scontento creino la base per movimenti populisti
che ammantandosi di una retorica antisistema raccolgano attorno alla
figura del “salvatore” di turno il consenso di settori significativi
di lavoratori e di settori popolari. Fenomeni che sono stati e sono
tipici dei paesi latinoamericani e non solo, dove più volte gli
errori disastrosi delle forze di sinistra, in particolare comuniste,
hanno aperto la strada a movimenti populisti che hanno poi preso gli
sviluppi più diversi, offuscando la necessità di un partito
di classe che rappresenti un punto di riferimento per quei settori di
lavoratori e di popolazione che si riconoscono in un’istanza di
cambiamento radicale.
A Napoli il Prc può combattere una battaglia egemonica anche
a partire dall’attuale collocazione in maggioranza, alla quale
peraltro siamo giunti in base a circostanze che ci hanno favorito al
di là e contro le scelte compiute dal gruppo dirigente: sbagliato
fu infatti partecipare alle primarie, e solo lo scandalo esploso nel
Pd, che ha portato all’annullamento delle stesse primarie, ha
permesso che emergesse la figura di De Magistris come candidato “di
rottura”. Gli errori successivi di Sel, che nel primo turno appoggiò
il candidato del Pd Morcone, ci ha poi consegnato in modo del tutto
inopinato una posizione di obiettivo vantaggio, quale unico partito
di sinistra all’interno della coalizione di De Magistris. La nostra
politica andrà calibrata sul criterio fondamentale di non entrare
in contrasto con i nostri referenti sociali e di impedire che le speranze
iniziali vengano spente come già avvenne col “laboratorio
campano” dei primi anni ’90, che sfociò nella costruzione
di un sistema di potere che per quasi vent’anni ha egemonizzato
la Campania rispetto al quale il Prc fu largamente subalterno, finendone
stritolato.
17. Bilancio di Chianciano. Requiem per la “svolta a sinistra”
Il bilancio della “svolta di Chianciano” è presto
tratto: il sussulto della militanza che impedì nel 2008 la vittoria
della proposta apertamente liquidatrice del partito è stato soffocato
nel giro di un anno e rimpiazzato con una linea che, sostenuta da una
diversa maggioranza all’interno del partito, ha collezionato una
serie di fallimenti a catena nei suoi punti fondamentali.
18. Una strategia di classe nella battaglia sindacale
Fallimentare e assurda è stata la politica sindacale del partito,
che ci ha portato a negare il sostegno alla battaglia della Fiom nel
congresso della Cgil e a legarci alla componente di Lavoro e società
che in tutta questa fase si è schierata come vera e propria guardia
pretoriana della maggioranza. La contraddizione diventa insopportabile
dopo la firma dell’accordo del 28 giugno, al quale il partito
si oppone con posizione unanime del Cpn, ma senza poter poi applicare
tale decisione per non aprire il conflitto nella Federazione della sinistra.
È necessario dotarci di una strategia sindacale coerente e di
lungo periodo, senza la quale è impossibile costruire un serio
radicamento nei luoghi di lavoro. Dobbiamo essere in prima fila nella
battaglia per la costruzione di una seria opposizione nella Cgil, che
non si consumi nelle battaglie di apparato e di organismi, ma si radichi
sistematicamente nelle categorie e nei luoghi di lavoro, impugnando
le battaglie più avanzate, a partire da quella per la difesa
e la riconquista dei contratti nazionali di lavoro, senza riunciare
alla necessaria azione autonoma e alla critica anche verso il gruppo
dirigente della Fiom, dove e quando questa si renda necessaria. Dobbiamo
avanzare e praticare percorsi di autorganizzazione e collegamento dal
basso fra le Rsu e i lavoratori, non in alternativa alla necessaria
battaglia nelle strutture sindacali, ma come elemento indispensabile
per allargare la partecipazione per fare avanzare rivendicazioni più
radicali e metodi di lotta e organizzazione che rendano i lavoratori
stessi protagonisti e dirigenti delle proprie battaglie, sfidando le
burocrazie di tutte le sfumature, nel sindacato confederale come nei
sindacati di base.
Le linee guida della nostra battaglia sono: riconquista del contratto
nazionale con tutela universale e livelli salariali dignitosi; lotta
alla precarietà e alla frantumazione delle forme contrattuali;
lotta alla flessibilizzazione e all’estensione dell’orario
di lavoro (lavoro festivo, notturno, turnazioni sempre più incompatibili
con vita sociale e la salute, dilagare dello straordinario obbligatorio);
controllo sulle modalità e l’intensità della prestazione
lavorativa; contro l’offensiva che (da Marchionne a Sacconi) mira
al controllo totale a parte dell’azienda sul lavoratore; piena
democrazia sindacale e nei luoghi di lavoro, controllo dei lavoratori
sulle loro rappresentanze, sulle piattaforme e gli accordi.
La costruzione dell’area alternativa “la Cgil che vogliamo”
sconta – anche per ragioni oggettive – una impostazione
che limita la battaglia a una logica di posizionamento, giocando sempre
di rimessa rispetto alle scelte della maggioranza e cercando di superare
le proprie debolezze costruendo relazioni politiche con forze politiche
o “di movimento” le quali diventano poi il veicolo per condizionarne
le posizioni in senso moderato. Evidente è il rischio che “Uniti
contro la crisi”, che nasceva dalla giusta esigenza di creare
un fronte di alleanze attorno alla battaglia della Fiom, finisca completamente
risucchiata da queste logiche. La nostra battaglia deve ribaltare questa
dinamica, proponendo la costruzione dell’opposizione nella Cgil
come strumento per sviluppare il conflitto nei luoghi di lavoro, assumendo
i bisogni dei lavoratori e la loro capacità di conflitto come
unica bussola e discriminante, contro ogni compatibilità dettata
dagli apparati e dalle loro relazioni politiche nel campo del centrosinistra.
Parallelamente il partito deve essere impegnato tramite i suoi militanti
nel percorso di unificazione del sindacalismo di base, un progetto quanto
mai necessario, ma che non può essere imposto con operazioni
di vertice “a freddo”.
Solo attraverso lo sviluppo di un movimento di massa si possono superare
divisioni, travalicando i recinti organizzativi e le gelosie di apparato
o di micro apparato. Un nuovo movimento dei consigli, autoconvocato
dal basso così come si è visto in altre fasi storiche
(Autunno caldo, 1984, 1992-93) è oggi un obiettivo possibile
al quale lavorare e può determinare quell’unità
di classe compromessa dall’azione di sigle in competizione tra
loro, superando anche il muro costruito dalla burocrazia per separare
i militanti della Cgil da quelli del sindacalismo di base.
19. Prendere atto del fallimento della Federazione della Sinistra
La Fds rappresenta il condensato degli errori di questi due anni. Ha
ingabbiato il partito in una struttura antidemocratica che ne ha limitato
l’autonomia e lo ha costantemente condizionato in direzione moderata.
Ha sancito un legame inaccettabile con una componente sindacale, Lavoro
e Società, obiettivamente incompatibile con la urgente necessità
di collocare i lavoratori e i militanti sindacali iscritti al nostro
partito su una chiara posizione di critica e opposizione al percorso
assunto dalla maggioranza del gruppo dirigente Cgil.
Due esempi sono stati particolarmente clamorosi: il primo riguarda il
voto favorevole espresso a maggioranza nel direttivo della Cgil (al
quale si è associata Lavoro e società) che di fatto legittimava
l’intervento militare in Libia; il secondo è il già
citato accordo del 28 giugno, con l’aggravante che la Fds ha di
fatto sconfessato il suo portavoce nazionale che aveva espresso un giudizio
di netta critica dell’accordo, giudizio che non è stato
confermato dell’organismo dirigente della Fds stessa, dove la
decisione assunta a maggioranza è stata di non esprimere alcun
voto al riguardo.
Anche sul terreno elettorale la Fds è stata strumento per imporre
posizioni moderate anche laddove la larga maggioranza dei militanti
del Prc era contraria, come ad esempio nel caso della candidatura Bonino
alle elezioni regionali del Lazio.
La Fds ha anche favorito episodi di vero e proprio trasformismo, posto
che il suo funzionamento antidemocratico favorisce la rappresentanza
di piccoli gruppi senza alcun radicamento reale e con posizioni politiche
a volte molto discutibili, a tutto danno della militanza autentica la
quale non ha alcuno strumento per impedire simili fenomeni.
Il congresso nazionale deve pertanto deliberare di conseguenza e in
particolare respingere ogni tentativo di cedere la sovranità
del partito su determinate materie (presentazioni elettorali, gruppi
istituzionali, ecc.).
20. Quale modello di partito?
Avanziamo la proposta del partito di classe senza autoreferenzialità,
come uno dei soggetti che mira alla costruzione di una aggregazione
di classe nel nostro paese.
In questi anni di crisi profonda del capitalismo abbiamo visto forti
elementi di autorganizzazione e radicalità operaia (Innse, Pomigliano,
Terim, Fincantieri…), l’idea di occupare gli stabilimenti,
di difendere il patrimonio produttivo è una idea che si è
andata diffondendo. Decisiva nelle lotte spesso è stata la presenza
di quadri operai sperimentati, nel caso di Pomigliano, di Fincantieri,
della Terim e tanti altri, e si trattava in buona parte di militanti
del nostro partito.
Dobbiamo lavorare a far emergere questi stessi elementi perché
si diffondano in ogni conflitto e perché vengano socializzati.
Non si tratta solamente che gli operai parlino della condizione di fabbrica
o delle lotte che li vedono protagonisti ma che da queste esperienze
possa emergere una soggettività di classe in grado di mettersi
all’altezza della sfida imposta dalla crisi. Formare dei quadri
capaci di far vivere questa prospettiva costituisce il principale aspetto
strategico della costruzione di un partito comunista e rivoluzionario.
Se da una parte abbiamo citato alcune esperienze positive, dall’altra
non possiamo che constatare che la maggior parte dei nostri quadri sono
stati orientati in tutt’altra direzione, spesso impastoiati in
pratiche istituzionali e politiciste, con un largo disinteresse verso
il radicamento sociale del partito oltre che verso la teoria e la formazione
politica.
Siamo così venuti meno a uno dei nostri compiti fondamentali,
i lavoratori hanno trovato solo in pochissimi casi il conforto delle
proprie organizzazioni sindacali (in particolare la Fiom seppure tra
mille contraddizioni) in altre questo non c’è stato. In
altre ancora c’è stato un vero e proprio sabotaggio da
parte sindacale.
Il partito quando era presente, raramente si è posto il problema
di costruire assieme ai lavoratori una strategia di lotta. Nella maggioranza
dei casi così non è stato e spesso ha prevalso la logica
della “sponda istituzionale”.
Andare ai cancelli con le brigate di solidarietà è senza
dubbio utile, e va riconosciuto il contributo positivo di queste compagne
e compagni al sostegno delle mobilitazioni, ma in ultima analisi la
nostra funzione dovrebbe andare oltre la semplice solidarietà.
Non dobbiamo dimenticare, per non ripercorrere vecchie strade che hanno
portato il movimento su binari morti, che le pratiche sociali e mutualistiche
hanno una contraddittorietà intrinseca. Si tratta di attività
che indicano il problema. Alludono alla soluzione ma non la contengono
in sé. Nel raggiungimento dei loro obiettivi, contengono già
il loro superamento. Se sono scollegate dalla lotta, dal conflitto reale,
dal vertenzialismo, si convertono nel loro contrario.
Per fare un esempio se proponiamo le casse di resistenza, questa è
cosa buona e giusta, ma se questa proposta non scaturisce dal conflitto
reale e non si creano le condizioni politiche e le necessarie alleanze
sociali perché avanzi e raggiunga gli obiettivi che si è
proposta allora si scade nella politica delle sterili proclamazioni
di principio che non faranno aumentare di un millimetro il nostro radicamento
sociale, né contribuiranno a scalfire il muro di diffidenza che
permane attorno a noi.
Per essere radicati in una realtà lavorativa non basta che singoli
compagni siano dei riferimenti per i lavoratori, è necessario
che questi stessi lavoratori capiscano che il comportamento individuale
che loro apprezzano fa parte della strategia e del modo complessivo
di porsi del partito nei confronti della classe.
Viceversa, anche quando si affermano le cosiddette pratiche sociali
queste vengono trattate alla stregua di prodotti di marketing da propore
al “mercato della politica”, senza alcuna riflessione sugli
obiettivi proposti e su come conseguirli.
Non c’è carenza solo di lotta ma anche di studio. Lo studio
serio, approfondito e sistematico delle realtà produttive, della
struttura di classe, del contesto economico-politico, delle esperienze
avanzate del movimento internazionale. Solo conoscendo e discutendo
collettivamente è possibile apprendere le forme di lotta più
efficaci e determinare le strategie corrette in ogni contesto.
Il ruolo di un partito comunista è quello di provare a comprendere
le tendenze del capitale per contrastarle definendo proposte programmatiche,
che si inseriscano nella realtà viva del conflitto sociale. Tutto
questo è quanto di più lontano possa esserci oggi dalla
vita reale del nostro partito. Non si tratta di un problema meramente
organizzativo ma di una questione intrinsecamente legata alla linea
politica.
Non ci sarà conferenza di organizzazione che potrà cambiare
tutto ciò. Non a caso i buoni propositi di Carrara e Caserta
sono rimasti lettera morta mentre dilagavano le pratiche vergognose
di un ceto istituzionale totalmente separato dal corpo militante. La
vicende degli assessori e consiglieri regionali De Gaetano e Gabriele
(fuoriusciti entrambi per andare nel Pd) è emblematica ed è
solo la punta dell’iceberg di un malcostume consolidato con l’esistenza
di veri e propri comitati elettorali e affaristici che si insinuano
nelle strutture del partito, lì dove governiamo.
21. La radicalizzazione investe i giovani
La crisi economica e le manovre in atto si scaricano con particolare
violenza sui giovani. Il diritto allo studio è messo ormai in
crisi da 20 anni di controriforme (dall'Autonomia Scolastica e Universitaria
in poi) e dai tagli che si sono accumulati, in particolare quelli dell'ultimo
governo. Siamo ormai arrivati a un cambio qualitativo della crisi dell'istruzione
pubblica, che si riscontra a livello di strutture, di personale docente
e non, di sovraffollamento, di aumento dei costi, di tagli alla didattica.
Parallelamente la disoccupazione giovanile raggiunge la soglia del 30%
e l'occupazione giovanile è quella maggiormente colpita dal precariato.
Se, come si ripete spesso, l'attuale generazione giovanile è
la prima ad andare incontro a condizioni di vita peggiori di quelle
dei propri genitori, capiamo come l'effetto della crisi si traduca per
i giovani in una vera e propria negazione del futuro. La gestione di
queste politiche si sposa con un aumento della repressione, dalle ordinanze
locali all'uso sempre più spregiudicato delle forze di polizia
per gestire l'ordine pubblico, dalle commissioni disciplinari in scuole
e università a dispositivi come la Fini-Giovanardi, che non colpisce
la criminalità organizzata ma reprime il singolo consumatore,
contribuendo alla situazione ormai insostenibile di sovraffollamento
carcerario.
Questi elementi politici di fondo sono sostanzialemente identici a livello
internazionale. Di insegnamento deve essere dunque la radicalizzazione
giovanile che ha avuto luogo in diversi paesi (Grecia, Spagna, Egitto,
Gran Bretagna, Cile solo per citarne alcuni). Questa radicalizzazione
arriverà anche in Italia, dove assistiamo già a un processo
di attivazione politica giovanile che, come normale, si sviluppa attraverso
le possibilità offerte dallo scenario politico.
Le mobilitazioni contro la riforma Gelmini dell'autunno hanno coinvolto
un settore importante di giovani e giovanissimi ed è stato posto
all'ordine del giorno il problema dell'unità con il movimento
operaio. Il 14 dicembre a Roma è emersa una volontà di
non arretrare più e una disponibilità a sostenere le forme
di lotta più radicali. È la stessa volontà che
abbiamo ritrovato in Val Susa il 3 luglio, dove centinaia di giovani
(ma non solo) hanno sostenuto uno scontro non minoritario e condiviso
politicamente dal resto del corteo.
Tale processo offre grandi possibilità al partito e ai Gc, a
patto di saper intervenire, anche qui, con una proposta politica complessiva
che possa orientare e organizzare una radicalità che altrimenti
incontra forti difficoltà a tradursi in forma organizzata, complice
anche il ruolo delle principali strutture giovanili, che riflettono
su minor scala le logiche di compatibilità che troviamo nel dibattito
politico generale.
22. Il rapporto coi movimenti
Il movimento degli “indignados” è uno dei terreni
decisivi su cui impegnare i nostri militanti a partire dai/dalle GC,
ma anche qui è necessario apprendere dagli errori passati. In
passato l’“immersione” nei movimenti è stata
condotta in base a un gigantesco equivoco e sulla base di un dibattito
spesso mistificato. La tessitura di rapporti con ceti politici e gruppi
dirigenti più o meno rappresentativi è stata privilegiata
rispetto all’incontro con le energie più fresche e militanti
che si esprimevano nelle mobilitazioni e che cercano innanzitutto una
prospettiva di lotta contro questo sistema e una proposta di costruzione,
anche organizzativa, del movimento che possa dargli la durata, profondità
e radicalità necessarie di fronte alla portata dell’attacco.
Di tutto questo non c’è quasi traccia nell’intervento
dei Gc, paralizzati nel loro livello nazionale dal conflitto interno
alle correnti di maggioranza.
Anziché proporre audacemente una prospettiva di cambiamento una
generalizzazione teorica e politica all’altezza della richiesta
impetuosa salita dal movimento e dall’aspirazione a un “altro
mondo possibile”, ci siamo lasciati contaminare (in questo caso
l’espressione è pertinente) dalle più classiche
mode ideologiche che hanno un solo comune obiettivo: criticare, attaccare
e ridicolizzare ogni idea di salda organizzazione degli oppressi, di
lotta organizzata, prima fra tutte l’idea della necessità
di un partito comunista con una prospettiva rivoluzionaria.
La svolta necessaria e urgente deve essere una vera e propria svolta
operaia del nostro partito.
Questo non significa fare del partito un organismo parasindacale che
discute solo temi economico-sindacali. Significa invece che deve proporsi
tenacemente di conquistare posizioni, autorevolezza, consenso e adesioni
con un lavoro di conoscenza e intervento sistematico e centralizzato
in tutti i terreni di conflitto, in ciascuno di essi ponendo un punto
di vista di classe e anticapitalista.
È stato più volte commentato, e con ragione, come militanti
del nostro partito siano presenti in tutti i conflitti che prendono
vita e forma nel nostro paese.
Questa constatazione deve essere fonte di ottimismo, ma non deve oscurare
l’altra faccia della medaglia: troppo spesso i nostri militanti
si trovano privi di punti di riferimento, proposte, analisi, canali
d’intervento propri del partito, se non addirittura col partito
schierato elettoralmente a fianco di chi sta dall’altra parte
della barricata (il caso della Val di Susa è il più eclatante).
Si dice che il centralismo sarebbe in contrasto con la possibilità
di forme di militanza parziali, legate magari a tematiche specifiche.
È vero invece il contrario: rivendichiamo che il nostro obiettivo
sia quello di avere militanti formati ad una visione ampia dei problemi
sociali, non rinchiusi nella logica settoriale valida forse per gli
“specialisti” di mestiere, ma che poco può ispirare
a una visione del mondo di oggi, con la sua complessità, e soprattutto
a una prospettiva di cambiamento della società. Ma non solo:
la militanza necessariamente “parziale” (se non per visione,
certo per necessità pratica) di ciascuno di noi può acquisire
efficacia e forza cento volte maggiore proprio se inserita in un piano
generale di intervento, di elaborazione, di attività. E indubbiamente
piani di questo genere possono essere discussi, elaborati e messi in
pratica solo con una discussione che riconduca tutte le sollecitazioni
e le proposte in un ambito centrale, il più possibile democratico
e partecipato, che possa farle proprie e riproporle all’insieme
delle strutture del partito, a cominciare dai circoli.
Quanto detto sopra riguardo i luoghi di lavoro vale in generale per
tutti i terreni di conflitto più significativi. Ed è ancora
più valido in un contesto in cui le nostre forze si sono notevolmente
ridimensionate rispetto al passato. Se c’è un male che
colpisce oggi le nostre strutture, anche quelle più attive, è
la mancanza di punti di riferimento all’interno del partito, l’impossibilità
di accedere a canali di dibattito efficaci, stabili e accessibili, dove
si possano dare come ricevere stimoli e indicazioni.
Il modello attuale dei nostri organismi dirigenti costituisce una brutta
copia di una modesta democrazia parlamentare: organismi spesso pletorici
in cui il dibattito politico è sostanzialmente cristallizzato
e dove le decisioni reali si prendono in ambiti molto ristretti dai
dirigenti delle correnti che compongono l’attuale maggioranza.
Dobbiamo andare verso organismi meno pletorici nei quali la indispensabile
rappresentanza dei diversi orientamenti politici venga associata al
diretto coinvolgimento dei loro componenti nel lavoro di costruzione
e direzione dell’intervento del partito nei vari settori.
L’apparato di partito va selezionato in modo trasparente, democratico
e mantenuto sotto un costante controllo della base e dei militanti.
Va introdotto innanzitutto in forma rigida e inderogabile il criterio
del salario operaio a tutti i livelli istituzionali e per qualsiasi
incarico di partito. Va introdotto un meccanismo effettivamente democratico
di selezione delle candidature da parte dei militanti per tutti i livelli
elettorali.
23. La militanza politica delle donne
Un odio particolare è riservato alle donne negli attacchi promossi
dai governi degli ultimi anni: il sistema contributivo del calcolo delle
pensioni, così come il meccanismo delle finestre penalizza soprattutto
le donne, l’aumento dell’età pensionabile nel pubblico
e nel privato, i tagli agli enti locali e in generale ai servizi pubblici,
il peggioramento delle condizioni nei luoghi di lavoro a forte presenza
femminile: impiego pubblico, insegnamento, commercio, per citarne alcuni,
fanno del nostro paese uno dei paesi a minore occupazione femminile,
siamo al 46%, 12 punti sotto la media europea.
Queste politiche, unite ai finanziamenti ad hoc per le famiglie e al
rinnovato vigore delle campagne clericali rappresentano i pilastri su
cui poggia la campagna ideologica martellante che vuole le donne angeli
del focolare e oggetto del piacere maschile.
Non potremmo certo spiegarci in altro modo almeno gran parte dell’aumento
delle violenze contro le donne, prevalentemente perpetrate nelle quattro
mura domestiche, ma non solo. Le donne sono esseri umani inferiori:
questo è il messaggio di fatto dominante nella nostra cultura
che autorizza gli uomini ad abusare delle donne, sia sessualmente che
sfruttandole nel lavoro domestico e di cura. Combattere questa cultura
significa in primo luogo combattere con coerenza i pilastri su cui poggia.
Il nostro partito ha gravi lacune su questo terreno di intervento politico
che si evidenziano anche nella scarsa presenza di compagne nella sua
militanza.
Come era ipotizzabile questo problema non si è risolto imponendo
una partecipazione delle donne alla vita politica del partito e ai suoi
gruppi dirigenti attraverso la norma cosiddetta antidiscriminatoria.
Essa consolida l’idea delle donne soggetto debole e di serie B,
incapaci di conquistarsi uno spazio politico se non viene loro attribuito
e soprattutto nasconde l’assenza nel nostro partito di un orientamento
verso le donne della classe lavoratrice e quelle che più di tutte
subiscono gli effetti della cultura maschilista. A questi settori dobbiamo
offrire una battaglia coerente sul piano politico, culturale e anche
sociale che le renda autenticamente protagoniste della propria militanza
e della lotta per la propria liberazione.
24. Sulle correnti del Prc
A partire da quando nel 2009 si è affermata nel livello nazionale
la cosiddetta “gestione unitaria”, ovvero la coalizione
di tutte le correnti interne al Prc ad eccezione di quella che presenta
queste tesi, si è affermata la vulgata secondo la quale sarebbe
necessario “superare le componenti interne”, le “cristallizzazioni”,
ecc. Il contrasto tra le parole e i fatti non potrebbe essere più
stridente. Tuttavia sarebbe riduttivo limitarsi a una critica dei comportamenti.
In realtà le principali correnti esistenti nel partito hanno
ben precisi connotati teorici, politici, ecc. Chi, magari svolgendo
un ruolo rilevante all’interno di una di esse, propaganda il “superamento
delle aree” in nome dell’“unità del partito”
non propone in realtà una visione più alta del partito,
ma solo una visione più bassa delle aree che lo compongono e
della propria posizione politica.
Questa mozione nasce da compagni e compagne che hanno sempre subordinato
le proprie posizioni anche in campo organizzativo (incarichi e responsabilità,
ecc.) al proprio disegno politico, sempre e dovunque manifestato apertamente,
rifiutando la logica della “gestione” di posizioni ed incarichi
quando questi entravano in contrasto politico irriducibile con le tesi
politiche da noi avanzate, non in nome di un ottuso “basismo”,
ma in nome della relazione dialettica che deve sempre esistere tra linea
politica e strategie organizzative.
L’unità e l’omogeneità politica del partito
sono un obbiettivo e, se autentiche e non imposte con mezzi burocratici,
moltiplicano la forza e l’efficacia di qualsiasi organizzazione.
Ma nessuna autentica unità potrà mai essere creata con
la logica dei bilancini e del minimo comune denominatore, che al contrario
ha dimostrato di paralizzare l’iniziativa e di generare un clima
di irresponsabilità dei gruppi dirigenti, che legittimandosi
a vicenda si autonomizzano nei confronti della base. L’unità
è possibile laddove una proposta forte innanzitutto sul piano
teorico e politico si dimostra capace di egemonia nel movimento e nel
partito stesso; solo in questo contesto anche la posizione di chi è
in disaccordo può trovare una legittimazione e un riconoscimento
che permettano l’unità d’azione e un rapporto di
solidarietà rispetto all’insieme del partito e alla sua
battaglia.
Viceversa il prevalere delle logiche di galleggiamento e di piccolo
cabotaggio, se anche può favorire un clima “unitario”
nei vertici, non farà altro che aumentare le spinte disgregatrici
e demotivare la militanza; l’inglorioso percorso della Federazione
della sinistra, che da questo punto di vista ha costituito un esempio
perfetto di “gestione unitaria”, conferma come tanto più
solido è stato il patto di vertice, tanto meno i militanti di
base sono stati motivati a impegnarsi nel progetto.
Ci consideriamo quindi impegnati in una aperta battaglia per l’egemonia
nel partito e nel movimento, unica base possibile sulla quale si può
costruire una autentica relazione unitaria nel corpo militante. Al centro
della nostra azione non poniamo la ricerca di estenuati equilibri interni
a un gruppo dirigente estenuato, ma la prospettiva rivoluzionaria della
lotta per una società diversa.