Partito della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 23- 24 settembre 2011

VIII CONGRESSO – DOCUMENTO POLITICO N. 1
BOZZA PROVVISORIA (il testo ufficiale definitivo sarà disponibile dal 3 ottobre e verrà pubblicato nell’inserto di Liberazione del 9 ottobre)

La crisi del Capitalismo ha aperto un epoca di grandi sommovimenti. Certezze che parevano consolidate sono messe in discussione. Non solo il paesaggio sociale ma le stesse vite delle persone vengono scosse, quando non travolte. La crisi del capitalismo, presentato dai cantori del pensiero unico come un fenomeno naturale, non viene compresa a livello di massa nelle sue caratteristiche strutturali e per questo produce un forte senso di spaesamento e disorientamento. Per dirla con Gramsci, siamo entrati in una fase di guerra di movimento e mai come oggi, il pensiero di Marx, basato sulla “critica dell’economia politica” si mostra attuale.
Proprio in questo grande sommovimento noi riteniamo si sia riaperta la partita sul futuro dell’umanità. Dopo anni in cui il capitalismo neoliberista è stato presentato – da destra ma anche da sinistra – come la fine della storia, la grande crisi ci parla del fallimento di un capitalismo che mostra appieno il suo carattere distruttivo: dei diritti, dell’ambiente, delle vite e delle relazioni così come ci parla del fallimento delle socialdemocrazie.
L’ideogramma cinese che rappresenta la parola crisi è composto di due elementi, che significano rispettivamente pericolo e opportunità. Questo documento è il nostro contributo al fine di battere i pericoli e valorizzare le opportunità. Un contributo, che offriamo ai soggetti sociali colpiti dalla crisi, alle aggregazioni che nella società si battono per un cambiamento, alle forze della sinistra e comuniste, per costruire un confronto finalizzato alla trasformazione sociale. Un cambiamento della realtà in cui viviamo, per uscire dal capitalismo in crisi e dal patriarcato, risolvendo positivamente l’alternativa socialismo o barbarie che si ripresenta ai giorni nostri ma anche un cambiamento nostro, perché molta è la strada da fare.
Nel XX anniversario dalla nascita di Rifondazione Comunista, avanziamo quindi analisi e proposte con l’obiettivo di dar vita ad una alternativa di società, per costruire un movimento politico di massa contro il capitalismo, l’uscita da sinistra dalla crisi e una sinistra degna di questo nome.
ATTUALITA’ DEL COMUNISMO
Mai come oggi nella storia dell’umanità è stata così evidente la contraddizione tra una diffusa domanda di libertà e di giustizia e l’incapacità del sistema sociale di soddisfarla.
Questa distanza si va via via accentuando a causa della crisi strutturale del capitalismo. Non solo il capitale non è in grado di dare una risposta ai problemi del futuro dell’umanità ma sta determinando una pesante regressione del grado di civiltà a cui l’umanità era giunta. Questa regressione, lungi dall’essere un incidente di percorso, è il frutto maturo del pieno dispiegarsi della globalizzazione neoliberista. In presenza di sempre più estesi bisogni sociali non soddisfatti, il capitale non solo non è in grado di valorizzare le risorse disponibili e di garantire il lavoro a tutti e tutte, ma distrugge l’ambiente e provoca guerre.
Rompere la gabbia dei rapporti sociali capitalistici è quindi un’urgenza per l’umanità ed è ciò che noi chiamiamo l’attualità del comunismo.
Questa urgenza oggettiva per l’umanità non è però una consapevolezza di massa. Vi sono ragioni di fondo che spiegano questa situazione contraddittoria, in primo luogo culturali.
Infatti, l’ideologia neoliberista, continua ad essere egemone nonostante il fallimento del neoliberismo stesso. Il “pensiero unico” in questi anni ha descritto il capitalismo e il neoliberismo come un processo naturale, oggettivo. Questo convincimento è oggi largamente diffuso pur in presenza di una palese fallimento del sistema. Parallelamente, il fallimento delle socialdemocrazie e l’opera di sistematica demolizione della prospettiva del comunismo - fatta in questi anni appiattendo la storia del comunismo sullo stalinismo - ha inciso a fondo nelle coscienze.
Ci troviamo quindi davanti ad una maturità oggettiva dell’uscita dai rapporti sociali capitalistici e ad un immaginario collettivo colonizzato da una ideologia che presenta il capitalismo come la “fine della storia” e ogni alternativa socialista come barbarica, come un ritorno indietro.
Nonostante questo, nel mondo, già alla fine degli anni 90, è sorto un forte movimento contro il capitalismo neoliberista. Il movimento alter mondialista è cresciuto notevolmente passando dalla contestazione delle scelte globali capitalistiche alla costruzione di proposte alternative. In diversi paesi dell’America Latina, dove le politiche neoliberiste sono state applicate prima che altrove e dove le conseguenze sono state più visibili, forti movimenti di lotta hanno avuto la capacità di sconvolgere le relazioni politiche e di conquistare il governo. In questi movimenti grande rilevanza ha avuto la riorganizzazione delle comunità indigene, la loro concezione e pratica della partecipazione e dell’autogestione, il rapporto con la terra, con la natura, la lotta per la sovranità alimentare, la sostituzione, anche in alcuni costituzioni come quella boliviana, del parametro del PIL con la categoria del “buen vivir”. In diversi casi questi governi hanno esplicitamente l’obiettivo di costruire una alternativa basata sulla fuoriuscita dal capitalismo. Prevedono chiaramente, per poterlo fare, di dover conquistare una dimensione sovranazionale capace di resistere alle aggressioni economiche del sistema e a quelle politico-militari degli USA. L’ALBA è solo un primo passo verso questa costruzione. In tutti questi paesi si sono sviluppate forme di democrazia diretta e dal basso, nel fuoco delle lotte, che in alcuni paesi hanno determinato riforme costituzionali originali ed interessanti. In tutti questi paesi i movimenti sociali, i partiti e gli stessi governi hanno prodotto forme di relazione fra loro inedite altrove.
L’esempio latinoamericano ci dice quindi che, al fine di superare la situazione contraddittoria in cui operiamo, è necessario costruire un nuovo immaginario in grado di presentare la trasformazione radicale dello stato di cose presenti, come una prospettiva auspicabile per i soggetti che lottano per la libertà e la giustizia. E’ quello che noi chiamiamo processo della rifondazione comunista.

LA NECESSITA’ DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA

Al fine di costruire un immaginario della trasformazione che esprima fino in fondo l’essenza della nostra proposta politica, decisivo è definire il rapporto con la nostra storia.
Come abbiamo già chiaramente detto in precedenti documenti congressuali, il movimento comunista, ha alle spalle una storia lunga, anzi secolare, che per molti aspetti coincide con i tanti tentativi di liberazione umana che l'hanno percorsa, con le molte "scalate al cielo" che sono state sperimentate da milioni di esseri umani. In questa molteplicità di riferimenti, la Rivoluzione d'Ottobre mantiene un valore peculiare: essa è stata uno spartiacque del XX secolo. Per la prima volta nella storia le masse hanno preso in mano il loro destino. La Rivoluzione d’ottobre ha permesso al popolo Russo di uscire da una situazione di miseria, servaggio ed ignoranza inqualificabili. Ha modificato in profondità gli equilibri del mondo, rompendo il monopolio planetario del mercato capitalistico e influenzando l'intero corso rivoluzionario del '900, fino alle liberazioni anticoloniali. Ha costretto le classi dominanti dell'occidente capitalistico a compromessi significativi con il movimento operaio. Ha contribuito in termini decisivi alla sconfitta del nazifascismo.
Questi indiscutibili meriti politici e storici non hanno impedito il profondo processo involutivo e degenerativo delle società postirivoluzionarie, che è stato tra le cause principali del loro fallimento. Al di là del necessario bilancio storico, politico e ideale che è ancora largamente da compiere, in un lavoro di ricerca collettiva, è proprio dalla dialettica tra la validità dell'ottobre e il fallimento dei tentativi di transizione che emerge la necessità strategica della rifondazione di un pensiero, di una pratica e di una politica comunista.
Per questo il progetto della rifondazione comunista, di un'identità comunista adeguata al XXI secolo, implica una rottura radicale con lo stalinismo. Non proponiamo qui un'operazione di bilancio storico, ben altrimenti impegnativa, ma di verità politica e di identità teorica: la separazione dallo stalinismo è anche e soprattutto la messa in causa di un paradigma della transizione, di una concezione della politica, di una funzione del partito. Nel comunismo italiano, la rottura è avvenuta, prevalentemente, in nome dei diritti della persona e della necessità della democrazia rappresentativa: nel nuovo movimento comunista queste ragioni devono essere sviluppate fino in fondo, in nome della società nuova da costruire, della liberazione del lavoro, del rifiuto della separatezza tra cittadino e Stato. In questo senso si può essere portatori e portatrici credibili di un'ipotesi rivoluzionaria e comunista solo in quanto essa si definisce in radicale discontinuità rispetto all'esperienza del "socialismo realizzato".
In questa eredità negativa, individuiamo, prima di tutto, l'idea di un "campo socialista" - campo statuale - al quale sacrificare, o subordinare, gli interessi strategici del movimento operaio mondiale: una distorsione di prospettiva improponibile, anche e soprattutto per il futuro. In secondo luogo, l'ossificazione dogmatica della teoria: un sostituto autoritario e inefficace dell'analisi dei processi reali, della metodologia dell'inchiesta, della verifica. Un terzo luogo una centralità assorbente di uno sviluppo industriale centralizzato, che ha prodotto un grande sviluppo economico ma contemporaneamente ha riprodotto rapporti di produzione gerarchizzati e ha contribuito all’ulteriore centralizzazione antidemocratica dello stato. Infine, e soprattutto, la riduzione del socialismo a pur dimensione della conquista e della gestione del potere politico e istituzionale, esterna ai luoghi del lavoro e della produzione (e più in generale ai rapporti sociali), coerente con un'ipotesi di gigantismo industrialista forzosamente guidato dall'alto: ma, così come la conquista del potere può generare dal suo stesso seno nuove e pesanti oppressioni, il produttivismo economicista non libera il lavoro e non crea una nuova qualità della vita In questo senso, lo stalinismo è anche stato un modello di sviluppo subalterno all'idea di crescita quantitativa. E' da questo deficit - non dal surplus - di socialismo che sono derivate la concezione (e la pratica) totalizzante e dispotica del Partito, l'arbitrio incontrollabile del leader, la cancellazione di ogni istanza democratica di base nell'organizzazione e nella società, la fine della libertà sindacale, la riduzione degli individui e delle persone ad appendici insignificanti della potere.
A partire da questi punti fermi noi riteniamo possibile costruire un nuovo movimento comunista, che si ponga in sintonia con l’aspirazione alla libertà e alla giustizia di larga parte dell’umanità.
Il comunismo a cui facciamo riferimento è un comunismo di società, legato alla democratizzazione della vita quotidiana, al rispetto e alla valorizzazione della dignità delle persone che porta con se il ridisegno delle relazioni tra le persone e tra la società e la natura. Noi riteniamo che oggi sia aperta questa possibilità e questa necessità: la possibilità di liberare i rapporti sociali dal loro involucro capitalistico e nel contempo la necessità di fare questo per evitare la barbarie che la crisi del capitale produce.
Le linee fondamentali attorno a cui sviluppare la ricerca e il lavoro politico, che proponiamo a partire dalla consapevolezza della parzialità del nostro punto di vista dentro la globalizzazione, sono a nostro parere:
La dimensione internazionale. Occorre porre l’obiettivo dell’unità dei lavoratori e di tutte le soggettività anticapitaliste in un movimento mondiale. Senza questa dimensione la lotta e le stesse elaborazioni e discussioni teoriche dei comunisti e della sinistra anticapitalista nei singoli paesi sono destinate a non poter essere all’altezza del compito che impone la globalizzazione capitalistica.
Il movimento dei movimenti ha costruito in questi anni una strada fatta di relazioni paritarie e solidali. Si tratta di sviluppare questo indirizzo nella costruzione del movimento ma anche in direzione di un ridisegno democratico della cooperazione a livello internazionale, basato sulla soluzione politica e negoziata delle controversie internazionali e dei conflitti armati, sulla cooperazione paritaria e sulla gestione razionale delle risorse scarse. Noi proponiamo un nuovo umanesimo, una prospettiva solidale e cooperativa, contrapposta alla pratica dell’accaparramento delle risorse finalizzata alla massimizzazione delle esportazioni, che caratterizza la risposta alla crisi da parte delle classi dominanti.
La democratizzazione della vita quotidiana. Per noi non si tratta di giustapporre al tema del comunismo quello della democrazia. Al contrario riteniamo la democrazia elemento fondante della costruzione del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Una piena democrazia formale ma anche sostanziale e dunque di genere, nella consapevolezza che senza democrazia non può esistere il comunismo.
Il neoliberismo tende a ridurre la democrazia ad un simulacro privo di poteri reali. Rilanciare le democrazia significa anzitutto che il complesso delle scelte economiche più rilevanti deve essere deciso democraticamente. Significa superare la proprietà privata dei mezzi di produzione e determinare la proprietà e il controllo sociale della produzione. Parimenti lo stato deve riprendere la signoria sulla moneta, le banche di interesse nazionale devono essere nazionalizzate e sottoposte a controllo democratico.
La democrazia di cui parliamo deve evidentemente garantire la formazione libera, critica e consapevole degli orientamenti politici e permettere la piena espressione degli orientamenti politici attraverso un sistema elettorale proporzionale e lo sviluppo della democrazia partecipata a tutti i livelli di gestione della cosa pubblica: dalle città alle imprese al welfare. L’intreccio tra democrazia diretta, democrazia partecipata, democrazia di genere e democrazia rappresentativa, la piena democratizzazione del sistema informativo e il pieno accesso ai saperi sociali, definiscono quella “democratizzazione della vita quotidiana” a cui puntiamo.
La socializzazione dei mezzi di produzione e la riconversione ambientale e sociale dell’economia. La democrazia sostanziale, per essere tale, deve essere intrecciata con la socializzazione dei mezzi di produzione che presuppone la gestione democratica dell’intervento pubblico in economia, del credito e degli investimenti, la piena sovranità dello stato sulla moneta. Queste modifiche strutturali sono necessarie al fine di porre il diritto al lavoro e la liberazione del lavoro quale fondamento di ogni diritto in un quadro di riconversione ambientale e sociale dell’economia.
Il diritto al lavoro non si traduce per noi nell’obiettivo della crescita del PIL. Lo sviluppo sociale a cui tendiamo non può essere misurato in termini di crescita economica. Sia perché il PIL misura in modo assai distorto la quantità e la qualità dei bisogni che vengono soddisfatti in una società, sia perché riteniamo necessario fare i conti fino in fondo con la limitatezza delle risorse. Riteniamo infatti che l’obiettivo di una crescita economica illimitata ed indiscriminata sia distruttivo di un corretto rapporto tra società e natura e non sia desiderabile sul piano sociale. Si tratta in generale di dar vita ad un sistema produttivo basato sul riciclo dei rifiuti, sul risparmio energetico, sulla sostituzione delle produzioni nocive, in un quadro di mobilità sostenibile, di riassetto idrogeologico del territorio, di sviluppo equilibrato nel rapporto città – campagna, ecc.
Per noi il tema del diritto al lavoro è quindi tutt’uno con la socializzazione dei mezzi di produzione e con la riconversione ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni.
Demercificare. Il capitalismo è basato sul continuo allargamento del meccanismo di accumulazione, puntando a trasformare ogni rapporto sociale e ogni cosa in merce. Centrale nella prospettiva del comunismo è al contrario una progressiva e radicale demercificazione.
La merce è la forma della produzione capitalistica attraverso cui si soddisfano i bisogni che riescono a presentarsi nella forma della domanda solvibile. Per noi demercificazione significa produrre valori d’uso che siano in grado di soddisfare i bisogni sociali nella forma di diritto. Con i referendum abbiamo conquistato il diritto all’acqua pubblica. Significa che nessuno deve guadagnare sulla fornitura dell’acqua potabile e che l’acqua potabile è un diritto che i cittadini italiani hanno in quanto tali.
Si tratta di un passo nella direzione che stiamo indicando. Noi riteniamo necessario superare la forma merce in ogni ambito sociale: dal lavoro alle cose, alle relazioni sociali.
Vogliamo cioè allargare la sfera dei bisogni sociali che vengono soddisfatti, senza transitare attraverso il mercato, allargando la sfera dei diritti esigibili.
Questo è oggi reso possibile dall’enorme aumento della produttività sociale del lavoro e dal fatto - del tutto evidente – che larga parte dei bisogni sociali che si determinano in una società avanzata come la nostra, si possono oggi soddisfare oggi più facilmente e più razionalmente nella forma del diritto che non nella forma della merce. Pensiamo solo alla salute o all’istruzione per non fare che due esempi.
Riduzione d’orario e liberazione del lavoro. Il lavoro deve essere un diritto, garantito a tutti e tutte e non una merce. Demercificare significa quindi battersi per una liberazione del lavoro e contemporaneamente per una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Riteniamo l’intreccio tra questi due elementi decisivo. Sin dagli albori il movimento dei lavoratori si è battuto per porre un limite alla giornata di lavoro – a partire dai bambini – contro la tendenza capitalistica di dilatare oltre ogni limite la stessa. Successivamente i lavoratori si sono battuti per il diritto al riposo settimanale, alla pensione, alle ferie. La storia del movimento operaio è storia di lotte per recuperare spazi di esistenza liberati dal dominio del lavoro salariato, così come di lotte per recuperare “porosita” nel tempo di lavoro e – nei momenti più alti – per porre il problema del controllo operaio e cioè di cosa, come, per chi produrre. Quella che è stato storicamente l’obiettivo del movimento operaio oggi più di ieri è una possibilità concreta. Da un lato l’accresciuta produttività del lavoro – oggi evidenziata dalla disoccupazione di massa - richiede una drastica redistribuzione del lavoro - e quindi una riduzione del tempo di lavoro. Dall’altra, la diffusione dei saperi sociali, pone le condizioni piene per il superamento dell’organizzazione gerarchica dei processi lavorativi e per determinare democraticamente da parte dei lavoratori, cosa, come, per chi produrre.
La modifica dei rapporti di proprietà è quindi condizione necessaria ma non sufficiente per una effettiva modifica dei rapporti sociali, basata sulla drastica riduzione dell’orario di lavoro e sulla messa in discussione nel profondo dei rapporti di produzione capitalistici i quali, producendo merci, riproducono contemporaneamente gerarchie sociali. La messa in discussione della divisione tra compiti di ideazione e di esecuzione, dei ruoli gerarchici, così come la socializzazione dei saperi dentro i diversi processi di lavoro sono punti fondanti la nostra idea di comunismo che non è certo riassumibile in un puro passaggio dalla proprietà privata a quella pubblica. Anche la democrazia sui luoghi di lavoro è quindi declinata come un intreccio tra la democrazia formale – in cui i lavoratori devono poter decidere i propri rappresentanti e in merito agli accordi che li riguardano – ed una democrazia sostanziale, e quindi di genere, che metta in discussione i ruoli gerarchici prodotti dalla divisione capitalistica del lavoro e ponga le basi per un effettivo controllo operaio della produzione.
I beni comuni. Riteniamo che i beni comuni rappresentino il nodo centrale attorno a cui ripensare il complesso dell’intervento pubblico in economia ed in generale siano una nozione costituente dell’idea di alternativa di società. I beni comuni non vanno contrapposti alla sfera pubblica, ma invece rappresentano uno sviluppo e una qualificazione della nozione stessa di pubblico. Non si tratta quindi di passare dallo stato al comune ma di porre in dialettica stato e comune, stato e controllo sociale attraverso il grande rafforzamento della democrazia diretta, partecipata e di genere e della democrazia delegata.
L’allargamento della sfera dei beni comuni è quindi il modo attraverso cui ripensare complessivamente il tema del superamento della proprietà privata, della socializzazione dei mezzi di produzione e dell’economia. Così come, la gestione pubblica e partecipata della sfera della riproduzione sociale – il primo e fondamentale bene comune - e l’allargamento dei diritti ad essa connessi, sono il centro della costruzione di uno stato sociale di diritto che punti esplicitamente a superare la divisione sessuata dei lavori nella sfera della produzione come della riproduzione sociale.
L’allargamento della sfera dei diritti, si deve saldare ad una gestione democratica dello sviluppo dei beni comuni. Si tratta di sviluppare la democrazia diretta e partecipativa a livello territoriale e di ripensare complessivamente il welfare. In questi anni il welfare è stato ridotto e piegato ad un rapporto tra stato e mercato che ha determinato profondissime storture e inefficienze. Noi proponiamo al contrario uno sviluppo del welfare lungo un indirizzo caratterizzato dal rapporto tra stato e controllo/autogestione sociale. Ai tratta di affiancare alla programmazione e alla gestione pubblica elementi di controllo sul funzionamento dei servizi, della sanità, dell’istruzione, che prevedano il controllo degli utenti e l’autogestione dei lavoratori. Superare cioè la nozione di cliente che le politiche neoliberiste hanno introdotto nei servizi per proporre una partecipazione e un controllo consapevole che permetta di correggere la programmazione e la gestione pubblica sulla base della verifica di risultato degli gli utenti e dei lavoratori.
La libertà degli individui.
In ultima analisi, il nostro obiettivo è la liberazione delle donne e degli uomini, attraverso percorsi di autodeterminazione, per l’affermazione delle loro soggettività e lo sviluppo della loro individualità.
Marx parla di questo in molti suoi scritti quando sostiene che: “Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso.”
Marx introduce cioè una significativa distinzione tra proprietà individuale – cioè dell’individuo – e proprietà privata - che corrisponde al massimo di spoliazione economica, cognitiva, esistenziale - della stragrande maggioranza degli individui. Su questa distinzione si fonda la nostra idea del comunismo, in cui il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione e della mercificazione integrale della società è la condizione per determinare la piena libertà degli uomini e delle donne.
A questo riguardo grande rilevanza ha un tema antico, quello delle ideologie. Lungi dall’essere scomparse, in questi vent’anni abbiamo subito l’egemonia dell’ideologia neoliberista su tutte le altre. La globalizzazione neoliberista si è caratterizzata infatti con la produzione di un pensiero unico. Non si tratta di un pensiero solo economico ma di una visione del mondo complessiva in cui la produzione di un immaginario colonizzato dal potere è un punto decisivo. Non ci vendono solo merci ma stili di vita. In questo contesto la riduzione dei cittadini a sudditi quando non a servi, incapaci di comprendere e quindi di decidere sulla gestione dei grandi macrosistemi, è stata un punto fondamentale. La distruzione della democrazia – basata anche sul controllo pervasivo dei mezzi di comunicazione di massa - avviene in parallelo ad una sorta di infantilizzazione degli umani, che devono essere guidati, non essendo in grado da soli di badare a se stessi e al bene comune.
La sconfitta del pensiero unico, la costruzione di una soggettività forte, che incorpori saperi e pratiche di autodeterminazione, è quindi un punto fondante della lotta per il comunismo. Esattamente come ci hanno insegnato le donne attraverso la ricostruzione della soggettività femminile quale conditio sine quo non per una reale battaglia di liberazione.
Noi riteniamo che l’intreccio tra i processi di trasformazione materiale e di costruzione di soggettività, apra la strada alla democratizzazione della vita quotidiana intesa come processo di trasformazione e di fuoriuscita dal capitalismo. Dignità degli individui e potere decisionale diffuso sono quindi aspetti fondanti il nostro progetto politico.
A partire da queste riflessioni riteniamo utile aprire una discussione e un confronto con le forze politiche e le soggettività che si richiamano al comunismo.

UNA CRISI COSTITUENTE
Il contesto in cui viviamo è caratterizzato da una crisi capitalistica strutturale. Sono entrate infatti in crisi le politiche neoliberiste messe in atto a partire dagli anni ’70 per contrastare la caduta del saggio medio del profitto.
Negli anni ’60 e ’70, sulla scia della vittoria contro il nazifascismo, dello sviluppo economico reso possibile dalle lotte operaie, dalle politiche keynesiane e dei processi di decolonizzazione, si è posta a livello mondiale la possibilità per l’umanità di fare un passo in avanti. L’intreccio tra autodeterminazione dei popoli, messa in discussione delle divisioni di classe e libertà dell’individuo, rappresentano i tre elementi che hanno caratterizzato quella fase di cambiamento e di profonda domanda di trasformazione.
Alla modifica dei rapporti di forza tra le classi e alla domanda di trasformazione, il capitale ha risposto dapprima con la disdetta degli accordi di Bretton Woods da parte degli Stati Uniti (1971) facendo così venire meno il punto di stabilità nelle relazioni economiche finanziarie su cui si era basato lo sviluppo del secondo dopoguerra. In seguito dando vita ad una vera e propria rivoluzione conservatrice che ha avuto nelle ideologie e nelle pratiche neoliberiste la propria stella polare.
Dallo stato al mercato
I punti fondamentali su cui il neoliberismo ha agito per sconfiggere il movimento operaio e le istanze di trasformazione, sono fondati sulla progressiva cessione di sovranità che gli stati hanno praticato a favore dei potentati economici privati. Questo processo tutto politico di deregulation, di gigantesche privatizzazioni, ha lasciato mano libera ai privati in tutti i settori dell’economia, dalla finanza al commercio. In questo contesto si è realizzata una fortissima finanziarizzazione dell’economia e un gigantesco processo di centralizzazione dei capitali, la distruzione del welfare state e la globalizzazione della produzione di merci. Negli anni del neoliberismo – al contrario di cosa sostenevano le tesi sulla fine del lavoro - è raddoppiata la quota di lavoratori sottoposti al dominio del capitale. Inoltre, da un lato è aumentato a dismisura l’esercito industriale di riserva e dall’altro, vi è stata una enorme concentrazione del capitale in grandi società transnazionali.
Su questa base vi è stata la riduzione dei salari e l’attacco al welfare che ha ridotto la domanda aggregata. Questa è che è stata sostenuta a livello mondiale da un lato con l’accesso al consumo di centinaia di milioni di nuovi proletari, dall’altro allargando a dismisura il credito al consumo negli USA. Questo processo non ha però risolto le contraddizioni ma le ha allargate. Da un lato perché i salari nei paesi in via di sviluppo crescono meno della produttività. Dall’altro perché il credito al consumo dei lavoratori poveri ha prodotto schiere di consumatori insolventi che sono stati all’origine dello scoppio della bolla finanziario-immobiliare negli USA.
Infatti l’enorme ed abnorme sviluppo della sfera finanziaria ha prodotto squilibri fortissimi. La centralizzazione dei capitali e l’instabilità sono infatti i connotati più rilevanti di questo capitalismo finanziario. Gli alti tassi di profitto sono stati realizzati con operazioni largamente speculative, sempre più rischiose, che producono a ripetizione bolle speculative destinate ad esplodere. L’interconnessione mondiale che caratterizza i mercati finanziari è alla base della dimensione globale della crisi capitalistica.
Questi processi, oltre all’espansione territoriale del sistema capitalistico parallela alla caduta del “socialismo reale” hanno dato vita ad un potente e apparentemente illimitato sviluppo per quasi un ventennio. Uno sviluppo, però, carico di contraddizioni che oggi sono venute chiaramente al pettine. Questo in un contesto in cui la crisi colpisce in modo assai differenziato le diverse aree del pianeta. Mentre Cina, India e altri paesi in fase di industrializzazione stanno crescendo a ritmi sostenuti, Il Giappone, L’Europa e gli USA sono sostanzialmente in stagnazione. Questa crisi rappresenta quindi anche un deciso spostamento di baricentro del potere economico e politico nel mercato capitalistico mondiale e delle sfere di influenza geopolitiche.
Il Pensiero Unico
Questo gigantesco processo di “rivoluzione conservatrice”, è stato giustificato da una fortissima componente ideologica, che si è espressa in tutti i campi della comunicazione e della produzione simbolica e che ha dato vita a quello che abbiamo chiamato il Pensiero Unico. Una vera e propria “concezione del mondo” a dialettica che non a caso è partita dall’assunto della fine della storia dell’umanità raggiunta nella vittoria integrale del capitale globalizzato. Questa ideologia, è una vera e propria teologia naturale, che mette al centro di tutto l’homo oeconomicus, naturalizza le gerarchie sociali e pone il tema dell’egoismo individuale – in realtà del godimento autistico - come unico metro di misura. Da questa punto di vista il Pensiero Unico unisce il massimo di darwinismo sociale con il massimo di universalismo: “anche tu puoi diventare un bastardo socialmente irresponsabile che si arricchisce sulle spalle degli altri !” . Il Pensiero Unico, che è l’ideologia vincente del capitale privo di etica dopo il crollo del socialismo reale, ha dato un contributo non piccolo all’imbarbarimento dei costumi sociali ed è tutt’altro che in crisi. E’ in crisi il neoliberismo ma non l’egemonia dell’ideologia reazionaria che ne ha accompagnato l’affermazione.
Il sistema non è riformabile
Il punto di fondo è però la crisi irreversibile – dopo una lunga fase di successi a livello planetario – delle forme concrete con cui il capitale si era ristrutturato, a partire dagli anni ’70, al fine di contrastare la caduta del saggio medio del profitto e la sua perdita di egemonia.
L’espansione enorme della speculazione finanziaria, che ha determinato una vera e propria trasformazione qualitativa del capitalismo, non è quindi una patologia. E’ la forma concreta con cui il capitale ha contraddittoriamente cercato rispondere ai propri problemi di valorizzazione e di contrastare le domande di trasformazione sociale. Non ci troviamo quindi di fronte a fenomeni pericolosi ma limitati che possano e devono essere messi sotto controllo: è la natura di fondo che ha assunto il capitalismo per aggirare la propria crisi che è andata in frantumi. Per questo la crisi è costituente e non lascerà nulla come prima.
Anche perché, il capitale non può semplicemente tornare indietro. La messa in discussione della libertà delle istituzioni finanziarie private di creare danaro e in ultima istanza di decidere dei destini dell’umanità, metterebbe radicalmente in discussione gli assetti di potere capitalistici. La messa in discussione della libertà della finanza porrebbe nuovamente il tema dell’intervento pubblico in economia e quindi – in ultima istanza – il nodo della democrazia economica, del socialismo. Riproporrebbe cioè i nodi che il capitale aveva avanti a se negli anni ’70 e che con il neoliberismo ha cercato di rimuovere.
Viceversa, una pura prosecuzione della finanziarizzazione dell’economia, come sta avvenendo sin’ora, è destinata a continuare a produrre crisi e speculazione, aumentando l’instabilità sociale. Così come, il proseguire di politiche deflazioniste finalizzate all’esportazione e tutte tese a ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto, in assenza di qualsivoglia politica indirizzata alla costruzione di un mercato solvibile, è destinate semplicemente ad avvitarsi su se stessa e a determinare l’impoverimento di fasce sempre più ampie di popolazione dei paesi occidentali.
Gli anni ’70 hanno mostrato l’impossibilità per il capitale di dar vita ad un processo di autoriforma. Oggi, di fronte al fallimento della restaurazione capitalistica, non si è certo aperto uno spazio riformista ma piuttosto si pone in termini netti l’alternativa tra socialismo o barbarie. L’alternativa tra la rimessa al cento dell’economia dello sviluppo sociale o la distruzione della società ad opera dell’economia finanziarizzata. Non si tratta di correggere qualche distorsione del modello di sviluppo ma di modificare alla radice il modello di sviluppo che sempre più si presenta come una forma estrema di dominio di classe divaricato dal progresso sociale.
La crisi è ambientale ed energetica
La globalizzazione neoliberista e l’allargamento del modo di produzione capitalistico ad aree del mondo prima escluse, ha determinato un netto aumento del consumo di materie prime. La scarsità delle materie prime e delle fonti energetiche tradizionali da un lato, il problema dell’inquinamento e del rapporto tra natura e società dall’altro, sono diventati un tema strutturale non più rinviabile: il tema dei limiti fisici e sociali della crescita economica. Gli stessi fenomeni del risorgente nazionalismo, delle piccole patrie, del razzismo sono da leggere dentro questa dinamica. Il tema delle risorse scarse e del loro accaparramento, dei livelli e degli stili di vita da “difendere” contro gli invasori – contro “gli altri” - rimandano sempre allo stesso problema. Siamo in regime di risorse scarse e la loro condivisione mette in discussione il mantenimento degli standard acquisiti nei paesi occidentali.
La tendenza alla guerra
Per questo il mondo della fase neoliberista è instabile e percorso da grandi conflitti competitivi, di cui quello libico è solo l’ultimo in ordine di tempo. La guerra permanente lanciata da Bush e la potenza militare sono gli architravi di un nuovo ordine mondiale che, al contrario di quanto si era potuto sperare con la nascita dell’ONU, considera l’instabilità inevitabile o addirittura necessaria al fine di “governare” gli effetti della globalizzazione sulle relazioni fra diverse aree geopolitiche. Si intrecciano i classici interessi relativi al controllo delle materie prime (comprese l’acqua e la biodiversità prima escluse dal mercato capitalistico) a quelli relativi al puro dominio politico dei paesi ricchi oggi in crisi. Il rilancio della NATO a scapito dell’ONU, le guerre unilaterali fatte da coalizioni a geometria variabile, lo “scontro di civiltà”, le “guerre umanitarie”, le ripetute violazioni del diritto internazionale, non sono episodi isolati. Sono ormai una costante da almeno 20 anni. Nonostante le propensioni mostrate da Obama, sono destinati a crescere nella crisi attuale, anche in previsione della competizione fra aree geopolitiche che viene accentuata dalla crisi stessa. Basti pensare al conflitto in Libia, che accanto ad una vergognosa capitolazione dell’ONU riguardo ai suoi compiti, ha visto un ruolo aggressivo di Francia e Inghilterra, tutto finalizzato al determinare una propria sfera di influenza. Così come il protagonismo USA nel conflitto libico e nel cercare di determinare uno sbocco moderato delle rivolte in Nord Africa, ha molto a che vedere con una ripresa di ruolo forte degli USA nell’area - anche al di la di Israele – e con un forte interesse a contrastare la penetrazione cinese nel continente africano.
La stessa globalizzazione ha quindi posto le basi per una decisa modifica dei rapporti di forza a livello mondiale. Se dopo l’89 abbiamo avuto un mondo unipolare, oggi questo è radicalmente messo in discussione dal ruolo della Cina e dei paesi emergenti. La Cina non è solo “la fabbrica del mondo” ma anche una potenza tecnologica e una potenza militare in crescita. Inoltre la Cina – oltre a rafforzare la propria presenza nell’economia europea e africana - detiene una parte significativa del Debito Pubblico degli USA. Quest’ultimo elemento, in questi anni ha costituito un fattore di convergenza di interessi: gli USA consumano al di sopra delle proprie possibilità fornendo però uno sbocco di mercato alla produzione cinese. Questa fase volge però al termine, perché troppo squilibrata. Il punto che ci troviamo dinnanzi non è quindi solo la messa in discussione dell’impianto unipolare del mondo ma il fatto che questo mette in discussione i livelli di vita e di consumi degli Stati Uniti. Il tutto in una situazione in cui gli USA rimangono però di gran lunga la maggior forza militare del mondo. Com’è del tutto evidente anche questo è un potente fattore che spinge nella direzione di un aumento dei conflitti e della guerra. Questo fenomeno, per altro è destinato a emergere con maggiore chiarezza con il passare del tempo. Oggi, ogni proposta delle classi dominanti è basata sull’aumento delle esportazioni ma man mano che crescerà il problema della scarsità di materie prime, il nodo tenderà a rovesciarsi: non più esportare ma garantire alle popolazioni della propria area l’accesso ai consumi e alle materie prime. Se ne vedono le prime avvisaglie nelle polemiche USA /CINA sull’estrazione delle cosiddette “terre rare”.
Come vediamo la crisi che stiamo vivendo non è solo economica ma segnala una vera e propria crisi del rapporto natura/società e tende a divenire una crisi di civiltà. In questo contesto le classi dominanti non hanno risposte progressiste proprio perché quella che viviamo è la crisi del tentativo capitalistico di rispondere alla domanda di libertà che l’umanità ha posto negli anni 60 e 70 attraverso una modernizzazione reazionaria, una rivoluzione conservatrice che si rivela barbarica e distruttiva per l’umanità. In questo senso si pone oggi in modo stringente l’alternativa socialismo o barbarie.
La speranza che viene dall’America latina.
In questo quadro i paesi dell’America latina continuano nella ricerca di un modello alternativo a quello neoliberista, che difenda e sviluppi le varie nazioni che si stanno emancipando dal controllo dell’imperialismo statunitense, sperimentando l’idea di un socialismo del XXI secolo. Un processo, quello della primavera latinoamericana, che nei punti più avanzati, si basa sull’intervento pubblico in economia, sulla ripubblicizzazione di interi comparti economici, sull’allargamento dei beni comuni e delle forme di democrazia partecipata. Fra i vari progetti di integrazione regionale che stanno avanzando, quello dell’ALBA è senza dubbio il più avanzato politicamente. Un processo che non soltanto si fonda sulla rottura con il modello neoliberale e su un’idea di integrazione non solo commerciale e monetaria, ma punta anche su un altro paradigma. In questa dinamica un ruolo rilevante ha svolto Cuba, che è stato un riferimento delle forze rivoluzionarie e antimperialiste latinoamericane, sia come esperimento di costruzione di una nuova società, sia per la determinazione con cui ha affrontato l’ingiusto e immorale embargo da decenni imposto dagli USA.
Non è un caso che proprio questi paesi siano sotto costante minaccia di colpi di stato da parte delle forze reazionarie. L’Honduras è stato vittima del colpo di stato proprio per la sua decisione di adesione all’alba. Correa, Morales e Chavez hanno evitato solo grazie alla mobilitazione popolare, la stessa fine.
Il mediterraneo in rivolta
Nel sud del mediterraneo, rivolte e sollevazioni popolari hanno dato vita a quella che è stata definita la primavera araba. Nessun paese è rimasto immune da grandi manifestazioni popolari e dalla ripresa di un protagonismo delle masse. Questa primavera è il frutto del fallimento del neoliberismo. Dalla Tunisia all’Egitto, la crisi ha colpito, attraverso la speculazione sui beni alimentari, in primis il grano, gli strati più poveri delle popolazioni. Esasperati da anni di aumenti dei prezzi, dalla crescita della disoccupazione e delle disuguaglianze, dal peggioramento delle condizioni così come delle aspettative di riscatto sociale, le giovani generazioni dei paesi del Magreb e mediorientali hanno unito la questione sociale alla domanda di libertà da regimi dispotici e personali che da decenni reggevano in modo nepotista e corrotto quei paesi, spesso allineandoli alle potenze occidentali e alla sudditanza nei confronti della loro politica di guerra.
Nelle sommosse popolari che hanno portato alla caduta dei regimi tunisino e d egiziano, un ruolo significativo è stato quello svolto dai sindacati e dal movimento operaio. Questione sociale e questione democratica si sono saldate. Il futuro delle rivolte in medio oriente è tutt’ora incerto. E’ evidente che senza una organizzazione delle componenti progressiste che sono state protagoniste delle sollevazioni, il rischio è che si affermino, nel breve periodo, forze controrivoluzionarie o moderate sostenute dai regimi reazionari dell’area e dagli USA.
I conflitti irrisolti nell’area mediterranea.
Quello kurdo rimane sullo sfondo, per il progressivo imporsi della Turchia come attore di primo piano nello scacchiere mediorientale. Lo scontro in corso ad Ankara fra gli islamisti al governo ed esercito, ha come conseguenza un riposizionamento della Turchia nelle sue alleanze regionali. E’ da questo che nasce la rottura con Israele seguita alla strage della freedom flottilla. Un riposizionamento che però evita di fare i conti con l’irrisolta questione kurda e che vede invece una nuova ondata di repressione militare, lasciando cadere colpevolmente tutte le proposte di tregua e di trattativa che sono state ripetutamente avanzate negli anni. Rifondazione Comunista sostiene la causa del popolo kurdo, chiede la liberazione di Ocalan come azione che può favorire un processo di pace e di soluzione politica del conflitto.
La questione sarawhi vede il regime marocchino tentare di forzare e risolvere con la repressione il contenzioso decennale. La soluzione del conflitto è possibile solo con il rispetto di quanto sancito in sede Onu e dal riconoscimento del diritto del popolo sarawhi all’autodeterminazione. Rifondazione Comunista ribadisce il proprio sostegno al Fronte Polisario e alla sua lotta per i diritti del suo popolo.
La questione palestinese rimane centrale per le ripercussioni che continua ad avere con tutto il mondo arabo musulmano. Senza una soluzione giusta della questione palestinese sarà impossibile definire un futuro per il mediteranno come area comune e di pace. Il processo di pace è da anni fermo. Questo stallo è dovuto alla politica oltranzista del governo israeliano e alla sua opera di colonizzazione continua dei territori palestinesi, attraverso l’allargamento delle colonie, la costruzione del muro, l’espulsione forzata dei palestinesi da Gerusalemme, l’embargo e la guerra a Gaza. Nei territori occupati e a Gaza i palestinesi vivono una vera e propria condizione di apartheid. Tutto ciò mentre la comunità internazionale rimane silente e complice,i crimini israeliani, come l’aggressione a Gaza, impuniti. La soluzione dei due stati per due popoli, a parole da tutti sostenuta, senza il pieno riconoscimento delle risoluzioni ONU, dei confini del 67, di Gerusalemme est come capitale del futuro stato e del diritto al ritorno dei profughi, rimane una formula senza sostanza, ad oggi compromessa dalla politica del fatto compiuto operata da Israele. L’azione intrapresa dai palestinesi all’Onu per il riconoscimento dello stato palestinese ha il merito di chiarire le responsabilità e le complicità con quanto accade.

L’EUROPA LIBERISTA IN CRISI
Nel contesto della crisi l’Europa è l’aggregato socio economico su cui – ad oggi - si scaricano le maggiori contraddizioni. Questa crisi mondiale è asimmetrica e vede l’Europa nella condizione di maggiore debolezza tra le grandi macro aree. Non ha il vantaggio competitivo dei BRIC né la posizione di rendita militare degli Stati Uniti. Inoltre l’Unione Europea ha dato vita ad un unicum in campo mondiale, dando vita ad una moneta su cui l’Europa politica non ha alcuna sovranità e che viene gestita in piena autonomia dalla BCE. Questa impalcatura economica ha tolto agli stati europei la sovranità sulla moneta, lasciandoli così in balia dei mercati e della speculazione finanziaria.
Le ragioni specifiche della crisi europea sono quindi da ricercarsi nelle scelte degli anni 90. L’attuale costruzione europea – gestita in modo bipartisan da popolari, liberali e socialdemocratici, ed avvenuta negli anni di maggior presa del pensiero unico neoliberista - ha integralmente costituzionalizzato i dogmi del neoliberismo. Questa costruzione dell’Europa di Maastricht e di Lisbona, rappresenta una rottura profonda con il processo unitario della fase precedente ed è caratterizzata da un triplo passaggio di sovranità. Il passaggio dagli stati nazionali alle istituzioni europee ha infatti “coperto” l’operazione neoliberista: dai parlamenti ai governi e dalle istituzioni democratiche alle banche e ai potentati economici. Questo secondo processo è ovviamente assai diversificato: mentre gli stati più potenti – come la Germania – si sono rafforzati, gli stati più deboli hanno perso ogni sovranità effettiva.
L’Europa di Maastricht è quindi diventata la patria del neoliberismo applicato, sia dal punto di vista dell’architettura delle istituzioni finanziarie (basti pensare all’autonomia e allo statuto della BCE) che dal punto di vista delle politiche economiche, sociali e finanziarie. Proprio l’esistenza del welfare e dell’intervento pubblico in economia - che hanno caratterizzato il modello sociale europeo nel secondo dopoguerra - sono stati considerati ostacoli da rimuovere sulla via della competitività globale. Su questa strada è avvenuto il suicidio del riformismo europeo che con l’implementazione e la firma dei trattati commerciali in sede Gatt e poi WTO ha costruito le basi materiali per passare dal modello sociale includente a quello escludente, con conseguente crisi della base sociale delle della sinistre socialdemocratiche.
Il colpo di stato monetario
Questa Europa liberista, costruita a partire dagli accordi di Maastricht, ha realizzato però un deciso salto di qualità a partire dalla gestione della crisi negli ultimi tre anni. I vincoli sempre più stringenti sui pareggi di bilancio, accompagnati dal ruolo ricattatorio della speculazione finanziaria - utilizzata dalla BCE e dalla Commissione Europea come vincolo esterno per obbligare i singoli stati a pesantissimi piani di riassetto strutturale - hanno prodotto un deciso quanto negativo salto di qualità. Un vero e proprio “Colpo di stato monetario”.
Le decisioni effettive in materia economica vengono prese dalle tecnocrazie europee in cui la BCE e il governo tedesco giocano un ruolo centrale. La gestione delle scelte economiche europee è quindi totalmente antidemocratica. I parlamenti nazionali sono chiamati a ratificare scelte assunte in sedi il cui potere non è in alcun modo sottoposto a verifica democratica. Il ruolo della BCE costituisce un unicum negativo a livello mondiale. Non esiste nessun altro paese al mondo in cui la Banca Centrale possa finanziare le banche private e non gli stati sovrani. Siamo nella follia in cui la BCE presta alle banche private i soldi per speculare sugli stati.
Le risposte che vengono date alla crisi da parte delle elite europee sono sovradeterminate dai voleri del capitale tedesco che impone politiche deflattive a tutto il continente. Gli interessi del capitale tedesco, che badano alla salvaguardia e al rafforzamento del suo forte apparato produttivo, sono all’origine delle politiche comunitarie, che utilizzano gli attacchi speculativi contro i paesi a minor produttività, per determinare una pesante gerarchizzazione di livelli di vita e di diritti nel continente, aprendo la strada ad una vera e propria crisi di civiltà. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, invece del progresso, milioni di persone esperimentano una pesante regressione sociale. Basti pensare a cosa sta succedendo in Grecia, dove l’intreccio tra tagli alla spesa e alti tassi di interesse, stanno affossando il paese.
Quella che è messa in discussione dalle classi dominanti europee e dai governi europei di centro destra e di centro sinistra, non è la persistenza dell’Europa, ma una qualsiasi idea di modello sociale europeo. La prospettiva è quella di un continente che abbia al suo interno un centro con produzioni ad alto valore aggiunto e più periferie caratterizzate da basso valore aggiunto, bassi salari e scarse tutele. Non a caso i paesi che sono sottoposti ad attacchi speculativi non sono caratterizzati per il volume del debito quanto piuttosto per la scarsa produttività. La speculazione viene utilizzata dalle elites europee per ridurre il salario diretto e indiretto di interi aree o paesi. Vi è una centralità oggettiva dell’attacco al lavoro oggi in Europa, che vede al vertice della piramide, in Germania, un mancato recupero salariale e, giù per li rami, una progressiva riduzione del prezzo pagato per acquistare forza lavoro.
Questo modello generale di Europa gerarchizzata da costruirsi attorno alla potenza economica tedesca non trova significative differenze politiche all’interno dei principali partiti europei. Liberali, popolari e socialdemocratici hanno condiviso questo impianto e lo stanno gestendo unitariamente. Le differenze maggiori tra le forze politiche riguardano il tema rilevante della redistribuzione del reddito dalle rendite finanziarie verso i redditi dal lavoro, ma in nessun modo il tema del rapporto tra Europa e globalizzazione o di riforma strutturale delle istituzioni europee.
Ovviamente anche questa strada imboccata dalle elites europee è priva di prospettive. Le politiche deflattive, determinano una ulteriore riduzione della domanda solvibile in Europa. Visto che la Germania vende larga parte del suo export in Europa, proprio le politiche deflattive da essa imposte sono destinate a bloccare lo sviluppo tedesco e ad aggravare la crisi europea.
In questo contesto, vengono a maturazione sia significativi conflitti sindacali e sociali, che spinte di destra estrema, caratterizzate da xenofobia, razzismo spinte alla tra i poveri.

ITALIA: LA II REPUBBLICA COME CRISI ORGANICA
La crisi è esplosa nel nostro paese, in una situazione economica e sociale, per più aspetti, peggiore rispetto a quella dei principali paesi europei.
Se il sistema finanziario ha sin qui sofferto meno, per il minore sviluppo dei fondi speculativi e il ruolo para-pubblico delle Fondazioni la situazione in Italia appare particolarmente critica per quel che riguarda la destrutturazione dell’apparato industriale, i livelli salariali e gli strumenti di protezione sociale, la polarizzazione tra Nord e Sud del paese. A questo riguardo per segnalare una linea di tendenza che si sta aggravando, il Pil pro capite è complessivamente al Sud meno dei 2/3 della media nazionale (il che significa che è circa la metà rispetto alle regioni più ricche del paese), mentre il tasso di disoccupazione è mediamente il doppio e anche più rispetto al Centro-Nord.
Le dinamiche della crisi in sostanza si intrecciano da un lato, a nodi di fondo della situazione italiana, le cui radici risiedono nei processi politici e sociali che si sono sviluppati in particolare a partire dagli anni ’80, nella risposta delle classi dominanti alla stagione di conquiste degli anni ’60 e ’70. Dall’altro all’uso che l’ultimo governo Berlusconi e le classi dominanti del paese hanno fatto della crisi: grimaldello per portare a termine un disegno eversivo di radicale distruzione del complesso delle conquiste del movimento operaio per come si sono sedimentate nel secondo dopoguerra. Ne è emblema l’articolo 8 dell’ultima manovra del governo che smantella in un solo colpo la contrattazione nazionale e l’intero diritto del lavoro, resi mere variabili dipendenti del mercato, con un atto di gravità inaudita nella storia repubblicana. Ne è emblema l’attacco alla Costituzione tutta, ai diritti sociali come a quelli civili, dentro un’offensiva che non è solo politica e sociale, ma culturale e persino antropologica.
Porre come asse strategico della nostra linea politica, l’uscita a sinistra dalla crisi nella costruzione di un’alternativa di società, significa quindi fare i conti, fino in fondo, con i processi che sul terreno economico, sociale, istituzionale hanno segnato il nostro paese negli ultimi trent’anni, dando una risposta da sinistra alla crisi della Seconda Repubblica. Perché alla crisi costituente si risponda con un’opposizione costituente. Che individui i “fili da tirare” in una lettura non schiacciata sul presente e capace dunque di affrontare i nodi strutturali della regressione che segna il nostro paese. Che si dia al tempo stesso obiettivi e piattaforme nell’intreccio con lo sviluppo dei movimenti, la costruzione di conflitto sociale, progetti e pratiche di trasformazione.
L’inizio della controffensiva del capitale e il craxismo
L’Italia è un caso paradigmatico del carattere distruttivo della riposta capitalistica al ciclo di lotte degli anni ‘60/’70. Fino alla metà degli anni ’70 il nostro paese ha conosciuto un forte sviluppo economico trainato dagli aumenti salariali, dalle politiche di welfare e keynesiane. È in questa fase che il movimento operaio, in una società al cui centro c’è l’industria, si conquista la centralità e usa tutta la sua forza conflittuale per contendere alla borghesia la direzione del paese. Per quanto bloccato dalla guerra fredda, il sistema politico fondato sulla repubblica parlamentare, permette al movimento operaio e alle forze politiche ad esso legate di portare nelle istituzioni le proprie rivendicazioni, e di trasformarle in leggi e riforme. E’ così che le lotte trovano uno sbocco politico istituzionale e che la politica e il parlamento sono avvertiti dal popolo come strumenti capaci di produrre trasformazioni importanti nella società e nella vita concreta delle persone.
Già a metà degli anni 70, inizia anche in Italia la controffensiva del capitale. Sorge una nuova borghesia dedita alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Le grandi imprese private creano le proprie finanziarie preparandosi ad abbandonare il mercato interno come riferimento delle proprie prospettive industriali in favore delle esportazioni. Il PSI recide ogni radice anticapitalista e sposa direttamente gli interessi della nuova borghesia nascente. Non è un caso che a guidare questo processo sia Bettino Craxi e che fra i suoi referenti più importanti ci sia Berlusconi. Il Craxismo porta un pesante attacco ai lavoratori e una feroce compressione salariale che si salda con una esplosione del debito pubblico, finalizzata alla gestione clientelare della spesa a fini di consenso sociale. Sono gli anni del “decisionismo”, della nascente vocazione presidenzialista del PSI e dell’alternanza di governo tra primi ministri democristiani e laici. Sulle politiche sociali come sulla politica estera Craxi si presenta come competitore della DC ma su contenuti di destra, come dimostrano l’attacco alla scala mobile e la vicenda dell’installazione dei missili USA a Comiso. Dopo i cedimenti dell’EUR, iniziano le lotte difensive – emblematica quella della FIAT nel 1980- contro gli attacchi alle conquiste dei decenni precedenti. La corruzione dilaga e la funzione dei partiti, prevista dalla costituzione, degenera rapidamente. Lo denuncia coraggiosamente Berlinguer ponendo al paese la “questione morale” e il tema dell’alternativa.

Lo scioglimento del PCI, la concertazione, il bipolarismo.
Negli anni ’90, per centrare i parametri europei necessari all’ingresso della moneta unica, iniziano le politiche di riduzione del deficit. Scaricate integralmente sulle spalle dei lavoratori attraverso il taglio del welfare e la compressione salariale. Il tutto mentre con la privatizzazione della grande impresa pubblica, scompariva qualsivoglia politica industriale, determinando nel tempo, un impoverimento del tessuto produttivo e un parallelo indebolimento dei lavoratori e del sindacato. Nella sostanza si attua la sistematica distruzione di ogni strumento pubblico capace di determinare una politica economica, cosa che oggi paghiamo duramente.
Se gli anni del craxismo, sono stati gli anni della controrivoluzione, dell’offensiva moderata contro il sindacato di classe e la sinistra, gli anni ’90 sono stati gli anni in cui il pensiero unico è diventato egemone nel centrosinistra. L’adesione entusiasta al neoliberismo di larghissima parte del mondo politico e dell’intellettualità diffusa, ha rappresentato la vera chiave di volta per il successo dell’offensiva capitalistica in Italia, intervenendo su più piani:
-Lo scioglimento del PCI ad opera della maggioranza del suo gruppo dirigente ha determinato grandi effetti negativi sia sul piano ideologico che su quello della concreta organizzazione di classe. La condanna senza appelli del comunismo è diventata una operazione di distruzione della storia e dell’identità delle classi subalterne in Italia. A venir meno non è stata solo l’esistenza di un partito ma un tessuto di autonomia politica, culturale e sociale, faticosamente costruito in anni e anni di lotte e riflessioni. Un intero ceto politico ha separato le proprie sorti da quelle del movimento operaio e progressista. Ha accettato e perfino teorizzato entusiasticamente che l’obiettivo politico fondamentale era la conquista del governo per amministrare l’esistente. Un “esistente” nel quale un ceto politico di “sinistra” poteva candidarsi a gestire una politica avversa agli interessi delle classi subalterne.
-Parallelamente la corrispettiva accettazione della concertazione da parte della maggioranza della Cgil, una concezione del sindacato cooptato nel sistema decisionale interno al governo dell’esistente, ha rappresentato un deciso arretramento nella difesa degli interessi di classe in una fase di durissima ristrutturazione padronale, oltre alla tendenziale mutazione della sua natura di classe.
In ultimo – ma non meno importante – l’identificazione della Prima repubblica con la partitocrazia, e l’introduzione del bipolarismo maggioritario in Italia. La distruzione del sistema proporzionale e la costruzione bipolare, sostenuta dagli ambienti più reazionari del paese, proposta con un referendum dal democristiano di estrema destra Mario Segni, trova il decisivo ed incondizionato sostegno del PDS di Achille Occhetto. Essa rappresenta il vero punto di ingresso nella Seconda repubblica, nella riduzione della politica alla logica dell’alternanza e nella tendenziale assimilazione al neoliberismo. I fautori del maggioritario bipolare – e tendenzialmente bipartitico – sostituiscono la democrazia partecipata e conflittuale, che caratterizza l’impianto della prima parte della Costituzione, con la concezione della “democrazia governante”, con la sua torsione presidenzialista e conseguente svuotamento delle funzioni parlamentari e delle prerogative delle istituzioni di controllo. Il centro sinistra ha qui aperto un varco molto ampio al berlusconismo.
Gli anni ’90, caratterizzati dall’adesione di larga parte del ceto politico dirigente del centrosinistra all’ideologia neoliberista, sono quelli in cui ogni difesa degli interessi di classe viene bollata come conservatrice quando non reazionaria e in nome dell’adesione al nuovo si cantano le lodi del capitalismo in fase di finanziarizzazione. Sono gli anni delle privatizzazioni, dei “capitani coraggiosi” e delle guerre umanitarie.
Merito storico di Rifondazione Comunista, è di essere nata dentro e contro questi processi in direzione ostinata e contraria sul piano politico, culturale e morale, rispetto agli osceni processi di trasformismo che quegli anni ci hanno consegnato.
Un bilancio fallimentare sul terreno economico e sociale
Le ristrutturazioni degli anni ’80 e la Seconda Repubblica, affermatasi a partire dagli anni ’90 e caratterizzata da un bipolarismo a netta egemonia neoliberista, ci consegnano un bilancio fallimentare tanto sul terreno economico e sociale, quanto su quello istituzionale e democratico.
Dopo un quarto di secolo di liberalizzazioni e privatizzazioni, di delocalizzazioni e di svendita del patrimonio pubblico e privato alle multinazionali, di mancato sviluppo tecnologico dell’apparato produttivo, di precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, di sconfitte del movimento operaio e cooptazione delle organizzazioni sindacali del quadro concertativo interno alla “governabilità” il risultato è che la “sesta potenza economica del mondo” si ritrova incapace di reggere la competizione internazionale, di resistere agli scossoni delle ricorrenti crisi finanziarie ed agli attacchi speculativi, al contrario di quel che era stato promesso e garantito per giustificare quelle politiche.
Invece l’Italia ha subito un pesante processo di deindustrializzazione a favore della nuova rendita fondiaria e della speculazione finanziaria e perciò, al contrario della Germania, nel momento della crisi non può far leva nemmeno sul volano della produzione e della stessa produttività del sistema. La privatizzazione degli assi strategici dell’economia e la rinuncia a influire in qualsiasi modo sulle politiche finanziarie ed industriali delle multinazionali a partire dalla Fiat, ha prodotto la totale assenza di una guida dell’economia capace di avere una visione strategica, un controllo sulla finanza e sulle banche secondo obiettivi coerenti con una politica industriale.
L’Italia poi riproduce al suo interno ingigantendole le contraddizioni che si vivono in Europa. Accanto ad aree ad alta produttività e ad alto valore aggiunto convivono aree a bassa produttività e basso valore aggiunto. Da questo punto di vista l’Italia non è solo destinata a subire un generale impoverimento ma anche una divisione pesante per linee geografiche. Se il sistema fiscale basato sull’evasione non redistribuisce ricchezza tra le classi, il federalismo messo in piedi dal governo Berlusconi non redistribuisce la ricchezza tra i territori, la demolizione dei contratti nazionali non garantisce standard di retribuzione omogenee. L’Italia è quindi destinata ad avere il massimo di gerarchie sociali ma anche il massimo di frantumazione della classe, secondo linee di separazione su base territoriale o addirittura produttiva.
Nelle scelte degli ultimi 30 anni delle classi dirigenti italiane non c’è nulla di “oggettivo” e di “obbligato”. Per quanto il processo di globalizzazione sia stato imperioso sarebbe stato possibile fare diversamente. Se invece di accreditare nel paese l’idea che si potessero far soldi con i soldi, alimentando consumi sempre più effimeri e dannosi socialmente e lasciando che l’economia reale venisse guidata da banche sempre più possedute e indirizzate dai pirati della finanza, si fosse prevista la necessità di riqualificare le basi strutturali e produttive del paese e la relativa capacità di indirizzo del potere pubblico, oggi la situazione sarebbe ben diversa. Il paese avrebbe una spina dorsale, un baricentro intorno al quale riorganizzare se stesso nei momenti di difficoltà. Se invece di lasciare alla spontanea ricerca del massimo profitto in tempi brevi il sistema delle piccole e medie imprese e dei distretti industriali, con il corollario di delocalizzazioni, di sfruttamento selvaggio della manodopera e della gigantesca evasione fiscale, si fossero usate le leve del credito e legislative per disincentivare le delocalizzazioni e costringere le imprese ad avere programmi strategici, investimenti nella ricerca e valorizzazione del lavoro, non avremmo avuto una tale disarticolazione produttiva e territoriale. La coesione sociale sarebbe stata di per se stessa un antidoto all’egoismo individuale e territoriale e alla conseguente disarticolazione e ulteriore gerarchizzazione della società.

Un bilancio fallimentare sul terreno democratico: il bipolarismo e la crisi della politica.

Alla crisi di consenso e all’esplodere della questione dell’intreccio perverso tra affari e politica, emersa con “tangentopoli”, i poteri forti hanno individuato, dall’inizio degli anni ’90, la risposta nell’assunzione di un modello istituzionale incardinato sul sistema elettorale maggioritario, al fine di promuovere la ristrutturazione del sistema politico in chiave bipolare. Una campagna battente e prepotente, alimentata dai poteri economici, dal sistema politico, dai principali mezzi d’informazione, è riuscita a presentare il salto all’indietro come il nuovo, descrivendo il sistema elettorale proporzionale come una rendita di posizione, la causa dell’instabilità, il male assoluto. Il PDS con Occhetto e il PD con Veltroni, poi, portano una responsabilità pesantissima non solo per non aver contrastato questi esiti ma, addirittura, per esserne stati gli alfieri.
Gli effetti di queste scelte sono stati: la distorsione del principio democratico della rappresentanza, il prevalere della logica degli schieramenti su quella dei contenuti politici, l’instaurarsi di un modello dell’alternanza che tende a espungere le posizioni radicali e di classe relegandole nella marginalità. A questo si deve aggiungere la torsione presidenzialista e plebiscitaria che ha interessato enti locali e regioni e che ha comportato l’abnorme rafforzamento dei poteri di sindaci e presidenti di province e regioni, oltre che degli esecutivi, a scapito delle assemblee elettive e l’affermarsi nel senso comune della logica plebiscitaria e della delega. Tutto ciò ha creato le premesse per il superamento dell’impianto costituzionale affermatosi nel dopoguerra con la trasformazione dei partiti in strutture elettorali poggianti su reti di notabilato, la riduzione di fatto del pluralismo politico, l’accentramento del potere decisionale.
A questa involuzione del sistema della rappresentanza si è accompagnato, con la modifica del titolo V della Costituzione, l’indebolimento della coesione del paese, della sua unità e del sistema dei diritti. L’inseguimento della Lega sul terreno pericolosissimo del federalismo ha comportato non solo l’indebolimento della funzione dello stato, ma anche l’introduzione di un principio sul piano dell’utilizzazione delle risorse (il federalismo fiscale) che ha in sé i germi della dissoluzione dell’unità del paese e dell’accentuazione abnorme delle diseguaglianze. Parallelamente, sul terreno più propriamente sociale, l’assunzione della “sussidiarietà orizzontale” come principio fondamentale per la gestione dei servizi e quello della loro “essenzialità” hanno sancito la titolarità del privato su un insieme di funzioni pubbliche e la differenziazione dei diritti.
In questo contesto, la crisi della politica che si è manifestata con una sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni e che alimenta l’astensionismo e una pulsione anti-politica non priva di tratti qualunquisti e populisti, non è scissa dai cambiamenti prodottisi in questi anni nel sistema politico istituzionale. Infatti, la progressiva mutazione dei partiti in strumenti elettorali privi di tensione ideale, la loro trasformazione in aggregati d’interessi non è separabile dalla modifica in senso bipolare dell’assetto politico. Così com’è altrettanto vero che il riesplodere della questione morale si è anche connessa al venir meno di un’etica pubblica, che si è accompagnata all’esaltazione delle virtù del mercato, celebrate non solo dalla destra, ma anche dalla sinistra moderata. Infine, la questione dei costi della politica va inquadrata nell’autoreferenzialità di soggetti politici che nella sistematica occupazione di ogni sfera dell’amministrazione hanno tratto legittimazione e consenso.
Il fallimento dell’Ulivo e la sconfitta del PRC
Il centro sinistra ha fallito in Italia, sia nella prima che nella seconda esperienza: 7 anni di governo (con e senza il PRC nella maggioranza e nel governo). Nelle elezioni che si sono succedute dopo quelle esperienze, la vittoria delle destre è stata schiacciante.
Ne vanno indagate le ragioni strutturali sia sul piano sovranazionale (il fallimento del cosiddetto Ulivo mondiale, da Blair a Clinton per giungere a D’Alema) sia su quello più direttamente nazionale.
Noi individuiamo una ragione di fondo, che va ulteriormente approfondita dentro un quadro di ricerca e di analisi: la subalternità culturale e politica del centro sinistra ai processi della globalizzazione neoliberista. Per questo motivo essenziale, il ruolo di condizionamento dei poteri forti dentro quello schieramento è stato il fattore essenziale di guida dell’azione politica e di governo. Il contrario di quanto Rifondazione Comunista ha sostenuto, prima del secondo governo Prodi, scommettendo sulla permeabilità del centro sinistra rispetto ai movimenti. Questa scelta si è rivelata sbagliata,anche per una errata valutazione dei rapporti di forza.
Sia sul terreno delle politiche economiche e sociali, sia su quello delle libertà civili, sia sul terreno delle politiche internazionali e della guerra, il centro gravitazionale è stato determinato dei poteri forti nazionali e internazionali.
Dentro quel ciclo, si segna la sconfitta storica anche della sinistra e del PRC in particolare.
Le due fasi della partecipazione del PRC alla maggioranza e al governo di centro sinistra (4 anni in tutto), ne sono una dimostrazione: nella prima esperienza, una contrattazione di risulta dentro una direzione di marcia (stabilizzazione dei precari in cambio della Legge Treu, sanatoria dei migranti in cambio della Turco Napolitano, ecc.); nella seconda l’illusione della stesura di un programma dettagliato, poi in larga parte disatteso.
Non si tratta, però, di una storia univoca: nel 1998 il PRC seppe rompere da sinistra con il governo Prodi, affrontando di petto il tema della fuoriuscita dalle politiche neoliberiste e dalla gabbia del bipolarismo.
Quella rottura permise una dislocazione politica utile all’internità ai movimenti come un interlocutore importante. Senza quella rottura e quella scelta, Rifondazione non avrebbe intercettato il vento di Genova e del movimento altermondialista.
Il punto critico è che quell’impostazione, nei fatti e nelle scelte concrete, è stata successivamente sacrificata, a partire dalla valutazione del risultato del referendum sull’allargamento dello Statuto dei Lavoratori del 2003, valutazione tutta piegata alla riapertura del dialogo con l’Ulivo. Il pendolo si è di nuovo spostato verso i rapporti politici, il quadro istituzionale, dentro la gabbia del bipolarismo, con l’aggravante – negli anni successivi al 2005 e all’alleanza con Prodi – della sopravvalutazione della potenziale influenza delle forze di alternativa.
Il berlusconismo

In questa repubblica del pensiero unico, comincia l’era di Berlusconi che rappresenta un vero e proprio inveramento del craxismo in una sintesi presidenzialista, plebisicitaria, antioperaia ed antidemocratica. Il berlusconismo, lungi dall’essere solo una patologia personalistica, rappresenta un forma estremizzata del pensiero unico liberista in salsa italica. Al di là dei caratteri generali dell’offensiva neoliberista o degli aspetti peculiari della figura di Berlusconi, il berlusconismo si è inserito profondamente negli elementi di lunga durata del moderatismo e della destra italiana.
In primo luogo l’anticomunismo. Berlusconi, attraverso un utilizzo spregiudicato e oligopolistico dei mezzi di comunicazione televisivi, utilizza a piene mani una ideologica populista reazionaria fortemente anticomunista. Questo anticomunismo si è saldato con una grandissima operazione di revisionismo storico che è stata la cifra della seconda repubblica. Nella seconda repubblica si è riscritta la storia d’Italia dalla parte dei vincitori di oggi, puntando a cancellare e delegittimare completamente le lotte per la libertà e la giustizia di cui sono stati protagonisti il movimento operaio e i comunisti. Questa azione “ideologica” ha inciso in profondità, aiutata dalla cultura maggioritaria nel centro sinistra, che ha prima giustificato lo scioglimento del PCI e poi ha proseguito nell’azione di rimozione delle proprie radici.
In secondo luogo la centralità della relazione con il Vaticano, assunto come fondamentale interlocutore di potere e contemporaneamente come fonte valoriale extrapolitica di legittimazione. Il Vaticano da parte sua, ha corrisposto pienamente questa relazione, guadagnando ulteriori forti privilegi di tipo economico e significativi spazi nei settori dell’istruzione e dell’assistenza.
In terzo luogo il darvinismo sociale, l’individualismo, il discredito della cosa pubblica e il maschilismo, che hanno caratterizzato la proposizione berlusconiana e che hanno determinato una sintonia con ampi strati del paese. Nella crisi della sinistra, questi elementi hanno rappresentato una componente essenziale del fascino della modernizzazione reazionaria promossa da Berlusconi, una sorta di religione incivile radicalmente anticostituzionale, che ha dato solleticato le peggiori pulsioni della “pancia” del paese, esportando la “Milano da bere” in tutt’Italia. Un vero e proprio universo di valori radicalmente contrapposto a quello delle battaglie sociali e civili degli anni ’70.
In quarto luogo la costruzione di superfici di contatto con il fenomeno mafioso e la capacità di traghettare l’accumulazione finanziaria dell’economia illegale dentro il complesso dell’economia italiana. La saldatura tra parti significative di borghesia del Nord e malavita organizzata, con la creazione di veri e propri fenomeni di borghesia mafiosa, ha la sua base materiale nella sistematica cancellazione della linea di demarcazione tra economia legale ed illegale.
Da ultimo il berlusconismo è l’erede legittimo del sovversivismo della classi dirigenti italiane. Non a caso Berlusconi era affiliato alla P2 e larga parte del suo programma ricalca quello di Gelli nel suo disegno di un controllo oligarchico di istituzioni e media. La costruzione di una destra priva di confini a destra, ha rappresentato una grande operazione politica e una vera innovazione nell’ambito delle destre europee. Lo sdoganamento della destra estrema politica si è saldato con lo sdoganamento dei comportamenti di totale deresponsabilizzazione sul piano sociale e dei rapporti con lo stato che caratterizza una parte importante dell’imprenditoria italiana.
Il punto centrale del berlusconismo è stato sempre la capacità di costruire una mediazione tra varie espressioni della destra, dando vita ad un impressionante impasto di liberismo economico, egoismo individuale, moralismo reazionario sul piano legislativo e razzismo leghista. La capacità di costruire la mediazione all’interno del blocco dominante e di soddisfare gli appetiti degli interessi coagulati in lobbies, è stata sia la forza che l’obiettivo di Berlusconi Non a caso il profilo berlusconiano è stato così pesantemente antioperaio. Non essendo in grado di progettare una via di sviluppo per il paese Berlusconi si è concentrato sulla redistribuzione del reddito e del potere, dal basso in alto ovviamente. Per questo il berlusconismo rappresenta una soluzione capitalistica che salda al massimo livello l’attacco sul piano democratico e su quello sociale e manifesta una significativa tendenza alla costruzione di un regime. La destra ha quindi interpretato in modo estremistico lo spirito del tempo della seconda repubblica con una determinazione e una unità di intenti assai rilevante.
Non a caso è proprio la crisi economica, che colpisce l’assoluta maggioranza della popolazione, a determinare la crisi del berlusconismo, cioè dell’impossibilità di continuare la mediazione tra le diverse frazioni dei ceti dominanti.

L’ultimo governo Berlusconi. L’attacco “costituente” contro il lavoro e le autonomie.

L’ultimo governo Berlusconi sin dal suo insediamento ha operato con un elevato grado di coerenza interna. Non solo cioè ha compiuto operazioni che hanno accentuato le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, ma ha usato la crisi come leva per una riscrittura regressiva del complesso delle relazioni sociali.
Il governo ha anticipato le politiche restrittive europee. Pur non avendo dovuto compiere le pesantissime operazioni di salvataggio del sistema bancario che hanno impegnato i principali stati d’Europa , il governo, con la motivazione della necessità di ridurre lo stock del debito, ha varato da subito pesanti manovre di tagli. Se questa politica ha svolto una funzione pro-ciclica, cioè nel concreto manifestarsi della crisi, ha contribuito a inasprirla, come è testimoniato dal crollo del Pil nel 2009, dal conseguente raddoppio del deficit e dall’incremento di ben 9 punti del rapporto debito/pil, passato dal 106 al 115 per cento in un solo anno, il governo con la propria azione ha da subito alacremente lavorato per une vero e proprio disegno “costituente”, di ridefinizione del modello sociale e del ruolo dei soggetti sociali, in senso compiutamente eversivo della costituzione repubblicana.
I tagli pesantissimi al sistema della formazione non sono casuali ma mirati, sono lo specchio dell’idea di società che questo Governo e questa destra hanno come progetto per il futuro. La scuola e l’università sono rese luoghi sempre più classisti, inaccessibili per sempre più larghe fasce di popolazione, fucine di discriminazione e omofobia. Luoghi svuotati del loro potenziale rivoluzionario, cioè quello di poter costruire una società di donne e uomini liberi ed uguali, dove il sapere e la conoscenza sono diritti inalienabili, e non sacrificabili sull’altare del mercato, di una multinazionale, di una qualunque finanziaria. Sono tagli al futuro e alla democrazia, sono tagli alla civiltà.
Analogamente i tagli agli enti locali, il sostanziale obbligo di privatizzazione dei servizi pubblici riproposto in spregio del risultato referendario, l’attacco ossessivo e distruttivo al lavoro pubblico, puntano da un lato ad un salto di qualità dei processi di privatizzazione del welfare, dall’altro all’annullamento del ruolo delle istituzioni locali, cioè di quelle istituzioni che si caratterizzano per un rapporto di prossimità con la cittadinanza.
La distruzione delle autonomie - dei saperi, degli enti locali, non meno che della magistratura e dell’informazione - è stato il cuore della politica dell’ultimo governo Berlusconi e ha avuto al suo centro la distruzione della possibilità di organizzazione e dell’autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori.
Il lungo attacco alla contrattazione collettiva nazionale portato avanti sia con la volontà di imporre un modello aziendalista delle relazioni industriali, sia per affermare il contratto individuale in deroga, si è sostanziato in una pluralità di interventi sul terreno contrattuale come legislativo, dagli accordi separati al Collegato Lavoro, per precipitare in quell’articolo 8 dell’ultima manovra che fa carta straccia tanto della contrattazione collettiva quanto dell’intero diritto del lavoro, a partire dallo Statuto dei lavoratori e dall’articolo 18. La previsione che accordi pattizi a livello aziendale e territoriale possano derogare oltre al contratto nazionale, le leggi della Repubblica, è un inedito di assoluta gravità,, rappresentando la volontà di distruggere il complesso delle conquiste del movimento dei lavoratori, il ruolo del sindacato, e di affermare il comando assoluto dell’impresa nella precarizzazione integrale dei rapporti di lavoro. Un modello intrinsecamente autoritario, in cui l’annullamento di ogni diritto, libertà, autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori, è l’altra faccia di una riorganizzazione delle relazioni sociali fondata sulla dipendenza e sul “favore”.

La crisi della Lega di governo

Una indubbia protagonista degli ultimi lustri è stata la Lega Nord. Essa ha avuto la capacità di catalizzare nel tempo i malumori ed i disagi del nord dove più forte è stato l’impatto dalle trasformazioni neoliberiste e dalla globalizzazione e più forte è il disfacimento della coesione sociale. Ha altresì approfittato dell’abbandono ideologico, culturale e pratico del classismo e della sinistra a seguito dello scioglimento del PCI, della concertazione sindacale, del confuso passaggio dalla prima alla seconda repubblica, cui il centro sinistra ha contribuito non poco. Il classismo è stato sostituito dalla competizione fra territori e contro il diverso. Via via le parole d’ordine della Lega Nord dal popolo padano a “Roma Ladrona”, dal “padroni a casa nostra” all’additare il migranti come nemico, ma anche banche, grandi aziende, fino alla secessione di cui il federalismo doveva essere un passaggio transitorio, hanno dato corpo ai disagi, rancori, egoismi del nord; per poi scendere verso il centro.
La Lega Nord, ha costruito la sua identità con l’antipolitica, millantando la difesa del territorio mentre ai livelli superiori votava tutto il contrario.
Una passaggio importante, ma come vediamo ora, contradditorio, è stata, dopo il fallimento del ’94, l’alleanza stretta con Berlusconi. Alleanza avvenuta dai contorni poco chiari e che vede coinvolte banche padane fallite, Berlusconi, Fiorani (P4). Prima Berlusconi era berluskaiser, e la Padania inventò le dieci domande che vertevano tutte sui modi poco chiari con cui Berlusconi era diventato ricco. La prima delle quali era: sei un mafioso?
Con questa alleanza la Lega Nord è diventato partito di governo condizionandone non poco la politica del governo. E questo avveniva tanto più aumentavano le difficoltà del Presidente del Consiglio. Ora la Lega nord governa tre Regioni, un terzo della popolazione, il 60% della produzione industriale.
Una forte carica identitaria ha permesso di gestire grandi contraddizioni ma la crisi globale, le politiche europee, le vicende del premier hanno tuttavia reso questo sempre più problematico. La politica della Lega Nord si è dimostrata inefficace a difendere lavoratori e piccole e medie imprese dalla globalizzazione, la lotta alle delocalizazioni è via via scemata, sulla vicenda Mirafiori si è inchinata all’odiata Fiat, si è ammorbidito il contrasto con le banche, con la finanza ed il giudizio sulla stessa Europa. La guerra a Gheddafi, la verifica concreta che una cosa sono gli slogan ed una cosa è la gestione concreta dei flussi migratori, le manovre lacrime e sangue con la macelleria sociale dei ceti medi e popolari, un federalismo che alla prova dei fatti è anch’esso tagli e aumenti di tasse e tariffe, hanno messo in crisi la Lega, aperto un aspro scontro interno che non si era mai visto, posto il problema di una riconversione politica anche nella previsione che il centro destra non vinca più le elezioni. È in crisi la Lega di governo, la Lega nazionale. L’alternativa è il ritorno all’antico: la secessione. Questa pare essere l’approdo della crisi della Lega di governo nel tentativo di rimanere un partito regionale di destra a base di massa. La crisi economica e le tensioni dell’Euro possono favorire questa prospettiva politica che quindi va presa molto sul serio. Non è detto che però questa carta funzioni e in quel caso è molto probabile che la Lega torni a giocare fino in fondo la carta del razzismo da spingere alle estreme conseguenze. In questo caso, più che un partito regionale di destra, assumerebbe le caratteristiche del partito di estrema destra, in sintonia con un fenomeno ben presente a livello europeo.

I poteri forti.

In questo contesto, i poteri forti del paese stanno operando per dare uno sbocco politico di destra alla evidente crisi del berlusconismo. Il loro obiettivo è di sostituire Berlusconi costruendo una piena sintonia con la leadership europea della Merkel e della BCE. Parallelamente sono evidenti i tentativi di distruggere completamente i partiti politici e di privatizzare tutto, a partire dall’ informazione.
Da qui nascono i tentativi di scalzare Berlusconi evitando in modo chirurgico ogni spostamento a sinistra. Sono le proposte di governo del presidente, i ripetuti riferimenti a Monti come possibile capo dell’esecutivo. Questi tentativo, trovano nell’accordo interconfederale del 28 giugno una base di supporto materiale e vedono nella destabilizzazione del PD - per normalizzarlo ulteriormente - e della Cgil punti di passaggio rilevanti.
Il ragionamento che viene fatto è la necessità di togliere un governo presieduto da un inetto impresentabile a livello europeo, per dar vita ad un governo di responsabilità nazionale che applichi in modo ferreo i dicktat europei in nome della salvezza dell’economia e della nazione. L’accordo tra le parti sociali rappresenta quindi una base materiale su cui costruire questo governo, mentre la sua legittimazione extraparlamentare è data sia dal consenso delle parti sociali che dalla benedizione del Presidente della repubblica.
Abbiamo quindi una concorrenza, sulla stessa linea di Maastricht, tra un Berlusconi che resiste e cerca di continuare fino alla fine della legislatura e un tentativo di determinare gli equilibri del futuro, con l’obiettivo di una uscita a destra dalla crisi del berlusconismo.
Non a caso, sul piano politico, il principale alfiere di questi tentativi è Casini che in questi anni ha ritagliato un ruolo per il polo di centro di concorrenza a Berlusconi sul suo stesso terreno di interlocazione con il Vaticano e i poteri forti.

La questione sindacale oggi.

L’azione del governo, che traduce oggi il disegno già contenuto nel Libro Bianco del 2001 di Maroni, riscrive il ruolo del sindacato dentro la compiuta ridefinizione neocorporativa del modello sociale. E’ il sindacato della bilateralità, quello che trae la sua legittimazione non più dalla rappresentanza dei lavoratori e dalla contrattazione, ma dalla cogestione con le imprese di una pluralità di funzioni impressionanti, conseguenti ai processi di privatizzazione del welfare e alla distruzione della funzione pubblica: “mercati locali del lavoro e dei servizi che danno valore alla persona, quali sicurezza, formazione, integrazione del reddito, ricollocamento, certificazione dei contratti di lavoro.. previdenza complementare, assistenza sanitaria, oneri per la non-autosufficienza” secondo il riepilogo dei compiti da assegnare agli enti bilaterali, contenuto in un altro Libro Bianco, quello del ministro Sacconi.
La questione sindacale oggi non può prescindere dal fare i conti con la ridefinizione radicale del ruolo del sindacato che viene avanzata. Una ridefinizione che se nella politica del governo Berlusconi assume la consueta declinazione estremistica, attraversa il dibattito sul sindacato non solo nel nostro paese, come conseguenza dell’indebolimento delle organizzazioni sindacali che la globalizzazione capitalista ha comportato.
Riaffermare un modello di sindacato che pone al centro l’autonoma rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori, la loro potestà sulla contrattazione della prestazione lavorativa, richiede un deciso salto di qualità. Nella capacità di lettura della crisi del neoliberismo, collocandosi come parte di un movimento generale che ne contrasti gli esiti distruttivi sul lavoro e sulla società. Nella capacità di essere soggetto della ricomposizione del lavoro rispetto ai processi di rottura dell’unità della classe insiti sia nelle esternalizzazioni e nella moltiplicazione delle tipologie del lavoro precario, come nella riarticolazione dei processi produttivi su scala globale. Nella capacità di rinsaldare il vincolo con le lavoratrici e i lavoratori con una proposta di democrazia radicale nel rapporto tra lavoratori e organizzazioni sindacali.
Gli anni dell’ultimo governo Berlusconi, si sono caratterizzati sul terreno sindacale in maniera particolarmente negativa in Italia, anche rispetto al resto d’Europa. Cisl e Uil, imboccata decisamente la via della bilateralità si sono distinte su scala europea per essere le uniche due grandi centrali a non aver preso parte alle mobilitazioni continentali indette dalla Ces, e per la subalternità e complicità totale con i voleri del governo e di Confindustria: dagli accordi separati, al collegato lavoro, fino al sostanziale assenso all’articolo 8 dell’ultima manovra. La Cgil si è opposta alla maggior parte dei provvedimenti del governo e da sola ha promosso cinque sciopero generali. La mancanza di un bilancio della stagione concertativa, le modificazioni nel proprio quadro dirigente prodotte da quella stagione, l’assenza di un dibattito sulle prospettive e il ruolo del sindacato nella crisi del neoliberismo, ne hanno però condizionato l’azione. Sia nell’incapacità di porsi come punto di riferimento di un movimento duraturo di opposizione sociale, sia nella permeabilità ai tentativi di uscita dalla crisi del berlusconismo nel segno della “responsabilità nazionale” alla base dell’accordo interconfederale del 28 giugno e del patto sociale del 4 agosto. Le contraddizioni che attraversano la più grande organizzazioni sindacali del paese, sono tuttavia, come dimostra anche la proclamazione dello sciopero del 6 settembre, aperte ad esiti diversi.
Gli anni dell’ultimo governo Berlusconi sono stati però anche anni di riconquista di una centralità e visibilità del lavoro nello spazio pubblico. La stessa pesantezza dell’attacco portato dalle destre e da Confindustria, l’estremismo del modello Marchionne, hanno contribuito a far sì che attorno alla centralità della condizione lavorativa, al nesso tra diritti del lavoro e difesa della sostanza della Costituzione, alla necessità di contrastare i processi di precarizzazione di massa, si coagulasse un inedito schieramento di forze. Il ruolo soggettivo svolto dalla Fiom è stata un tramite decisivo di questo processo. La Fiom ha rappresentato non soltanto la “resistenza” all’offensiva Fiat, ma anche l’esperienza sindacale che nel nesso tra conflitto e democrazia, ha individuato la leva per la ricostruzione della soggettività del lavoro, e nella ricerca delle connessioni tra i diversi conflitti, la premessa per la ricostruzione di un movimento antiliberista.
La ricomposizione che è avvenuto sul terreno del sindacalismo di base con la nascita dell’Usb indica un positivo processo di superamento della frammentazione e della concorrenza tra sigle, con l’obiettivo di costruire la massa critica necessaria per tradursi in lotte non testimoniali.
Il valore del riconoscimento delle reciproche autonomie tra soggetti sindacali e soggetti politici, significa per noi, operare perché a partire dal merito, si determini la più ampia unità d’azione dei sindacati nell’opposizione al tentativo di azzeramento della contrattazione collettiva e dei diritti del lavoro, perché si affermi un modello di sindacato di classe, del conflitto e della democrazia, perché si determini un campo di forze politiche, sindacali, sociali, in grado di dare sconfiggere Berlusconi , il berlusconismo, le politiche neoliberiste.
Centro sinistra e nuovo Ulivo
Il carattere intimamente contraddittorio è il punto caratterizzante il PD e il Nuovo Ulivo in fase di costruzione. Questo emerge anche nel frangente della crisi del governo Berlusconi: la richiesta di dimissioni di Berlusconi si sostanzia a volte con la richiesta di elezioni anticipate e a volte con la disponibilità a sostenere un governo istituzionale.
Ovviamente questa contraddittorietà non è priva di un centro gravitazionale: Il PD, si è schierato con la NATO, a favore di tutte le guerre fatte dall’Italia negli ultimi decenni fatto salvo l’Iraq. Convinto sostenitore dell’Unione Europea liberista costruita con Maastricht e portatore di una idea di etica pubblica di tipo europeo, che costituisce un elemento centrale della distinzione da Berlusconi. Portatore di una ideologia e di una politica di liberismo temperato, sostanziata dal progetto della costruzione di un rinnovato compromesso sociale in Italia. Sostenitore del referendum per ripristinare il “Mattarellum”, salvaguardando così il bipolarismo dall’impresentabilità del “porcellum”. In sintesi, il baricentro politico e culturale del gruppo dirigente del centrosinistra, non tende alla costruzione dell’alternativa, che oggi, sul piano politico non è per niente matura. Inoltre, rispetto ai due decenni passati, la prospettiva prodiana della costruzione di un nuovo compromesso sociale, viene completamente messa fuori gioco dalla crisi economica e dalle politiche imposte a livello europeo. Politiche economiche e finanziarie, peraltro non messe in discussione seriamente dal centro sinistra.
Questi elementi, che ci sono ben chiari, motivano la nostra valutazione di impraticabilità, nell’attuale fase politica, di un accordo di governo. Essi non ci devono però far perdere di vista l’elemento della contraddittorietà, che è quello più significativo in relazione al dispiegarsi della nostra azione politica.
Ritroviamo infatti questa contraddittorietà nell’impianto delle proposte che avanza in primo luogo il gruppo dirigente democratico. Portatore di una idea di liberismo temperato ma anche attento alla redistribuzione del reddito, alle istanze dei lavoratori. Attento alle istanze Vaticane ma anche laico e attento ai diritti civili. Promotore delle riforme istituzionali ma anche attento alle regole e alla difesa della Costituzione. Interlocutore di Confindustria e schierato con Marchionne ma anche attento alle istanze della Cgil e dei lavoratori. Bipolare, ma diviso tra chi punta al bipartitismo e chi ad una maggiore articolazione democratica.
Questa contraddittorietà alberga nello stesso rapporto tra i gruppi dirigenti e il “popolo” del centro sinistra. La domanda di trasformazione sociale che è presente nella base del PD e in generale del nuovo Ulivo, è generalmente assai più di sinistra di quanto non esprimano i gruppi dirigenti. Su punti come la patrimoniale, la precarietà, la guerra, questa contraddizione è palese e visibilissima. La stessa piattaforma della Cgil sulle questioni economiche e sociali è radicalmente diversa e più avanzata delle proposte che l’opposizione avanza in parlamento.
A causa di questo impianto fortemente contraddittorio – che la dice lunga sul carattere coercitivo ed “innaturale” del sistema bipolare in Italia - il centrosinistra, che è fatto oggetto di forti aspettative di cambiamento nelle fasi di opposizione, determina poi rapidamente elementi di frustrazione quando va al governo. Vi è una palese contraddizione tra la domanda sociale rivolta al centro sinistra e il progetto dello stesso. Anche perché il centro sinistra attua una certa disinvolta divisione tra propaganda e realizzazioni: lo abbiamo visto nel mancato rispetto del programma del secondo governo Prodi ma anche di recente nel referendum sull’acqua. I contenuti della campagna referendaria del PD erano assai diversi dalla ricetta moderata riproposta in modo plateale il giorno dopo la vittoria del referendum.
Questa situazione, si modifica prendendo in esame le singole forze politiche che compongono il nuovo Ulivo, ma non viene radicalmente contraddetta.
L’Italia dei Valori, per una fase si è posizionata sul lato sinistro della coalizione, pur collocandosi nel parlamento europeo nel gruppo liberale. Nel passaggio delle elezioni amministrative, l’IdV è stata protagonista con la Federazione della Sinistra, dell’appoggio alla candidatura di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli. Dopo aver svolto nei fatti una azione di supplenza nei confronti dell’assenza della sinistra in parlamento, dando voce alla domanda di intransigente opposizione al centro destra, ha scelto ora un terreno più moderato. Sul piano delle politiche economiche, non si discosta significativamente dal dibattito del PD. L’IdV si presenta quindi oggi come forza responsabile del centro sinistra e costruisce il suo tratto distintivo sul terreno della questione morale, con una curvatura che tende a presentare il complesso dei problemi del paese in problemi di casta, sprechi e ruberie.
Nemmeno Sinistra Ecologia e Libertà sfugge alla cifra contraddittoria che caratterizza tutto il Nuovo Ulivo. La partecipazione alla fase costituente di quest’ultimo, fortemente bipolare, unita alla promozione del referendum per il ripristino del Mattarellum, contrasta con la domanda di unità della sinistra di alternativa espressa da molte delle persone che militano o simpatizzano per SEL e con i contenuti avanzati che questa esprime su svariati terreni: dal no alla guerra alla lotta alla precarietà, dalla difesa della scuola e dell’Università pubblica alle proposte sui diritti sociali e civili. Anche nei gruppi dirigenti di SEL si registrano posizioni diverse su terreni cruciali – dalle questioni istituzionali ai temi del lavoro e della politica economica – a testimonianza di un processo non ancora chiuso di definizione dell’identità politica e culturale. Sta di fatto - e questo appare a noi l’elemento più significativo - che a SEL guardano molti compagni e compagne radicalmente critici nei confronti del PD che auspicano la costruzione di una sinistra unitaria, non certo di un nuovo Ulivo.
La richiesta di spostamento a sinistra del centro sinistra, si concentra sul terreno della leadership, delle primarie. Anche questo contiene un elemento fortemente contraddittorio: E’ del tutto evidente che, in un sistema a base parlamentare, non basta cambiare il presidente, ma il nodo è modificare a fondo i programmi che impegnano i parlamentari, pena una sostanziale inefficacia. L’esempio di Obama, impossibilitato anche quando aveva la maggioranza parlamentare a realizzare il suo programma, è li a dimostrarlo. La stessa esperienza del Prodi bis, dove una significativa presenza parlamentare delle forze di sinistra non è certo bastata per modificare l’asse delle politiche economiche del centrosinistra. Non ci pare che la proposta delle primarie sia oggi in grado di determinare questo spostamento. Anche perché, di fronte alla più grave crisi del capitalismo dal ’29 ad oggi, dalle forze di centro sinistra è continuata la polemica con Berlusconi e non si è sentito quasi nulla riguardo ad una seria messa in discussione delle politiche europee, che sono all’origine della profondità della crisi economica. Tanto meno si è sentito qualcosa sul carattere specificatamente capitalistico della crisi e sulla necessità di costruire una prospettiva anticapitalistica.
Potremmo continuare a lungo nella descrizione ma il punto di fondo non cambierebbe e per quanto ci riguarda è riassumibile nella constatazione che una parte significativa della gente che vota e si identifica nel centro sinistra è portatrice di richieste e posizioni politiche decisamente più radicali dei gruppi dirigenti. In secondo luogo, che la strada scelta delle primarie non è per nulla sufficiente a colmare questa divaricazione e che – al fondo – non esiste un popolo del centro sinistra radicalmente separato da un popolo della sinistra. Esiste un popolo di sinistra, in larga parte disorientato, a cui occorre avanzare una proposta politica coerente con le sue aspirazioni e con la necessità di uscire da sinistra dalla crisi.
La costruzione dell’alternativa non consiste infatti nella denuncia dei cedimenti altrui ma nella concreta capacità a definire percorsi praticabili di accumulo di forze e di trasformazione. Per questo proponiamo la costruzione di una opposizione unitaria, la rottura del bipolarismo e la costruzione di un polo della sinistra di alternativa. Non assumiamo quindi la costruzione del nuovo Ulivo come un dato di fatto immodificabile, ma piuttosto come un terreno di battaglia politica, proponendo alla sinistra la costruzione di un polo della sinistra di alternativa, come terreno necessario al fine di conquistare l’uscita a sinistra dalla crisi.
La contraddizione tra la domanda sociale e le risposte politiche
Gli effetti della crisi e il resistere, contemporaneamente, di culture ed esperienze critiche, hanno determinato nel paese una forte domanda di cambiamento, in cui nelle esperienze più avanzate, l’antiberlusconismo si intreccia con l’antiliberismo.
Il ruolo svolto dalla Fiom, nella tenuta del conflitto di classe e nella ricerca, a partire dal 16 ottobre, delle connessioni con altri soggetti sociali e soggettività di movimento, ha permesso l’incontro tra temi e soggetti del conflitto che hanno radice comune ma, fino ad allora, sbocco differente, a partire da quello tra operai metalmeccanici e giovani generazioni, dunque mondo studentesco.
Come in Grecia, Spagna e Nord Africa, anche in Italia le giovani generazioni di studenti e precari sono state protagoniste di un grande movimento di opposizione alle politiche neoliberiste, dell’Europa e di questo Governo, il quale con provvedimenti come la Riforma Gelmini ha mostrato uno dei suoi volti peggiori.
Studentesse, studenti, precari, hanno attraversato il Paese, le piazze, hanno occupato i tetti, le stazioni, le strade, con la volontà di lottare per ottenere i propri diritti, a partire da quello ad attraversare con dignità il presente, per potere abitare pienamente il futuro. Una lotta consapevole, in una società di diritti negati, da quello alla formazione in scuole e università che non siano sempre più classiste ed asservite a mercato e Vaticano, fino a quello al lavoro, ormai sempre più strumento del capitale per se stesso e non più di chi lavora e per chi lavora.
Un Paese come il nostro, dove l'investimento nella ricerca è agli ultimi posti d'Europa, dove chi governa e le figure chiave del sistema hanno l'età media più alta d'Europa, dove vige la politica del favore anziché quella del diritto, si ritiene ancora necessario e urgente rivoluzionare ogni cosa. Lo scorso anno, di cui il 14 dicembre è stato l’emblema per le lotte di questa generazione, è stato solo l’inizio di quella che in quelle piazze hanno chiamato appunto “ri-presa del futuro”.
Un anno che ricorderemo anche per le mobilitazioni delle donne, che hanno segnato lo spazio pubblico, spesso con un’eccedenza di radicalità rispetto alle stesse piattaforme di convocazione delle manifestazioni, che a volte peccavano di compatibilità con il sistema. Nelle piazze è giunta la denuncia della regressione culturale che il governo Berlusconi sta producendo nella società, attraverso l’oscena e grottesca esibizione di un potere maschile che, sempre più in crisi, trae linfa dalla mercificazione del corpo delle donne.
Hanno portato il disagio, mai superato, del doppio lavoro, produttivo e riproduttivo, che continua a scaricarsi su di loro, nella perpetuazione della divisione sessuata del lavoro, il cui peso assume sempre maggiore carattere discriminatorio a causa dei continui processi di attacco al welfare. Hanno portato la contestazione di uno spazio pubblico - ottimamente rappresentato dalla politica e dalle istituzioni- ancora pesantemente segnate dal monopolio e dal dominio maschile.
Le mille vertenze ambientali contro il consumo del territorio, di cui è emblematica le lotte di popolo contro la Tav in Val di Susa, contro il Ponte sullo Stretto e le tante forme in cui la coscienza del limite sta modificando stili di vita e producendo nuove pratiche sociali. Quella coscienza del limite, che nel passaggio dei referendum ha conquistato la maggioranza tra il popolo italiano, nel rifiuto del nucleare e nella rimessa in discussione, a partire dall’acqua, delle privatizzazioni, di quel pensiero unico che ha accompagnato le nuove enclosures della globalizzazione neo liberista.
La domanda di cambiamento attraversa la società italiana. Si è espressa con nettezza nei referendum, e con altrettanta nettezza alle elezioni amministrative, che hanno sconfitto un altro dogma di questi anni: quello per cui si vince al centro nella perpetua rincorsa al voto “moderato”, nell’omogeneizzazione degli schieramenti.
E’ tutt’altro che semplice tuttavia il processo di messa in connessione dei movimenti, la costruzione di luoghi condivisi, spazi pubblici in cui si sedimentino le relazioni tra soggetti e obbiettivi, si determini un salto di qualità, di progetto e mobilitazione.
Né questa domanda di cambiamento trova una sponda in una sinistra antiliberista di dimensioni sufficienti, ne una possibile alternativa sul piano del governo e delle politiche economiche.
Questo contribuisce non poco a determinare una situazione in cui i movimenti sono in larga parte difensivi e di resistenza. Determinati più dalla pesantezza dell’attacco dell’avversario che non da una propria capacità di iniziativa. Questo vale sia sul piano della democrazia che sia piano dei diritti dei lavoratori, dei diritti sociali e civili. Questa situazione tende a generare sia una pulsione alla rivolta che una relativa percezione di impotenza, che risulta essere il dato maggiormente caratterizzante la situazione. Ovviamente la categoria dell’impotenza va presa con le molle perché vive in modo diversificato in ordine sia alle concrete condizioni lavorative che alla propensione al conflitto. Laddove minore è l’organizzazione sindacale e la pratica del conflitto, maggiore è la percezione di impotenza. Laddove l’organizzazione e o il conflitto è più forte, la costruzione di un nuove senso comune di appartenenza è una realtà che si tocca con mano.
Il punto politico è quindi che vi è in Italia una domanda di alternativa che risulta frustrata in particolare dalla dinamica concreta determinata dal bipolarismo. Guardando il fenomeno in una prospettiva oramai ventennale, possiamo notare come durante i governi di Berlusconi maturi una opposizione di massa che eccede significativamente i contenuti politici e culturali delle forze del centro sinistra. Questa domanda eccedente è una risorsa politica importante che viene però deformata dal carattere bipolare del sistema istituzionale. Mentre un sistema proporzionale infatti determinerebbe in modo più fluido una scelta politica, nel caso italiano ci troviamo di fronte ad una doppia sovra determinazione che complica tutto: da un lato la necessità di cacciare del destre e dall’altra la richiesta di modifiche radicali nelle politiche economiche e sociali. Inoltre questi due elementi, entrambi presenti nei movimenti e – in pesi diversi – contraddittoriamente presenti nei ragionamenti delle persone singole, non entrano in gioco nello stesso momento: Mentre il dato sistemico della sconfitta delle destre pesa nella fase elettorale, il dato relativo ai contenuti, tende ad emergere dopo, nella concreta attività di governo.
In conclusione
Possiamo dire che nella crisi della Seconda repubblica sono messe in discussione le conquiste che riguardano ben tre cicli della storia del paese. In primo luogo il ciclo degli anni ’70 che la controrivoluzione berlusconiana vuole definitivamente seppellire. In secondo luogo, il ciclo nato dalla lotta partigiana e che ha visto nella Costituzione e nella presenza della sinistra e del movimento operaio organizzato i propri caratteri distintivi. In terzo luogo la messa in discussione della stessa unità del paese.
Dobbiamo quindi avere la consapevolezza che il nostro compito non si esaurisce nella battaglia politica quotidiana ma chiede una capacità di riprendere i fili della storia del paese per proporre oggi una alternativa e un diverso svolgimento che si colloca a livello politico ma anche culturale e sociale.
Questo in un contesto in cui vi è una significativa disponibilità al conflitto, una significativa capacità di egemonia dei movimenti in grado di condizionare l’opinione pubblica, ma, nel contempo, la drammatica immaturità del tema dell’alternativa sul piano politico e la totale non coincidenza tra il tema dell’alternanza e quello dell’alternativa.
Dalla necessità di dare un risposta politica compiuta a questa situazione nasce la nostra proposta politica di uscita a sinistra dalla crisi.

IL NOSTRO PROGETTO POLITICO
Il nostro progetto di fondo, la nostra ragion d’essere, è l’alternativa di società. Siamo uomini e donne che si battono per la fuoriuscita dal capitalismo e dal patriarcato in direzione di una società comunista.
Uscire dalla crisi
Questo progetto che ci guida, si articola concretamente, in questa fase storica, nella lotta per l’uscita da sinistra dalla crisi del capitalismo. E’ una crisi che produce sofferenze sociali e individuali, che determina il netto peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione. La crisi produce insicurezza oggi e paura del futuro: Con la crisi i cambiamenti avvengono, anche repentini, ma sono negativi.
Questa crisi costituente produce regressione sociale e imbarbarimento dei rapporti sociali. L’alternativa socialismo o barbarie la vediamo concretamente maturare sotto i nostri occhi. In questo contesto l’uscita da sinistra dalla crisi coincide con il tema della modifica profonda dei rapporti sociali. Dentro il capitalismo neoliberista non esiste nessuna uscita dalla crisi ma solamente la barbarie. Da qui deriva la pericolosità delle destre che consapevolmente operano in direzione della regressione sociale e civile e di qui matura l’inefficacia delle forze del centro sinistra, incapaci di uscire dalla gabbia neoliberista.
Per questo noi riteniamo che l’uscita a sinistra dalla crisi corrisponda agli interessi delle classi lavoratrici e della maggioranza della popolazione. Operiamo affinché l’uscita a sinistra dalla crisi diventi un aspirazione e venga riconosciuta una necessità a livello di massa. Per questo ci poniamo l’obiettivo dell’uscita a sinistra dalla crisi come obiettivo di fase, che orienti il nostro lavoro politico nei prossimi anni, a livello italiano come a livello europeo e mondiale.
Costruire l’opposizione
Porsi l’obiettivo di uscire a sinistra dalla crisi significa innanzitutto costruire l’opposizione contro le destre e le politiche di gestione capitalistica della crisi a partire dall’aggressione alla democrazia e al lavoro. L’efficacia delle politiche antisociali che il governo sta attuando dipende innanzitutto dal grado di opposizione che saremo in grado di produrre. La costruzione di un vasto movimento di opposizione, sociale, culturale e politico è quindi il primo compito a cui dobbiamo lavorare. Questa opposizione, che ha un punto comune nella difesa della democrazia e della Costituzione, per sua natura, non può che essere articolata, con posizioni più avanzate e altre più arretrate: dall’antiberlusconismo interclassista al conflitto contro Confindustria, alla lotta antiliberista. Basti pensare alla differenza tra l’iniziativa in difesa della democrazia di piazza del popolo del 13 marzo scorso e la lotta NO TAV in Val di Susa. Le caratteristiche variegate dell’opposizione non devono essere un ostacolo al suo sviluppo e noi abbiamo il compito di attraversare tutte le forme di costruzione dell’opposizione, costruendo nessi e legami e puntando ad una sua maturazione e alla costruzione di una soggettività di massa antiliberista.
Cacciare Berlusconi.
Rifondazione Comunista si pone quindi l’obiettivo di far cadere il governo Berlusconi, di farlo cadere da sinistra e di andare alle elezioni anticipate. Parimenti contrastiamo nettamente le ipotesi di stabilizzazione moderata che puntano a sostituire Berlusconi con un governo “tecnico” o “istituzionale” che accentui ulteriormente il carattere padronale e subalterno alle tecnocrazie europee delle politiche economiche.
La cacciata di Berlusconi dal governo del Paese rappresenta una priorità assoluta, una condizione necessaria sul piano sociale ma anche per impedire un avvitamento ulteriore del degrado politico e morale delle istituzioni e il pericolo di colpi di coda di tipo autoritario o che colpiscano l’indipendenza e l’autonomia dei poteri costituzionali.
Da qui – nel quadro dell’attuale legge elettorale maggioritaria - la nostra proposta di dar vita ad un Fronte democratico tra le forze di sinistra e di centro sinistra per sconfiggere le destre e porre condizioni migliori per difendere e rilanciare la democrazia e la Costituzione, contrastare gli effetti sociali negativi della crisi e superare il bipolarismo.
Il contrasto radicale alle destre è infatti costitutivo del profilo politico e culturale di Rifondazione Comunista. Ricordiamo che nel 2001, nel massimo del contrasto con il centro sinistra e nel pieno di una campagna denigratoria che intendeva descrivere il Prc come una forza che favoriva la vittoria delle destre, Rifondazione Comunista praticò, nelle forme consentite dalla legge elettorale, la desistenza unilaterale nell’elezione della Camera dei Deputati.
La nostra valutazione di fase, per quanto riguarda l’impraticabilità di un accordo di governo, non rende però meno necessaria la battaglia per la qualificazione programmatica dell’alleanza contro le destre. Riteniamo necessario contrastare la separatezza delle dinamiche politiche al fine di costruire una relazione forte tra contenuti e aspirazioni del conflitto sociale e confronto politico.
Dobbiamo quindi agire questa nostra proposta in modo dinamico, nella piena convinzione che molta parte degli uomini e delle donne che vogliono cacciare Berlusconi, si pongono contemporaneamente il problema di costruire politiche alternative e fuoriuscire dal quadro neoliberista. Questa domanda politica, di cambiamento radicale, non riesce oggi a determinare i comportamenti delle forze politiche di opposizione.
Nostro compito politico è operare al fine di massimizzare la capacità di questa domanda di trasformazione sociale di incidere sul quadro politico. Per questo dobbiamo stare fino in fondo nel processo politico che porterà alla costruzione di uno schieramento alternativo a quello delle destre e lo dobbiamo fare ponendo al centro la questione dei programmi e del progetto complessivo con cui sostituire le politiche delle destre. Costruire a livello di massa il dibattito sui programmi è decisivo per determinare un coivolgimento effettivo dei soggetti sociali che hanno lottato contro Berlusconi e per massimizzarne il peso politico. Occorre uscire da una discussione ridotta a pura questione di schieramenti per aprire nella società una discussione sul che fare nel dopo Berlusconi.
Per questo abbiamo avanzato e riproponiamo il tema delle primarie di programma. Vogliamo che la discussione sui punti qualificanti dello schieramento che nel sistema bipolare si contrapporrà alle destre, avvenga in modo allargato, nel pieno coinvolgimento dei movimenti e soggetti sociali che in questi anni si sono battuti contro il neoliberismo e hanno costruito l’opposizione concreta al governo Berlusconi. Proponiamo le primarie di programma non per determinare i rapporti tra noi e il nuovo Ulivo ma come condizione più favorevole per rendere permeabile lo schieramento antiberlusconiano alle domande sociali. La sconfitta delle ipotesi centriste che cercano di egemonizzare l’opposizione a Berlusconi può avvenire unicamente in un processo di coinvolgimento pieno dei soggetti sociali che l’opposizione a Berlusconi e al Berlusconismo l’hanno fatto e la stanno facendo concretamente.
In questo quadro, non riteniamo centrali le primarie per la scelta del capo del governo, che introiettano le distorsioni del maggioritario e del presidenzialismo e che affrontano le questioni di contenuto come sottoprodotto della definizione del leader e nell’affidamento alla persona.
Riteniamo invece decisivo il coinvolgimento dei movimenti, delle associazioni, dei lavoratori, dei tanti comitati che innervano il tessuto democratico del Paese e hanno sostenuto l’opposizione al governo delle destre. E’ dentro quel campo largo che deve essere raccolta e alimentata la sfida sulle idee e i programmi per battere le destre. Siamo infatti convinti che su molti contenuti – dalla guerra alla patrimoniale alla tutela del lavoro, ai diritti civili, per non fare che alcuni esempi – il popolo antiberlusconiano esprime contenuti politici molto più avanzati di quelli delle rappresentanze politiche. Questo è il terreno di sfida che vogliamo porre .
Avanziamo questa proposta sapendo che la sconfitta di Berlusconi non coincide con la costruzione dell’alternativa, perché l’indirizzo politico maggioritario del centrosinistra non si pone l’obiettivo di fuoriuscire dalle politiche neoliberiste. Questa consapevolezza, sulla non coincidenza tra alternanza e alternativa, rafforza il nostro proposito di superare il bipolarismo, verso un sistema elettorale proporzionale, per uscire da sinistra dalla crisi seconda repubblica.
La nostra previsione sul profilo del centro sinistra e sull’assenza delle condizioni politiche per determinare attraverso le elezioni una alternativa al neoliberismo, deve quindi essere una bussola. Non un impedimento al pieno dispiegarsi di una nostra offensiva politica unitaria sui contenuti da immettere nel fronte antiberlusconiano.
Per un Movimento di massa antiliberista
Come abbiamo sottolineato la cacciata di Berlusconi non risolve il tema dell’uscita a sinistra dalla crisi. Occorre costruire una opposizione di massa alle politiche neoliberiste, italiane ed europee, uscendo dai confini asfittici della dimensione nazionale e superando i limiti di un antiberlusconismo interclassista.
Contribuire alla costruzione di un movimento di massa anticapitalista, radicato nel paese ma con forti legami a livello europeo e mondiale è quindi il secondo obiettivo che ci poniamo. L’assemblea dei movimenti tenutasi a Genova il 24 luglio scorso e la manifestazione unitaria del 15 ottobre sono stati primi positivi passi in questa direzione. Si tratta innanzitutto di estendere i movimenti presenti e di qualificarne la piattaforma nella capacità di collegare i motivi specifici della propria lotta con una critica alle politiche neoliberiste. Passo rilevantissimo a cui dobbiamo lavorare e che determina la possibilità di intrecciare maggiormente le lotte in forma non episodica.
La costruzione di un movimento di questa natura è possibile solo nella piena consapevolezza che questo deve mantenere una piena autonomia dal quadro politico e dal governo. Un movimento antiliberista non può oggi avere un unico punto di riferimento politico, non può avere governi amici da sostenere ed è per sua natura pluralista sul piano politico. Del resto i movimenti antiliberisti che concretamente si presentano oggi sulla scena hanno proprio questa caratteristica plurale come elemento costitutivo. Avanziamo questa riflessione a partire da una valutazione autocritica del ruolo che Rifondazione Comunista ha svolto - dopo il referendum sull’articolo 18 - nei confronti della possibilità di consolidare un forte movimento antiliberista dopo Genova. La costruzione del movimento non può essere storpiato dalle storture determinate dal bipolarismo coatto in cui viviamo e che – anche per questo – vogliamo superare.
Dobbiamo rovesciare la crisi costituente in una opposizione costituente di una nuova soggettività anticapitalistica.
La Costituente dei Beni Comuni e del Lavoro
Nel quadro del movimento antiliberista avanziamo la proposta di costruire una Costituente dei Beni Comuni e del Lavoro. Costruire cioè un progetto politico di aggregazione di tutti coloro che ritengano la prospettiva dei beni comuni e della liberazione del lavoro la strada attraverso cui consapevolmente porre il tema del superamento della mercificazione delle cose e dei rapporti sociali.
Parlano di questa esigenza la campagna che ha portato alla vittoria nei referendum per l’acqua pubblica, come i conflitti di lavoro o su base territoriale come il movimento NO TAV in Val di Susa. L’efficacia dell’azione politica dei movimenti di lotta è direttamente proporzionale alla costruzione di un progetto comune che diventi una presenza stabile nel paese. Da questo punto di vista la parola d’ordine della Costituente dei beni comuni e del lavoro può diventare un obiettivo praticabile in quanto percepito come una necessità vera da parte degli animatori dei principali movimenti. Questo sapendo che i passaggi non sono per nulla automatici ma politici. Il passaggio da movimenti unificati dal comune avversario fisicamente identificato ad un conflitto contro la gestione capitalistica della crisi, è tutto da fare e necessita l’individuazione degli obiettivi intermedi ma anche la costruzione di una lettura anticapitalista della crisi.
Il termine Costituente indica quindi un passo in avanti rispetto alla dimensione del movimento sia in termini organizzativi che in termini di consapevolezza e di definizione degli obiettivi. Tra i soggetti collettivi che possono concorrere alla costruzione di una Costituente dei Beni comuni e del lavoro, vi sono soggetti politici così come vi sono soggetti che in nessun modo possono far parte organicamente di un soggetto politico istituzionale. Così come il quadro bipolare ci consegna – a partire da comuni obiettivi e contenuti condivisi – diverse ipotesi di collocazione politica istituzionale. Proponiamo quindi la Costituente dei beni comuni e del lavoro come “istituzione di movimento” che, a partire da obiettivi chiari, sappia confrontarsi con il sistema istituzionale senza esserne da questo trasfigurata.
L’unità della sinistra di alternativa
L’esperienza di questi anni ci insegna che senza la sinistra non c’è opposizione efficace, né politica né sociale, giacché neppure l’opposizione sociale, pure così radicale e attiva in questo ultimo anno, riesce a riaprire il terreno dell’alternativa. Per questo, nell’ambito del movimento di massa anticapitalista, proponiamo un percorso unitario per costruire un polo politico autonomo della sinistra di alternativa. Riteniamo infatti necessario superare l’attuale dispersione e frantumazione che incide assai negativamente sull’efficacia e sulla credibilità della nostra azione. Avanziamo questa proposta a tutte le formazioni politiche di sinistra, così come alle compagne e ai compagni dei movimenti che variamente organizzati, si pongono la necessità politica di costruire una sinistra degna di questo nome. In particolare, riteniamo che la soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori, la loro organizzazione, il concreto manifestarsi della lotta di classe, rappresenti un elemento decisivo per l’esistenza della sinistra di alternativa.
In tutta Europa si evidenzia il permanere e per certi versi l’approfondirsi delle differenze tra le due sinistre. Così come in tutta Europa sono in corso processi di aggregazione della sinistra di alternativa. Si tratta quindi anche in Italia di aggregare la sinistra di alternativa, in sinergia con il movimento di massa, con la Costituente dei beni comuni e del lavoro, con l’impegno della Federazione della Sinistra. Occorre organizzare il campo delle forze che si pongono il problema di uscire dalle politiche neoliberiste in una direzione anticapitalista e di uscire dalla Seconda Repubblica superando la gabbia del bipolarismo.
Nel ritenere Rifondazione comunista necessaria per l’oggi e per il domani avanziamo quindi una proposta unitaria, federata, volta ad archiviare una stagione di scissioni che abbiamo subito ma che hanno inciso in modo pesantemente negativo sulla credibilità della sinistra. Va riedificato l’agire collettivo, attivando le forme della democrazia partecipativa, reinventando le relazioni tra movimenti e partito, facendo coesistere esperienze diverse disposte a riconoscersi reciprocamente, praticando esperienze di democrazia diretta a partire dall’uso dello strumento del referendum come è accaduto nella straordinaria esperienza di quelli sull’acqua e nucleare.
La costruzione di una sinistra di alternativa passa anche attraverso la forte valorizzazione delle esperienze locali. Già in occasione delle scorse elezioni amministrative si sono formate sui territori aggregazioni di forze politiche e sociali che hanno assunto un profilo politico e programmatico dichiaratamente antiliberista. Talvolta, queste aggregazioni hanno dato vita a coalizioni alternative, in altri casi hanno dato vita a liste unitarie di sinistra, anche nell’ambito di coalizioni di centro – sinistra. In ogni caso, esse hanno raccolto una nuova domanda emergente a livello locale che non solo rimette in discussione l’idea di governo come istanza separata, ma che pone anche la necessità di politiche alternative a quelle abitualmente praticate. Elementi comuni di queste esperienze sono stati: la rivendicazione di un’estensione delle pratiche partecipative, la difesa del pubblico contro la logica delle privatizzazioni, la difesa del welfare come condizione per il sostegno ai redditi medio-bassi, la salvaguardia dell’ambiente e un modello di sviluppo eco-compatibile, la difesa più ampia dei diritti, nello spirito dell’inclusione e della solidarietà. In queste esperienze si sono consolidate pratiche, relazioni unitarie, aperture vere alle istanze sociali e ai movimenti che vanno sostenute, allargate, consolidate, e connesse, con l’obiettivo della costruzione di una “rete dell’alternativa”.
Proponiamo un processo unitario a base federativa, partecipato e democratico, che coinvolga a pieno titolo tutte le realtà disponibili sia a livello nazionale che territoriale, recuperando le relazioni e le sperimentazioni della Sinistra Europea; dovrà costruirsi sulla base di un lavoro politico comune, articolato e sperimentato nei territori e radicato nei conflitti, a partire dalle lotte per il lavoro e per la giustizia sociale. Un processo che Rifondazione Comunista propone alle forze politiche, sociali, culturali, associative, a singole e singoli disponibili a costruire un polo politico autonomo dal centro sinistra e capace di una rinnovata critica del modo di produzione capitalistico e di un’alternativa di società. Un polo politico che si propone di incidere sul piano politico e nello stesso tempo capace di rappresentare un progetto strategicamente alternativo, che assuma come fondative e discriminanti la connessione tra anticapitalismo, critica al patriarcato, riconversione ambientale e sociale dell'economia, antirazzismo, pacifismo, solidarietà internazionale, lotta contro l'omofobia, critica della politica come attività separata e del bipolarismo.
La Federazione della Sinistra.
Nella prospettiva di costruzione di un polo autonomo della sinistra di alternativa abbiamo dato vita alla Federazione della Sinistra. Lo abbiamo fatto con il Partito dei Comunisti Italiani, con Socialismo 2000, Lavoro e solidarietà e con altre soggettività presenti nei movimenti di lotta, consapevoli di fare un primo ma indispensabile passo. Una scelta unitaria compiuta proprio mentre subivamo l’ennesima scissione, giacché riteniamo che non si costruisce unità a sinistra attraverso rotture, e perché riteniamo che il patrimonio di militanza e di saperi di Rifondazione Comunista sia fondamentale per una prospettiva di sinistra e anticapitalista nel Paese.
Come abbiamo detto, il nostro obiettivo di fase è la costruzione di un polo politico autonomo della sinistra di alternativa. Proponiamo quindi a tutti coloro che fanno parte della Federazione della Sinistra di agire in questa direzione e di operare affinché la Federazione possa essere strumento utile a questo obiettivo.
La Federazione, così come essa oggi è, non rappresenta certo la tappa conclusiva dell’aggregazione della sinistra di alternativa. Siamo perfettamente consapevoli di tutti i limiti della Federazione: di funzionamento, di radicamento sui territori, di democrazia e relativi alle diversità politiche che l’attraversano. Così come riconosciamo le nostre responsabilità a proposito. Ci è ben chiaro che larga parte degli uomini e delle donne di sinistra così come moltissime soggettività che si pongono il problema di costruire una sinistra di alternativa oggi in Italia non fanno parte della Federazione della Sinistra. Anche per questo ci poniamo l’obiettivo di allargare la Federazione, qualificandone il lavoro politico e democratizzandone il funzionamento.
Oggi non c’è nel Paese una realtà sociale passivizzata, di questo ci parlano le tante mobilitazioni dell’anno in corso, tuttavia c’è una realtà sociale assai distante dalla sinistra politica. Nei corpi intermedi della società, sindacati, associazioni, centri sociali, volontariato, come in quelle di movimento, realtà di fabbrica, studenti, precari, operatori della cultura dell’arte e dello spettacolo, c’è il deposito di resistenze e di insorgenze. Qui vive un patrimonio di esperienze e saperi che parla le lingue della sinistra, senza tuttavia riconoscerla come utile per sé. Proponiamo che la Federazione cammini con questa umanità, muova i propri passi mettendo a disposizione uno spazio politico comune che ognuno e ognuna possa attraversare riconoscendolo come proprio. Fondamento di questa possibilità dev’essere la certezza della democrazia e del rapporto paritario tra tutti coloro vogliano far parte della federazione.
Riteniamo infatti che il tema dell’unità a sinistra oggi, lungi dal declinarsi nella forma dei nuovi partiti – che si risolvono in nuove scissioni – trovano a nostro parere nella forma federativa il suo punto più avanzato. La forma della federazione permette di mettere in comune la sostanza delle cose che ci uniscono evitando di riprodurre laceranti divisioni o addirittura scissioni sulle cose che ci dividono.
Riteniamo quindi necessario operare per superare i limiti della Federazione, a partire dal suo funzionamento democratico a tutti i livelli, al fine di realizzare il comune obiettivo che ci siamo dati nel suo congresso costitutivo. In quella sede abbiamo infatti deciso che: “E’ un soggetto politico e sociale che vive e trae alimento dalle risorse ideali e umane delle diverse soggettività politiche che costituiscono la Federazione, senza presupporre ne implicare lo scioglimenti dei partiti esistenti e delle associazioni che decidono di farne parte, superando i limiti già verificati della dinamica scioglimento dei partiti esistenti – costituzione dei nuovi partiti”. In particolare dobbiamo dare corso fino in fondo alla decisione espressa nel documento congressuale che recita “la Federazione della Sinistra decide di presentarsi unitariamente, come soggetto politico, con il proprio simbolo, alle elezioni a tutti i livelli, sulla base della ispirazione e del programma condivisi, e di assumere democraticamente, in modo vincolante per tute e tutti, le decisioni relative alla partecipazione elettorale e le regole per la vita delle proprie rappresentanze istituzionali”.
A partire dall’impegno nella costruzione e del miglioramento della Federazione, siamo quindi perfettamente consapevoli che il tema della costruzione di un soggetto politico della sinistra di alternativa, non è oggi un dato acquisito, ma sta davanti a noi come compito politico di fase. Non solo, siamo consapevoli che, le esperienze di governo prima e le scissioni poi, hanno pesantemente indebolito il nostro progetto. La proposta politica di Rifondazione Comunista si articola quindi su più piani e con una pluralità di interlocutori, proprio con l’obiettivo di costruire un movimento e un soggettività politica anticapitalista in grado di porre concretamente il tema dell’uscita a sinistra dalla crisi.
RIFONDAZIONE COMUNISTA
Il programma
Il programma non può che essere per noi un terreno di ricerca aperto, la cui definizione va oltre questo congresso. Aperto al rapporto con tutte le soggettività sociali e di movimento poiché non esiste rivendicazione e obiettivo che possa vivere se non si incarna in movimenti e conflitti reali e nella ricostruzione di un nuovo spazio pubblico. Aperto all’interlocuzione con i saperi, che vivono tanto nei luoghi istituzionalmente deputati alla produzione di conoscenza quanto in quella crescita dei saperi sociali diffusi, che è risorsa indispensabile per il cambiamento. Aperto al confronto a sinistra perché la nostra proposta politica ha come elemento centrale la ricostruzione di un polo della sinistra di alternativa capace di essere massa critica sufficiente a determinare un’altra agenda della politica.

La funzione che assegniamo a questa ricerca ha l’obiettivo di mettere in connessione la necessità di dare risposta alle contraddizioni sempre più drammatiche della crisi del capitalismo globalizzato nella riattualizzazione di un’alternativa di sistema, con l’individuazione della parole d’ordine capaci di rompere qui ed ora il senso di impotenza che rischia di essere l’elemento sovradeterminante. Sia per la “naturalizzazione” della lettura della crisi che i poteri forti e l’apparato mass-mediatico continuamente ripropongono, sia per i meccanismi messi in campo a livello europeo che nel rimando di responsabilità tra tecnocrazie europee e stati nazionali, rendono difficile l’individuazione di una controparte in grado si assumere decisioni cogenti, mentre sono ancora embrionali le lotte a livello continentale.
Quel livello europeo che noi riteniamo decisivo, quello su cui si giocherà la vera partita politica. Il terreno europeo, la costruzione di un efficace partito della Sinistra Europea non è quindi per noi questione di politica estera ma punto decisivo della possibilità di costruire una risposta da sinistra alla crisi costituente del capitale.


Una piattaforma per uscire a sinistra dalla crisi

Le proposte che avanziamo sul terreno economico e sociale si muovono su quattro assi fondamentali. Si tratta di mettere in campo politiche:
- di regolazione per contrastare la speculazione finanziaria, sia con provvedimenti che abbiano un’immediata efficacia, sia agendo sui meccanismi che hanno consentito lo sviluppo dei processi di finanziarizzazione.-
- redistributive: che attraverso la leva fiscale consentano di invertire la crescita drammatica delle sperequazioni sociali e territoriali, che salvaguardino i diritti sociali e promuovano una riforma universalistica del welfare.
- di riqualificazione e riconversione delle produzioni, finalizzate alla piena occupazione, alla produzione pubblica di beni collettivi, alla salvaguardia dell’ambiente in una nuova alleanza tra lavoro e natura.
- di contrasto della precarietà e per i diritti del lavoro.

L’EUROPA
L’Europa è il terreno sovranazionale indispensabile nel quale realizzare scelte di politiche economiche,finanziarie e sociali alternative alle politiche neoliberiste. Ciò è necessario sia per ridefinire il ruolo dell’Europa nella internazionalizzazione dell’economia sia per cambiarne radicalmente le politiche monetariste e neoliberiste, che tendono a distruggere l’unità europea o attraverso la definizione di una Europa a due velocità o di una vera e propria implosione dell’euro. Si tratta perciò di porre l’obiettivo della “rifondazione democratica dell’Europa” a partire dalla costruzione dell’Europa politica e sociale e dal ruolo di guida delle sue istituzioni sulle scelte finanziarie della BCE, per la costruzione di regole contro la speculazione finanziaria,di realizzazione di un sistema: fiscale,di welfare , di diritti contrattuali del lavoro omogenei, contro ogni forma di dumping sociale e fiscale. Va quindi rilanciato e reso più efficace il Partito della Sinistra Europea, ridefinita una sua piattaforma con la quale contribuire alla costruzione ed unificazione delle lotte indispensabili a far vivere questi obbiettivi, e per questo avanziamo alcune proposte:
1) Modifica dei trattati di Maastricht e dello Statuto della BCE trasformandola in una Banca Centrale sottoposta alle direttive del Parlamento Europeo e avente come obbiettivi istituzionali la piena occupazione e il finanziamento dei Fondi Comunitari e degli Stati membri,attraverso l’acquisto diretto dei titolo di Stato.
2) Pesante tassazione comunitaria sulle transazioni finanziarie speculative, introduzione della Tobin Tax, adozione di un comune sistema fiscale, a partire dall’abolizione dei paradisi fiscali, definizione di una comune politica economica finalizzata alla piena occupazione e alla riconversione ambientale e sociale dell’economia. Misure di contrasto alle delocalizzazioni produttive.
3) Messa in discussione degli accordi GATT e WTO con la ricontrattazione dei dazi per quanto riguarda le merci e introduzione del “labour standard” per la loro circolazione.
4) Introduzione di una regolamentazione dei mercati finanziari attraverso: a) l’istituzione di una autorità sovranazionale di regolazione dei mercati finanziari(che vigili su derivati, hedge funds, private equità, merchant bank, ecc.), b) la limitazione dell’effetto leva di ciascun operatore (non superiore a 10 volte il valore del patrimonio in gestione) e le posizioni dei singoli operatori su uno specifico sottostante, c) l’inserimento di un tetto alle forme di incentivazione alla vendita di prodotti finanziari per dirigenti, quadri e operatori del settore del credito e della finanza, d) l’introduzione dell’obbligo di trasparenza, verso la clientela, di tutte le forme di incentivazione extra-contrattuale per la compravendita di prodotti finanziari e di credito( mutui, fondi, obbligazioni, ecc.) e) la revisione dei criteri per la concessione del credito alle piccole e medie imprese e alle imprese sociali (revisione di Basilea 3) .
5) Contro l’Europa della BCE e dell’asse franco – tedesco perseguiamo la costruzione di un’area euro-mediterranea che sposti l’asse delle politiche europee verso il Mediterraneo facendo di quest’ultimo un luogo di formazione di relazioni solidali sul piano economico, culturale e civile.
1)Contrastare la speculazione e la finanziarizzazione.
Se la misura più efficace per contrastare la speculazione nell’immediato passa dall’acquisto da parte della BCE di titoli di stato direttamente da parte degli stati membri, sul piano nazionale vietare la vendita di titoli allo scoperto, come altri paesi a partire dalla Germania hanno fatto, consentirebbe di porre un freno ai meccanismi puramente speculativi. Sono necessarie inoltre una serie di altre misure che intervengano sui meccanismi che hanno consentito lo sviluppo dei processi di finanziarizzaione. Dal ripristino del principio di separazione tra banche di deposito e banche di investimento, dall’applicazione immediata delle regole di Basilea 3, al divieto di gestione fuori bilancio di qualsiasi titolo, alla costituzione di un polo pubblico del credito, sia trasformando la Cassa Depositi e Prestiti in una banca pubblica, sia attraverso la nazionalizzazione delle banche di interesse nazionale, come nodo decisivo per riacquisire la capacità di indirizzare gli investimenti.
Vanno infine introdotti meccanismi che scoraggino l’accesso del piccolo risparmio e delle risorse previdenziali dei lavoratori al mercato finanziario. Per questo proponiamo la costituzione presso l’INPS di un fondo pubblico per la gestione delle pensioni integrative, fiscalmente conveniente.
Non è eludibile infine il nodo del che fare, nel caso in cui le proposte che avanziamo sul piano europeo, in particolare in relazione alla BCE non dovessero trovare spazio, e continuassero gli attacchi speculativi all’Italia. In questo caso l’Italia deve ristrutturare il debito, garantendo per intero i piccoli risparmiatori e allungando unilateralmente i tempi di restituzione e la definizione delle cifre da restituire alle grandi finanziarie, cioè agli speculatori. Anche se nessuno ne parla, l’Islanda lo ha fatto con ottimi risultati.

2) Per politiche industriali pubbliche, per il contrasto delle delocalizzazioni.
L’eliminazione dei vincoli alla libera circolazione dei capitali e i processi di finanziarizzazione, hanno avuto una pesante ricaduta sui processi produttivi. I principali soggetti finanziari - fondi pensione e di investimento, assicurazioni - sono proprietari oggi del 55% del capitale di tutte le società quotate in borsa nel mondo, e pretendono rendimenti annui del capitale di almeno il 15%, quattro-cinque volte superiori alla crescita del PIL mondiale. Il neoliberismo predatorio è all’origine delle esternalizzazioni, delle “catene lunghe” delle produzioni, dei processi di delocalizzazione, per massimizzare i profitti a breve. Quei processi che hanno agito un ricatto pesantissimo sui lavoratori e i sindacati, riassunti nello spostamento massiccio di ricchezza dal lavoro ai profitti e alle rendite: 10 punti di Pil come media nei paesi OCSE, 15 in Italia, il paese che insieme a Irlanda e Giappone presenta le peggiori dinamiche. La situazione italiana per i processi politici e sociali che abbiamo analizzato, presenta dunque un quadro negativo nel confronto con altri paesi europei. Aziende mediamente più piccole del 40% rispetto all’Europa, investimenti diminuiti negli ultimi trent’ani di quasi il 40% in rapporto alla crescita dei profitti, mentre la ricchezza prodotta si trasferiva nei compensi dei grandi manager e alle rendite (+87% dal ’90 al 2009), produzione ad alto contenuto teconologico più bassa del 75% di quella media delle imprese europee. Emblematica l’importazione del 98% dei pannelli solari dall’estero. A fronte di salari tra i più bassi in Europa e nei paesi Ocse - scesi in un ventennio dal 4° al 23° posto- e orari di lavoro tra i più lunghi. Contrastare le delocalizzazioni, pretendendo dalle imprese che delocalizzano la restituzione dei contributi e delle agevolazioni pubbliche ricevute, è uno dei nostri impegni. Come lo è mettere in campo un nuovo intervento pubblico sul terreno delle politiche industriali, che veda definita la sua missione in un piano di riqualificazione e riconversione dell’economia: che promuova la “filiera corta” delle produzioni, dentro un modello di pubblico fondato sul protagonismo delle comunità, dei lavoratori, dei cittadini sulle scelte di fondo di “cosa, come, per chi produrre”.

3) Un piano per il lavoro, l’ambiente, la conoscenza, la cultura. Tagliare le spese militari, le grandi opere, i privilegi della politica.
Riconvertire il nostro modello di sviluppo significa lavorare da subito per contrastare scelte profondamente regressive che si stanno facendo e proporre una destinazione alternativa delle risorse, che dia risposta alle contraddizione più aspre, ai bisogni sociali inevasi.
La crisi climatica ed energetica domandano un immediato intervento sul risparmio energetico, le fonti rinnovabili, un diverso modello di mobilità. Destinare a questi interventi prioritari le risorse ingentissime previste per opere dannose e inutili come la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo stretto significa tenere insieme la salvaguardia dell’ambiente, una nuova politica industriale e un grande piano per l’occupazione. Con la possibilità di creare in questi soli settori, almeno mezzo milione di posti di lavoro, secondo le stime più prudenti. Tagliare le spese militari, dagli F35 agli organici di un esercito in cui i graduati sono più dei soldati semplici, la fine delle guerre in Afghanistan e in Libia, incrociano sia la lotta per la pace che quella una ridestinazione delle risorse in un paese che è terzo in Europa per spesa militare pro-capite e ventunesimo per spesa per l’istruzione. Così come il taglio dei privilegi della politica, degli stipendi dei parlamentari e dei consiglieri regionali, degli enti inutili e delle consulenze d’oro, è connesso per noi al blocco dei processi di smantellamento della funzione pubblica, a partire dalla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione.
Il nostro impegno è quello di costruire l’opposizione alla nuova ondata di privatizzazioni che l’Euro Plus Pact e il governo Berlusconi vorrebbero imporci. Per un’altra idea dello sviluppo: un piano costruito nelle lotte, nella messa in connessione dei saperi sociali per il lavoro, l’ambiente, la conoscenza.

4) Contro la precarietà, per i diritti del lavoro. No all’articolo 8, al Collegato Lavoro, alla legge 30, alla Bossi-Fini.
Bassi salari, alta precarietà sono stati la risposta all’entrata dell'Italia nell’euro, invece della riqualificazione dell’apparato produttivo. Non essendo più possibile la svalutazione della lira si è scelta la via della svalorizzazione del lavoro. L’esito è stato quello della crescente marginalizzazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro. Oggi quella strada viene riproposta con un radicale salto di qualità, dall’articolo 8 al Collegato Lavoro, nella volontà distruggere la contrattazione collettiva e l’insieme dei diritti del lavoro. La crescita della disoccupazione nella crisi va di pari passa con la crescita della la quota di lavoro precario, ormai l’80 per cento dei nuovi assunti. Siamo tra gli ultimi in Europa per occupazione femminile, tra i primi per disoccupazione giovanile. Donne, migranti, precari, si trovano costantemente nelle mansioni meno qualificate e con i salari più bassi. Alle forme flessibili del lavoro a termine e interinale, si aggiunge la platea del falso lavoro autonomo, delle collaborazione e delle partite IVA.
La ricomposizione del mondo del lavoro è per noi una priorità. Il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma ordinaria del rapporto di lavoro. Per questo va rilanciato il contrasto alla legge 30, va superata la distinzione fittizia tra lavoro subordinato e parasubordinato, vanno introdotti limiti all’utilizzo dei contratti a termine, va introdotto un salario orario minimo da definire con riferimento ai minimi contrattuali. Va istitituito un reddito sociale, per disoccupati e inoccupati, come elemento decisivo del contrasto alla precarietà. Va rilanciata l’iniziativa contro la Bossi-Fini.
Mentre sosteniamo tutte le iniziative che sul piano sindacale si pongono l’obiettivo di difendere la libertà dei lavoratori, la piena agibilità del diritto di sciopero, la costrattazione collettiva contro le deroghe, a partire dalla necessità assoluta di cancellare l’articolo 8, torniamo ad avanzare la proposta di costruire una stagione referendaria contro la precarietà del lavoro.

5) Redistribuire la ricchezza: un’imposta sui grandi patrimoni per la difesa e la riforma universalistica del welfare.
I processi di ristrutturazione del sistema produttiva e la precarizzazione dei lavoro, combinati con la radicale iniquità del sistema fiscale, hanno portato ad una crescita delle disuguaglianze particolarmente accentuata nella società italiana. Mentre calava analogamente a quanto avvenuto in tutto l’occidente, la tassazione sulle imprese è aumentata in maniera particolarmente pesante quella sul lavoro e sulle pensioni. In aggiunta al blocco della legge che prevedeva la restituzione del fiscal drag.
L’Italia si caratterizza inoltre per due anomalie in negativo rispetto al resto d’Europa: -Un’evasione fiscale doppia rispetto a Francia e Germania e quadrupla rispetto a Austria e Olanda, con appena il 52% delle imprese che dichiara bilanci in attivo, mentre il 90% ricorre alle elusione fiscale attraverso l’utilizzo della filiera societaria. Se l’evasione fosse nella media OCSE il rapporto deficit/PIL sarebbe fra l’80/90%.
-La diminuzione negli ultimi 15 anni della tassazione sui patrimoni, all’opposto di quanto avvenuto nei principali paesi europei.
In conseguenza di questi proocessi, della diminuzione costante della spesa pubblica per il welfare, l’Italia ha visto crescere più degli altri paesi le disuguaglianze. Se i dati sullla distribuzione del reddito sono già particolarmente iniqui, quelli sul patrimonio sono scandalosi. Il 10% più ricco della popolazione possiede il 45% della ricchezza immobiliare e finanziaria complessiva, mentre il 50% più povero non ne possiede che il 9,8%. L’1% delle famiglie, quelle ricchissime, detiene una quota di patrimonio (il 13%) uguale a quella posseduta dal 60% delle famiglie meno abbienti.
Istiuire un’imposta ordinaria sui grandi patrimoni sopra il milione di euro è una misura di giustizia sociale elementare, che potrebbe dare risorse per 20 miliardi annui. Come lo è una reale lotta all’evasione fiscale, che recuperi ogni anno almeno un decimo del gettito evaso.
Per diminuire il carico fiscale su salari e pensioni, istituire il reddito sociale, rafforzare il welfare a partire dal diritto all’abitare e dalle politiche per la non autosufficienza. L’opposizione a qualsiasi ulteriore intervento peggiorativo in materia previdenziale, la rivendicazione di meccanismi che garantiscano il diritto alla pensione per le lavoratrici e i lavoratori precari, va insieme per noi alla lotta per la difesa e la rifoma universalistica del welfare.

qui
-SUD

Diritti Civili

La piena libertà di scelta individuale del proprio orientamento sessuale, che è fatto di piena rilevanza sociale, è parte costitutiva della nostra idea della trasformazione sociale. Nel nostro paese si registrano gravi discriminazioni in relazione all’orientamento sessuale, nella vita sociale, nell’accesso al lavoro e al welfare.
Il movimento LGBTQI si batte per l'emancipazione e la liberazione delle donne e degli uomini, non solo dei gay, delle lesbiche, delle e dei trans. Un mondo e un Paese liberati dalle discriminazioni, dalle ingerenze vaticane, dall'oscurantismo che non è solo religioso, è un mondo più libero per tutte e tutti, eterosessuali compresi. Un movimento che è antifascista, che si batte per una società laica e contro le derive securitarie degli Stati e dei Governi. Un movimento di cui siamo parte, orgogliosamente, e le cui proposte e rivendicazioni sono imprenscindibili punti del nostro programma.
Riteniamo quindi indispensabili:
• il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto e delle differenti forme di relazione, per distruggere l'idea che ci siano cittadine/i di serie A e di serie B;
• il contrasto a tutte le forme di omofobia e transfobia, attraverso mirate legislazioni ma anche attraverso la diffusione di modelli sociali e culturali “altri”;
• l'abrogazione della legge 40, che ha inteso legiferare sul corpo delle donne,
• la depatologizzazione della transessualità
• il contrasto alle ideologie familiste e alle conseguenti legislazioni che producono emarginazione;
• una legislazione che introduca norme attive contro ogni forma di discriminazione fondata sul genere e sull'orientamento sessuale;
La società che vogliamo, l'altra umanità a cui vogliamo “dare vita”, parte anche da qui

Pacifismo e questioni internazionali
Come abbiamo scritto, le nostre proposte non possono che avere un respiro internazionale.
Ciò è vero, a maggior ragione, per quelle che avanziamo sul terreno preciso dello scenario mondiale, della lotta contro la guerra, per la pace e per l’avanzamento su scala planetaria delle ragioni dei popoli, dell’eguaglianza e della giustizia sociale e della cooperazione solidale.
Il primo punto all’ordine del giorno è la costruzione del più vasto movimento per la pace, contro tutte le guerre e le politiche degli Stati che le producono e le determinano. Nello specifico, dobbiamo rilanciare in Italia un ampio movimento contro la partecipazione italiana alle guerre – a cominciare dall’Afganistan e dalla Libia - che ponga al centro la necessità di una soluzione politica e negoziata dei conflitti.
Parallelamente proponiamo un programma di disarmo attraverso la drastica diminuzione delle spese militari, l’annullamento dei programmi di riarmo (a partire dal più recente, relativo all’acquisto dei cacciabombardieri F-35), il ritiro dei militari italiani dall’Afganistan, la chiusura delle basi Nato e statunitensi presenti sul territorio nazionale.
La lotta contro la guerra e l’imperialismo implica la lotta per la pace e quindi il sostegno – culturale e politico – alle esperienze di resistenza al modello neo-liberista incamminate, ciascuna con la propria specificità, verso prospettive di carattere socialista. In particolare, ribadiamo la nostra solidarietà a Cuba e il nostro sostegno a qualunque iniziativa atta a rimuovere il criminale embargo a cui è sottoposta da cinquant’anni e il nostro impegno a fianco del governo cubano nella richiesta presso la comunità internazionale della scarcerazione dei Cinque patrioti detenuti illegalmente negli Stati Uniti dal 1998.
Allo stesso tempo, riteniamo determinante che si costruiscano anche nel nostro Paese una attenzione profonda e una solidarietà attiva nei confronti di quei popoli che – nella stessa area del Mediterraneo – subiscono da decenni violenze e discriminazioni intollerabili.
Rifondazione Comunista sostiene la lotta del popolo kurdo, contro le politiche vessatorie e repressive del governo turco e chiede l’immediata scarcerazione di Abdullah Ocalan, come prima azione concreta che possa favorire un processo di pace e la soluzione politica del conflitto.
Rifondazione Comunista sostiene la lotta del popolo Sahrawi e del Fronte Polisario e condanna in maniera inequivoca la pretesa del governo marocchino di risolvere con la repressione il contenzioso. La soluzione del conflitto è possibile soltanto nel rispetto di quanto sancito in sede Onu e cioè con il riconoscimento del diritto del popolo Sahrawi all’autodeterminazione.
Rifondazione comunista sostiene infine la lotta del popolo palestinese per la libertà e l’autodeterminazione, nella convinzione che soltanto una soluzione equa e giusta del conflitto israelo-palestinese, basata sulla parola d’ordine dei “Due popoli per due Stati”, potrà aprire scenari di pace nel futuro del Mediterraneo. In quest’ottica sosteniamo la richiesta avanzata dall’Anp alle Nazioni Unite del riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese. Esprimiamo il nostro sostegno alle campagne internazionali fondate sulla condanna delle politiche del governo israeliano, della sua opera di colonizzazione dei territori palestinesi determinati dai confini del 1967, della vergogna del Muro, dell’espulsione dei palestinesi da Gerusalemme, dell’embargo e della guerra nella Striscia di Gaza. Sosteniamo le forze progressiste e democratiche che in Israele si battono per la fine dell’occupazione e le azioni e le campagne internazionali, a partire dalla campagna di BDS sostenuta dalla società civile palestinese, che nascono sul terreno della resistenza non violenta all’occupazione israeliana.
Per dare più forza a queste proposte, Rifondazione Comunista si impegna a lavorare, di concerto con le altre forze della Sinistra Europea, per l’organizzazione del prossimo Forum sociale dell’area euro-mediterranea, allo scopo di ricostruire una prospettiva comune tra le forze della sinistra e i movimenti sociali delle due sponde del Mediterraneo, necessaria anche per determinare in senso progressivo l’esito delle rivolte che si sono prodotte nei mesi scorsi.
Una rivoluzione democratica per uscire dalla crisi.

Mai come in questo momento affrontare il nodo della democrazia, non è altra cosa da
una piattaforma per uscire dalla crisi, a sinistra. Opporsi al tentativo di smantellamento dei diritti del lavoro, alla volontà di cancellazione dell’articolo 41, alla follia della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, significa riaffermare il carattere progressivo del conflitto sociale, gli obiettivi di uguaglianza e libertà che sono lettera e sostanza della Carta Costituzionale. Significa opporsi a quel sofisticato ed esteso attacco al complessivo impianto costituzionale, che è passato, anche a sinistra, attraverso la concezione della “democrazia governante” che ha imposto il sistema bipolare maggioritario, alluso al sistema presidenziale, affievolito gli istituti di controllo e critica del potere, puntato a rendere il Parlamento un superfluo orpello .
Significa rilanciare la democrazia conflittuale e organizzata che si fondi sul protagonismo quotidiano, su strutture di partecipazione autonoma, sull’autogestione.

Una testa, un voto: per un sistema elettorale proporzionale.
Il maggioritario e il bipolarismo non sono solo un modello istituzionale, sono un modello di società. Lo hanno capito gli Indignados in Spagna, lo dobbiamo affermare con forza nel nostro paese. Il meccanismo maggioritario, il premio nazionale o di collegio che sia, che scatta se una coalizione ha una manciata di voti in più dell’altra, ha costretto in questi anni la politica dentro coalizione forzose, in cui la logica del “meno peggio” era sostanzialmente obbligata, in cui la politica è stata ridotta ad una logica binaria. E’ il ricatto che ha distrutto la possibilità di ricostruzione di una sinistra autonoma in questo paese, libera di allearsi se ce ne sono le condizioni, ma anche di non farlo se non esiste la possibilità di un compromesso progressivo.. E’ il teorema della conquista dell’elettore “mediano” quello in bilico tra i due schieramenti, che vale doppio perché è strappata all’avversario, che ha prodotto l’omologazione di programmi e contenuti della proposta politica. E’ il sistema che ha consentito che la destra avesse maggioranze assolute in Parlamento, anche se non le aveva nel paese E’ la propaganda falsificante dell’elettore che “sceglie il governo” per occultare la realtà: quella della blindatura dai processi e dai conflitti sociali, degli esecutivi, a cui si concede per cinque anni una delega totale. E’ la negazione del principio elementare della democrazia “una testa un voto” giacchè quel principio prevede che i voti contino tutti nello stesso modo. Il proporzionale è la liberazione della politica e della società dalla camicia di forza che gli è stata imposta in questi anni.

Una testa, un voto nei luoghi di lavoro. Per il voto vincolante su piattaforme e accordi.
Rompere la delega, significa intrecciare il ripristino del principio della rappresentanza dentro le istituzioni, con la riappropriazione sociale di poteri e decisioni. E’ nostro obiettivo prioritario, quello di una legge sulla democrazia nei luoghi di lavoro, che sancisca il potere vincolante delle lavoratrici e dei lavoratori su piattaforme e accordi, attraverso il voto segreto. Non si tratta di una questione sindacale, ma di un tema decisivo dello statuto della democrazia di un paese. La potestà di pronunciarsi sulle condizioni di lavoro, il salario, gli orari e i ritmi, su quanto determina una parte decisiva della propria vita, è un nodo ineludibile della ricostruzione della soggettività del lavoro ed insieme della rottura dei processi di passivizzazione sociale, di affidamento al leader salvifico come contraltare della propria impotenza quotidiana. Serve una legge dunque, sul modello delle diverse proposte esistenti.

Per la democrazia partecipativa. Per un nuovo intreccio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta.
Rompere la delega significa costruire un nuovo intreccio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. La nostra proposta di “primarie di programma” vuole costruire processi di coinvolgimento e protagonismo popolare, in grado di stabilire vincoli politici su contenuti qualificanti, al mandato che si conferisce nel momento delle elezioni. E’ un nodo che riguarda l’autoriforma della politica e dei partiti, che ne ridefinisce la funzione nella socializzazione delle decisioni più importanti. Come avviene per alcuni partiti della sinistra europea, che hanno affidato passaggi rilevantisimi, compresi quelli relativi alla propria collocazione istituzionale, oltre che alla costruzione della discussione dentro circoli e sezioni, ad assemblee popolari ed infine al pronunciamento diretto di militanti ed elettori attraverso il voto referendario E’ un nodo che riguarda la riforma delle istituzioni nello sviluppo della democrazia partecipativa, nel coinvolgimento diretto dell’associazionismo, dei movimenti, di singole e singoli, in un nuovo statuto della cittadinanza.

Per il diritto di voto alle migranti e ai migranti.
Una piattaforma per la democrazia deve comprendere la ripresa della campagna per il diritto di voto amministrativo di donne e uomini migranti e una riforma della cittadinanza che renda possibile il pieno esercizio dei diritti politici. L’esclusione dei migranti dal diritto di voto significa l’esclusione di una parte decisiva della nuova classe operaia dai diritti politici, in un sistema di sostanziale apartheid censitario. Ne è erosa la qualità complessiva della nostra democrazia.

Per la rottura del monopolio maschile dello spazio pubblico
Processi materiali e simbolici, particolarmente gravi nel nostro paese, concorrono a determinare lo spazio pubblico come sostanziale dominio maschile. E’ tempo di porre il tema di una legge che obblighi non solo a candidare, ma ad eleggere le donne secondo i principi della rappresentanza paritaria dei sessi, a tutti i livelli istituzionali. E’ una della vie da percorrere per modificare oltre che la politica, l’immaginario sociale.

Sono proposte tutt’altro che esaustive, accomunate però dalla volontà di ridare voce e potere ai soggetti e alle culture indispensabili per il cambiamento.
Coerenti con l’asse della nostra ricerca programmatica che si muove per noi sulla messa a tema del punto fondamentale: esiste un’alternativa al ricatto dei governi e delle finanze, rovesciando il punto di vista che vuole azzerare ogni prospettiva di riscatto politico e sociale usando la crisi come “vincolo esterno”. Esiste un’alternativa alla distruzione dei diritti del lavoro e del welfare, alla precarizzazione integrale del lavoro e della vita, all’ipertrofia delle politiche neoliberiste che la crisi l’hanno causata e che nella crisi vengono riproposte con un ulteriore regressivo salto di qualità. Esiste un’alternativa alla distruzione della democrazia costituzionale, alla trasformazione della statualità da potere di programmazione, coordinamento, regolazione delle attività economiche, in stato penale, che produce e reprime le marginalità sociali nel definitivo abbandono di ogni obiettivo di uguaglianza e libertà. Esiste un’alternativa al dominio maschile, che si rafforza dentro una crisi che nello smantellamento del welfare accentua piuttosto che superare la divisione sessuata del lavoro produttivo e riproduttivo, mentre le conquiste di libertà delle donne, sul terreno della sessualità e dell’autodeterminazione sono messe in discussione tanto dal disciplinamento neo-familista, quanto dalla reificazione mercatista dei corpi delle donne. Esiste un’alternativa al consumo onnivoro e alla mercificazione delle risorse, ad un modello di sviluppo che mette in discussione la riproducibilità della natura, e dunque il benessere e la stessa sopravvivenza della specie umana.

Il problema del programma è quello allora di cercare i nessi unitari tra i vari movimenti e conflitti, identificando nei diritti universali e in una nuova “confederalità dal basso” le leve di una difficile ma necessaria riunificazione. Evitando la doppia deriva dell’autonomia del politico e dell’autonomia del sociale, politicizzando invece il sociale e socializzando il politico; il che comporta che il ruolo primo di una soggettività organizzata alternativa è alimentare i conflitti, coordinare le lotte, accompagnarle nella costruzione di una uscita da sinistra dalla crisi.
Il Partito della Rifondazione Comunista
Dalle cose sin qui espresse risulta evidente che il Partito della Rifondazione Comunista ha un ruolo indispensabile nel progetto di aggregazione delle soggettività e nell’individuazione del progetto di costruzione dell’alternativa di società. Nel contempo le nostre forze sono insufficienti e da questo ne deriva che il nostro progetto politico non può esaurirsi nella crescita di rifondazione su se stessa. Per questo poniamo il tema dell’unità della sinistra di alternativa e della costituente dei beni comuni e del lavoro come punti fondanti del nostro progetto.
Questa insufficienza, a vent’anni dalla nascita, è evidente che segnala una situazione di crisi del nostro partito che è bene non sottovalutare al fine di poterla superare. L’assetto del partito è oggi più fragile. Merito fondamentale degli iscritti e delle iscritte, del quadro attivo è l’aver impedito la liquidazione dell’esperienza di Rifondazione Comunista. Ciononostante, dopo il Congresso di Chianciano, anche a seguito della scissione e al conseguente dimezzamento della consistenza numerica del partito, i problemi della vita interna non sono stati superati, il che ha determinato, accanto a realtà territoriali caratterizzate da una positiva ripresa del lavoro politico, situazioni di grave difficoltà.
Rifondazione Comunista si è opposta sin dalla sua nascita al processo di costruzione della seconda repubblica per come lo abbiamo sopra definito. Il primo ostacolo – oggettivo – che Rifondazione si è trovata ad affrontare è dato dalla modifica del contesto istituzionale. Il bipolarismo ha posto in questi anni rifondazione dinnanzi al tema delle alleanze con una pesantezza che ne ha condizionato fortemente il progetto politico.
A questa difficoltà oggettiva il partito non ha saputo fare fronte costruendo un percorso di elaborazione strategica e di radicamento sociale all’altezza della sfida. Così le singole scelte di volta in volta operate sul piano delle alleanze sono diventate laceranti e hanno determinato pesantemente la pratica del partito, la sua identità oltre che al sua immagine esterna. Da questo punto di vista, l’esperienza del governo Prodi è stato un fattore decisivo della crisi di Rifondazione ed ha determinato risposte divaricanti, che hanno portato ad una scissione molto rilevante.
Nel corso degli anni, questa centralità assorbente della tattica istituzionale si è sommata a fenomeni di deformazione leaderistica non dissimili dal contesto politico in cui ci siamo mossi e ad una discussione sull’innovazione politico culturale che non sempre ha avuto il necessario respiro strategico. Questi elementi hanno pesato non poco nel rafforzamento e nella cristallizzazione di correnti strutturate che costituiscono oggi un limite pesante nell’elaborazione politica e nell’azione del partito. Il correntismo esasperato, spesso si traduce in cordate in cui la fedeltà alla corrente e al capo corrente ha il sopravvento sul resto, mortificando competenze, entusiasmi, capacità di fare. Esso si è tradotto in molti territori in una lotta sorda per la conquista di posti di comando. Laddove si è determinato un compromesso, questo si è spesso tradotto in un equilibrio tra vertici di correnti, fondato sulla spartizione degli incarichi.
Occorre rompere il monopolio correntizio che attanaglia la vita di Rifondazione Comunista. Ciò non si fa, con la riduzione degli spazi di democrazia o in nome di una unità formale che spesso cela posizioni politiche divergenti e guerre intestine nei territori.
Aree culturali, tendenze, diversità non sono il male da distruggere, sono il sale del confronto in una forza in cui le compagne e i compagni sono “liberamente comuniste e comunisti”.
La democrazia è il punto fondamentale di svolta necessario e noi riteniamo che il Convegno di Carrara abbia tracciato le linee di autoriforma del partito. Si tratta di applicare quelle decisioni, che al contrario sono rimaste lettera morta in questi anni.
Il punto di fondo è che il tema della rifondazione comunista, a Vent’anni dalla nostra nascita, non è certo stato risolto positivamente. Si tratta allora oggi di impostare una “rifondazione di rifondazione”, che per essere tale chiede una discussione franca e unitaria e una direzione democratica e partecipata.
Ribadendo la nostra lotta strategica contro il bipolarismo, vogliamo costruire un partito che sappia vivere, discutere e svilupparsi senza essere sussunto da una centralità assorbente del piano istituzionale. Non perché questo non abbia una grande rilevanza politica – al contrario – ma perché se il bipolarismo costituisce una condizione istituzionale funzionale alla distruzione delle forze politiche antisistema, noi dobbiamo conquistare un grado di autonomia strategica dal bipolarismo che ci permetta di fare politica senza esserne fagocitati. Occorre quindi costruire consapevolmente un Partito della Rifondazione Comunista che non abbia nella discussione sui passaggi istituzionali il centro della sua vita politica. In questa prospettiva proponiamo di assumere la scelta di praticare il terreno della rappresentanza politica come Federazione della Sinistra e in prospettiva come aggregazione della sinistra di alternativa. Ovviamente il terreno della rappresentanza costruito come terreno unitario deve vedere la definizione e la pratica di regole chiare nella definizione degli indirizzi politici e del funzionamento delle rappresentanze istituzionali. Si tratta di applicare in modo rigoroso i regolamenti già varati e di farlo a partire dalle situazioni attualmente in essere.
Questa scelta ci chiede un deciso salto di qualità sugli altri terreni dell’azione politica, sulla base delle analisi e delle proposte che sviluppiamo in questo documento. Dalla prospettiva dell’alternativa di società declinata nella prima parte del documento, al progetto di uscita a sinistra dalla crisi, abbiamo riassunto i nostri compiti, in cui rifondazione deve agire consapevolmente come forza che lavora ad organizzare forze per questi obiettivi.
In primo luogo un partito che si faccia portatore di una critica dell’economia politica del capitalismo attuale e individui i concreti obiettivi di fase, costruendo una “narrazione” anticapitalista e comunista che sappia riallacciare i fili della memoria con il movimento operaio italiano, con il movimento altermondialista mondiale nella prospettiva del socialismo del XXI secolo.
Che ritessa il filo rosso dell’internazionalismo per il rafforzamento del Partito della Sinistra Europea e per la costruzione di un soggetto politico mondiale anticapitalista.
Che riprenda con forza il tema dell’antifascismo, inteso come ricerca e diffusione della conoscenza dei diversi fascismi per poter portare una seria azione di contrasto al revisionismo storico imperante e ai nuovi fenomeni di neofascismo e neonazismo e , più in generale, alle destre razziste e xenofobe. E’ un impegno già presente in sempre più numerose realtà giovanili, che si organizzano nell’ANPI ma anche e sempre più spesso, in circuiti, coordinamenti, reti a carattere territoriale, nei quali occorre rafforzare il nostro impegno militante.
Che rilanci la pratica dell’inchiesta operaia sul complesso delle soggettività che subiscono la crisi capitalistica, sui conflitti sociali, sulle ristrutturazioni in corso.
Che operi per lo sviluppo delle lotte e per la loro unificazione. Il tema della costruzione delle lotte è decisivo per lo sviluppo di una nuova soggettività antagonista. Altrettanto importante è il tema della connessione tra le lotte e della valorizzazione dei punti di vista dei diversi soggetti coinvolti. In nessun modo la centralità dello scontro tra capitale e lavoro – alla quale deve corrispondere il più marcato radicamento del partito nei luoghi del lavoro e del conflitto - può oggi essere declinata come irrilevanza della altre contraddizioni o peggio come se dal conflitto capitale lavoro sgorgasse una compiuta soggettività in grado di costruire l’alternativa di società. Solo una grande operazione politica e culturale di connessione e confronto tra le soggettività e le elaborazioni che emergono dalle diverse contraddizioni oggi determinate dalla crisi capitalistica, può dar luogo alla costruzione di una soggettività dell’alternativa. Per questo nel ribadire che lottiamo per il superamento del capitalismo e del patriarcato siamo impegnati nella costruzione di lotte su tutti i terreni in cui avviene sfruttamento o compressione delle libertà degli uomini e delle donne. In tal senso la democrazia di genere deve diventare elemento fondamentale della vita del partito e della sua gestione, nel riconoscimento del carattere sessuato dei soggetti. E' necessario aprire una riflessione su di noi. Ci impegniamo a realizzare un'inchiesta che attraversi il partito a tutti i suoi livelli, per comprendere le ragioni organizzative, politiche, culturali e simboliche, della gravissima asimmetria che segna la nostra composizione materiale. Per cercare le soluzioni alla nostra evidente incapacità di essere vissuti come strumento del protagonismo delle donne.
Che agisca per la costruzione di un tessuto di mutualismo e autorganizzazione sociale, che rappresenta un punto decisivo per l’aggregazione dei soggetti sociali frantumati dalla crisi e un punto fondamentale per la riconquista della nostra credibilità politica. La ricostruzione dei legami sociali di Rifondazione Comunista con la propria gente, dentro la crisi, è quindi un fondamentale obiettivo di fase e qualifica la nostra volontà di costruirci come partito di massa. Da questo punto di vista tutte le pratiche del partito sociale vanno allargate ed approfondite sino a diventare un fatto non solo culturalmente ma socialmente rilevante oltre che un fattore di identificazione della proposta comunista oggi. Il punto non è costruire il partito sociale dentro rifondazione ma il fatto che tutta rifondazione deve caratterizzarsi per le pratiche sociali. Anche perché l’attacco allo stato sociale e in generale alla redistribuzione del reddito è fortissimo. Così come le tendenze neocorporative a costruire vere e proprie forme di welfare aziendalistico e privatizzato. Noi dobbiamo affiancare alla lotta per la difesa di un welfare pubblico che garantisca l’universalismo dei diritti, forme di mutualismo e di autotutela dei soggetti colpiti dalla crisi. In questo senso, le pratiche del partito sociale, cioè l’autorganizzazione delle forme di tutela del quotidiano, sono parte costitutiva della pratica politica comunista oggi.
Che si adoperi per l’allargamento dei beni comuni e delle forme di democrazia diretta, partecipata, di genere.
Che sviluppi la Formazione el’Autoformazione legandola ad ogni momento della vita del Partito: dalle Feste del Tesseramento (con almeno una riflessione sul "Manifesto del Partito Comunista" rivolta ai/lle reclutati/e) fino a serie attività di studio e lettura collettiva del patrimonio storico e teorico della nostra tradizione, da lavori di valorizzazione della memoria e del sapere diffuso dei/elle nostri/e compagni/e più anziani/e fino a specifiche attività formative rivolte al "saper fare" dei nostri quadri dirigenti a tutti i livelli. Occorre connettere la formazione e l’autoformazione a momenti di dibattito, di diffusione di un sapere critico costruito nel concreto delle lotte, così come è successo nelle battaglie del movimento per l’acqua pubblica, nella lotta contro la TAV in Val di Susa e in molte altre lotte.
L'obiettivo ambizioso che ci dobbiamo porre è produrre una nuova leva di quadri comunisti capaci di "nuotare controcorrente" con propri autonomi strumenti nella crisi culturale, e ormai anche etica e antropologica, del capitalismo.

Particolare attenzione deve essere rivolta a tutti i livelli del partito a cominciare dal piano nazionale, alla questione dell’informazione. L’oscuramento mediatico che subiamo è certo frutto di una censura consapevole ma anche causato da gravissime lacune nell’organizzazione della nostra comunicazione. Accanto a Liberazione, a cui abbiamo dedicato grandi risorse e grandi attenzioni, nel tentativo di rilanciarlo, dobbiamo sviluppare fortemente la comunicazione su tutti i terreni, a partire dall’utilizzo della rete.
Un partito in grado quindi di fare una analisi critica del capitalismo oggi, di avere un progetto di trasformazione, di fare battaglia culturale, di organizzare lotte e strumenti di autorganizzazione sociale. Un partito intellettuale collettivo che si ponga l’obiettivo di aggregare le avanguardie di lotta presenti nei diversi movimenti e di essere punto di riferimento per il precariato intellettuale diffuso, portatore di saperi essenziali per il progetto di trasformazione.

Presentato dalla Segretria e sottoscritto dalla maggioranza dei componenti presenti al Cpn. L’elenco definitivo dei sottoscrittori sarà disponibile dopo il 3 ottobre, come previsto dal dispositivo approvato dal Cpn)

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