Partito
della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 23- 24 settembre 2011
VIII CONGRESSO – DOCUMENTO POLITICO N. 1
BOZZA PROVVISORIA (il testo ufficiale definitivo sarà disponibile
dal 3 ottobre e verrà pubblicato nell’inserto di Liberazione
del 9 ottobre)
La crisi del Capitalismo ha aperto un epoca di grandi sommovimenti.
Certezze che parevano consolidate sono messe in discussione. Non solo
il paesaggio sociale ma le stesse vite delle persone vengono scosse,
quando non travolte. La crisi del capitalismo, presentato dai cantori
del pensiero unico come un fenomeno naturale, non viene compresa a livello
di massa nelle sue caratteristiche strutturali e per questo produce
un forte senso di spaesamento e disorientamento. Per dirla con Gramsci,
siamo entrati in una fase di guerra di movimento e mai come oggi, il
pensiero di Marx, basato sulla “critica dell’economia politica”
si mostra attuale.
Proprio in questo grande sommovimento noi riteniamo si sia riaperta
la partita sul futuro dell’umanità. Dopo anni in cui il
capitalismo neoliberista è stato presentato – da destra
ma anche da sinistra – come la fine della storia, la grande crisi
ci parla del fallimento di un capitalismo che mostra appieno il suo
carattere distruttivo: dei diritti, dell’ambiente, delle vite
e delle relazioni così come ci parla del fallimento delle socialdemocrazie.
L’ideogramma cinese che rappresenta la parola crisi è composto
di due elementi, che significano rispettivamente pericolo e opportunità.
Questo documento è il nostro contributo al fine di battere i
pericoli e valorizzare le opportunità. Un contributo, che offriamo
ai soggetti sociali colpiti dalla crisi, alle aggregazioni che nella
società si battono per un cambiamento, alle forze della sinistra
e comuniste, per costruire un confronto finalizzato alla trasformazione
sociale. Un cambiamento della realtà in cui viviamo, per uscire
dal capitalismo in crisi e dal patriarcato, risolvendo positivamente
l’alternativa socialismo o barbarie che si ripresenta ai giorni
nostri ma anche un cambiamento nostro, perché molta è
la strada da fare.
Nel XX anniversario dalla nascita di Rifondazione Comunista, avanziamo
quindi analisi e proposte con l’obiettivo di dar vita ad una alternativa
di società, per costruire un movimento politico di massa contro
il capitalismo, l’uscita da sinistra dalla crisi e una sinistra
degna di questo nome.
ATTUALITA’ DEL COMUNISMO
Mai come oggi nella storia dell’umanità è stata
così evidente la contraddizione tra una diffusa domanda di libertà
e di giustizia e l’incapacità del sistema sociale di soddisfarla.
Questa distanza si va via via accentuando a causa della crisi strutturale
del capitalismo. Non solo il capitale non è in grado di dare
una risposta ai problemi del futuro dell’umanità ma sta
determinando una pesante regressione del grado di civiltà a cui
l’umanità era giunta. Questa regressione, lungi dall’essere
un incidente di percorso, è il frutto maturo del pieno dispiegarsi
della globalizzazione neoliberista. In presenza di sempre più
estesi bisogni sociali non soddisfatti, il capitale non solo non è
in grado di valorizzare le risorse disponibili e di garantire il lavoro
a tutti e tutte, ma distrugge l’ambiente e provoca guerre.
Rompere la gabbia dei rapporti sociali capitalistici è quindi
un’urgenza per l’umanità ed è ciò che
noi chiamiamo l’attualità del comunismo.
Questa urgenza oggettiva per l’umanità non è però
una consapevolezza di massa. Vi sono ragioni di fondo che spiegano questa
situazione contraddittoria, in primo luogo culturali.
Infatti, l’ideologia neoliberista, continua ad essere egemone
nonostante il fallimento del neoliberismo stesso. Il “pensiero
unico” in questi anni ha descritto il capitalismo e il neoliberismo
come un processo naturale, oggettivo. Questo convincimento è
oggi largamente diffuso pur in presenza di una palese fallimento del
sistema. Parallelamente, il fallimento delle socialdemocrazie e l’opera
di sistematica demolizione della prospettiva del comunismo - fatta in
questi anni appiattendo la storia del comunismo sullo stalinismo - ha
inciso a fondo nelle coscienze.
Ci troviamo quindi davanti ad una maturità oggettiva dell’uscita
dai rapporti sociali capitalistici e ad un immaginario collettivo colonizzato
da una ideologia che presenta il capitalismo come la “fine della
storia” e ogni alternativa socialista come barbarica, come un
ritorno indietro.
Nonostante questo, nel mondo, già alla fine degli anni 90, è
sorto un forte movimento contro il capitalismo neoliberista. Il movimento
alter mondialista è cresciuto notevolmente passando dalla contestazione
delle scelte globali capitalistiche alla costruzione di proposte alternative.
In diversi paesi dell’America Latina, dove le politiche neoliberiste
sono state applicate prima che altrove e dove le conseguenze sono state
più visibili, forti movimenti di lotta hanno avuto la capacità
di sconvolgere le relazioni politiche e di conquistare il governo. In
questi movimenti grande rilevanza ha avuto la riorganizzazione delle
comunità indigene, la loro concezione e pratica della partecipazione
e dell’autogestione, il rapporto con la terra, con la natura,
la lotta per la sovranità alimentare, la sostituzione, anche
in alcuni costituzioni come quella boliviana, del parametro del PIL
con la categoria del “buen vivir”. In diversi casi questi
governi hanno esplicitamente l’obiettivo di costruire una alternativa
basata sulla fuoriuscita dal capitalismo. Prevedono chiaramente, per
poterlo fare, di dover conquistare una dimensione sovranazionale capace
di resistere alle aggressioni economiche del sistema e a quelle politico-militari
degli USA. L’ALBA è solo un primo passo verso questa costruzione.
In tutti questi paesi si sono sviluppate forme di democrazia diretta
e dal basso, nel fuoco delle lotte, che in alcuni paesi hanno determinato
riforme costituzionali originali ed interessanti. In tutti questi paesi
i movimenti sociali, i partiti e gli stessi governi hanno prodotto forme
di relazione fra loro inedite altrove.
L’esempio latinoamericano ci dice quindi che, al fine di superare
la situazione contraddittoria in cui operiamo, è necessario costruire
un nuovo immaginario in grado di presentare la trasformazione radicale
dello stato di cose presenti, come una prospettiva auspicabile per i
soggetti che lottano per la libertà e la giustizia. E’
quello che noi chiamiamo processo della rifondazione comunista.
LA NECESSITA’ DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
Al fine di costruire un immaginario della trasformazione che esprima
fino in fondo l’essenza della nostra proposta politica, decisivo
è definire il rapporto con la nostra storia.
Come abbiamo già chiaramente detto in precedenti documenti congressuali,
il movimento comunista, ha alle spalle una storia lunga, anzi secolare,
che per molti aspetti coincide con i tanti tentativi di liberazione
umana che l'hanno percorsa, con le molte "scalate al cielo"
che sono state sperimentate da milioni di esseri umani. In questa molteplicità
di riferimenti, la Rivoluzione d'Ottobre mantiene un valore peculiare:
essa è stata uno spartiacque del XX secolo. Per la prima volta
nella storia le masse hanno preso in mano il loro destino. La Rivoluzione
d’ottobre ha permesso al popolo Russo di uscire da una situazione
di miseria, servaggio ed ignoranza inqualificabili. Ha modificato in
profondità gli equilibri del mondo, rompendo il monopolio planetario
del mercato capitalistico e influenzando l'intero corso rivoluzionario
del '900, fino alle liberazioni anticoloniali. Ha costretto le classi
dominanti dell'occidente capitalistico a compromessi significativi con
il movimento operaio. Ha contribuito in termini decisivi alla sconfitta
del nazifascismo.
Questi indiscutibili meriti politici e storici non hanno impedito il
profondo processo involutivo e degenerativo delle società postirivoluzionarie,
che è stato tra le cause principali del loro fallimento. Al di
là del necessario bilancio storico, politico e ideale che è
ancora largamente da compiere, in un lavoro di ricerca collettiva, è
proprio dalla dialettica tra la validità dell'ottobre e il fallimento
dei tentativi di transizione che emerge la necessità strategica
della rifondazione di un pensiero, di una pratica e di una politica
comunista.
Per questo il progetto della rifondazione comunista, di un'identità
comunista adeguata al XXI secolo, implica una rottura radicale con lo
stalinismo. Non proponiamo qui un'operazione di bilancio storico, ben
altrimenti impegnativa, ma di verità politica e di identità
teorica: la separazione dallo stalinismo è anche e soprattutto
la messa in causa di un paradigma della transizione, di una concezione
della politica, di una funzione del partito. Nel comunismo italiano,
la rottura è avvenuta, prevalentemente, in nome dei diritti della
persona e della necessità della democrazia rappresentativa: nel
nuovo movimento comunista queste ragioni devono essere sviluppate fino
in fondo, in nome della società nuova da costruire, della liberazione
del lavoro, del rifiuto della separatezza tra cittadino e Stato. In
questo senso si può essere portatori e portatrici credibili di
un'ipotesi rivoluzionaria e comunista solo in quanto essa si definisce
in radicale discontinuità rispetto all'esperienza del "socialismo
realizzato".
In questa eredità negativa, individuiamo, prima di tutto, l'idea
di un "campo socialista" - campo statuale - al quale sacrificare,
o subordinare, gli interessi strategici del movimento operaio mondiale:
una distorsione di prospettiva improponibile, anche e soprattutto per
il futuro. In secondo luogo, l'ossificazione dogmatica della teoria:
un sostituto autoritario e inefficace dell'analisi dei processi reali,
della metodologia dell'inchiesta, della verifica. Un terzo luogo una
centralità assorbente di uno sviluppo industriale centralizzato,
che ha prodotto un grande sviluppo economico ma contemporaneamente ha
riprodotto rapporti di produzione gerarchizzati e ha contribuito all’ulteriore
centralizzazione antidemocratica dello stato. Infine, e soprattutto,
la riduzione del socialismo a pur dimensione della conquista e della
gestione del potere politico e istituzionale, esterna ai luoghi del
lavoro e della produzione (e più in generale ai rapporti sociali),
coerente con un'ipotesi di gigantismo industrialista forzosamente guidato
dall'alto: ma, così come la conquista del potere può generare
dal suo stesso seno nuove e pesanti oppressioni, il produttivismo economicista
non libera il lavoro e non crea una nuova qualità della vita
In questo senso, lo stalinismo è anche stato un modello di sviluppo
subalterno all'idea di crescita quantitativa. E' da questo deficit -
non dal surplus - di socialismo che sono derivate la concezione (e la
pratica) totalizzante e dispotica del Partito, l'arbitrio incontrollabile
del leader, la cancellazione di ogni istanza democratica di base nell'organizzazione
e nella società, la fine della libertà sindacale, la riduzione
degli individui e delle persone ad appendici insignificanti della potere.
A partire da questi punti fermi noi riteniamo possibile costruire un
nuovo movimento comunista, che si ponga in sintonia con l’aspirazione
alla libertà e alla giustizia di larga parte dell’umanità.
Il comunismo a cui facciamo riferimento è un comunismo di società,
legato alla democratizzazione della vita quotidiana, al rispetto e alla
valorizzazione della dignità delle persone che porta con se il
ridisegno delle relazioni tra le persone e tra la società e la
natura. Noi riteniamo che oggi sia aperta questa possibilità
e questa necessità: la possibilità di liberare i rapporti
sociali dal loro involucro capitalistico e nel contempo la necessità
di fare questo per evitare la barbarie che la crisi del capitale produce.
Le linee fondamentali attorno a cui sviluppare la ricerca e il lavoro
politico, che proponiamo a partire dalla consapevolezza della parzialità
del nostro punto di vista dentro la globalizzazione, sono a nostro parere:
La dimensione internazionale. Occorre porre l’obiettivo dell’unità
dei lavoratori e di tutte le soggettività anticapitaliste in
un movimento mondiale. Senza questa dimensione la lotta e le stesse
elaborazioni e discussioni teoriche dei comunisti e della sinistra anticapitalista
nei singoli paesi sono destinate a non poter essere all’altezza
del compito che impone la globalizzazione capitalistica.
Il movimento dei movimenti ha costruito in questi anni una strada fatta
di relazioni paritarie e solidali. Si tratta di sviluppare questo indirizzo
nella costruzione del movimento ma anche in direzione di un ridisegno
democratico della cooperazione a livello internazionale, basato sulla
soluzione politica e negoziata delle controversie internazionali e dei
conflitti armati, sulla cooperazione paritaria e sulla gestione razionale
delle risorse scarse. Noi proponiamo un nuovo umanesimo, una prospettiva
solidale e cooperativa, contrapposta alla pratica dell’accaparramento
delle risorse finalizzata alla massimizzazione delle esportazioni, che
caratterizza la risposta alla crisi da parte delle classi dominanti.
La democratizzazione della vita quotidiana. Per noi non si tratta di
giustapporre al tema del comunismo quello della democrazia. Al contrario
riteniamo la democrazia elemento fondante della costruzione del movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente. Una piena democrazia formale
ma anche sostanziale e dunque di genere, nella consapevolezza che senza
democrazia non può esistere il comunismo.
Il neoliberismo tende a ridurre la democrazia ad un simulacro privo
di poteri reali. Rilanciare le democrazia significa anzitutto che il
complesso delle scelte economiche più rilevanti deve essere deciso
democraticamente. Significa superare la proprietà privata dei
mezzi di produzione e determinare la proprietà e il controllo
sociale della produzione. Parimenti lo stato deve riprendere la signoria
sulla moneta, le banche di interesse nazionale devono essere nazionalizzate
e sottoposte a controllo democratico.
La democrazia di cui parliamo deve evidentemente garantire la formazione
libera, critica e consapevole degli orientamenti politici e permettere
la piena espressione degli orientamenti politici attraverso un sistema
elettorale proporzionale e lo sviluppo della democrazia partecipata
a tutti i livelli di gestione della cosa pubblica: dalle città
alle imprese al welfare. L’intreccio tra democrazia diretta, democrazia
partecipata, democrazia di genere e democrazia rappresentativa, la piena
democratizzazione del sistema informativo e il pieno accesso ai saperi
sociali, definiscono quella “democratizzazione della vita quotidiana”
a cui puntiamo.
La socializzazione dei mezzi di produzione e la riconversione ambientale
e sociale dell’economia. La democrazia sostanziale, per essere
tale, deve essere intrecciata con la socializzazione dei mezzi di produzione
che presuppone la gestione democratica dell’intervento pubblico
in economia, del credito e degli investimenti, la piena sovranità
dello stato sulla moneta. Queste modifiche strutturali sono necessarie
al fine di porre il diritto al lavoro e la liberazione del lavoro quale
fondamento di ogni diritto in un quadro di riconversione ambientale
e sociale dell’economia.
Il diritto al lavoro non si traduce per noi nell’obiettivo della
crescita del PIL. Lo sviluppo sociale a cui tendiamo non può
essere misurato in termini di crescita economica. Sia perché
il PIL misura in modo assai distorto la quantità e la qualità
dei bisogni che vengono soddisfatti in una società, sia perché
riteniamo necessario fare i conti fino in fondo con la limitatezza delle
risorse. Riteniamo infatti che l’obiettivo di una crescita economica
illimitata ed indiscriminata sia distruttivo di un corretto rapporto
tra società e natura e non sia desiderabile sul piano sociale.
Si tratta in generale di dar vita ad un sistema produttivo basato sul
riciclo dei rifiuti, sul risparmio energetico, sulla sostituzione delle
produzioni nocive, in un quadro di mobilità sostenibile, di riassetto
idrogeologico del territorio, di sviluppo equilibrato nel rapporto città
– campagna, ecc.
Per noi il tema del diritto al lavoro è quindi tutt’uno
con la socializzazione dei mezzi di produzione e con la riconversione
ambientale e sociale dell’economia e delle produzioni.
Demercificare. Il capitalismo è basato sul continuo allargamento
del meccanismo di accumulazione, puntando a trasformare ogni rapporto
sociale e ogni cosa in merce. Centrale nella prospettiva del comunismo
è al contrario una progressiva e radicale demercificazione.
La merce è la forma della produzione capitalistica attraverso
cui si soddisfano i bisogni che riescono a presentarsi nella forma della
domanda solvibile. Per noi demercificazione significa produrre valori
d’uso che siano in grado di soddisfare i bisogni sociali nella
forma di diritto. Con i referendum abbiamo conquistato il diritto all’acqua
pubblica. Significa che nessuno deve guadagnare sulla fornitura dell’acqua
potabile e che l’acqua potabile è un diritto che i cittadini
italiani hanno in quanto tali.
Si tratta di un passo nella direzione che stiamo indicando. Noi riteniamo
necessario superare la forma merce in ogni ambito sociale: dal lavoro
alle cose, alle relazioni sociali.
Vogliamo cioè allargare la sfera dei bisogni sociali che vengono
soddisfatti, senza transitare attraverso il mercato, allargando la sfera
dei diritti esigibili.
Questo è oggi reso possibile dall’enorme aumento della
produttività sociale del lavoro e dal fatto - del tutto evidente
– che larga parte dei bisogni sociali che si determinano in una
società avanzata come la nostra, si possono oggi soddisfare oggi
più facilmente e più razionalmente nella forma del diritto
che non nella forma della merce. Pensiamo solo alla salute o all’istruzione
per non fare che due esempi.
Riduzione d’orario e liberazione del lavoro. Il lavoro deve essere
un diritto, garantito a tutti e tutte e non una merce. Demercificare
significa quindi battersi per una liberazione del lavoro e contemporaneamente
per una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità
di salario. Riteniamo l’intreccio tra questi due elementi decisivo.
Sin dagli albori il movimento dei lavoratori si è battuto per
porre un limite alla giornata di lavoro – a partire dai bambini
– contro la tendenza capitalistica di dilatare oltre ogni limite
la stessa. Successivamente i lavoratori si sono battuti per il diritto
al riposo settimanale, alla pensione, alle ferie. La storia del movimento
operaio è storia di lotte per recuperare spazi di esistenza liberati
dal dominio del lavoro salariato, così come di lotte per recuperare
“porosita” nel tempo di lavoro e – nei momenti più
alti – per porre il problema del controllo operaio e cioè
di cosa, come, per chi produrre. Quella che è stato storicamente
l’obiettivo del movimento operaio oggi più di ieri è
una possibilità concreta. Da un lato l’accresciuta produttività
del lavoro – oggi evidenziata dalla disoccupazione di massa -
richiede una drastica redistribuzione del lavoro - e quindi una riduzione
del tempo di lavoro. Dall’altra, la diffusione dei saperi sociali,
pone le condizioni piene per il superamento dell’organizzazione
gerarchica dei processi lavorativi e per determinare democraticamente
da parte dei lavoratori, cosa, come, per chi produrre.
La modifica dei rapporti di proprietà è quindi condizione
necessaria ma non sufficiente per una effettiva modifica dei rapporti
sociali, basata sulla drastica riduzione dell’orario di lavoro
e sulla messa in discussione nel profondo dei rapporti di produzione
capitalistici i quali, producendo merci, riproducono contemporaneamente
gerarchie sociali. La messa in discussione della divisione tra compiti
di ideazione e di esecuzione, dei ruoli gerarchici, così come
la socializzazione dei saperi dentro i diversi processi di lavoro sono
punti fondanti la nostra idea di comunismo che non è certo riassumibile
in un puro passaggio dalla proprietà privata a quella pubblica.
Anche la democrazia sui luoghi di lavoro è quindi declinata come
un intreccio tra la democrazia formale – in cui i lavoratori devono
poter decidere i propri rappresentanti e in merito agli accordi che
li riguardano – ed una democrazia sostanziale, e quindi di genere,
che metta in discussione i ruoli gerarchici prodotti dalla divisione
capitalistica del lavoro e ponga le basi per un effettivo controllo
operaio della produzione.
I beni comuni. Riteniamo che i beni comuni rappresentino il nodo centrale
attorno a cui ripensare il complesso dell’intervento pubblico
in economia ed in generale siano una nozione costituente dell’idea
di alternativa di società. I beni comuni non vanno contrapposti
alla sfera pubblica, ma invece rappresentano uno sviluppo e una qualificazione
della nozione stessa di pubblico. Non si tratta quindi di passare dallo
stato al comune ma di porre in dialettica stato e comune, stato e controllo
sociale attraverso il grande rafforzamento della democrazia diretta,
partecipata e di genere e della democrazia delegata.
L’allargamento della sfera dei beni comuni è quindi il
modo attraverso cui ripensare complessivamente il tema del superamento
della proprietà privata, della socializzazione dei mezzi di produzione
e dell’economia. Così come, la gestione pubblica e partecipata
della sfera della riproduzione sociale – il primo e fondamentale
bene comune - e l’allargamento dei diritti ad essa connessi, sono
il centro della costruzione di uno stato sociale di diritto che punti
esplicitamente a superare la divisione sessuata dei lavori nella sfera
della produzione come della riproduzione sociale.
L’allargamento della sfera dei diritti, si deve saldare ad una
gestione democratica dello sviluppo dei beni comuni. Si tratta di sviluppare
la democrazia diretta e partecipativa a livello territoriale e di ripensare
complessivamente il welfare. In questi anni il welfare è stato
ridotto e piegato ad un rapporto tra stato e mercato che ha determinato
profondissime storture e inefficienze. Noi proponiamo al contrario uno
sviluppo del welfare lungo un indirizzo caratterizzato dal rapporto
tra stato e controllo/autogestione sociale. Ai tratta di affiancare
alla programmazione e alla gestione pubblica elementi di controllo sul
funzionamento dei servizi, della sanità, dell’istruzione,
che prevedano il controllo degli utenti e l’autogestione dei lavoratori.
Superare cioè la nozione di cliente che le politiche neoliberiste
hanno introdotto nei servizi per proporre una partecipazione e un controllo
consapevole che permetta di correggere la programmazione e la gestione
pubblica sulla base della verifica di risultato degli gli utenti e dei
lavoratori.
La libertà degli individui.
In ultima analisi, il nostro obiettivo è la liberazione delle
donne e degli uomini, attraverso percorsi di autodeterminazione, per
l’affermazione delle loro soggettività e lo sviluppo della
loro individualità.
Marx parla di questo in molti suoi scritti quando sostiene che: “Il
modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione
capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono
la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata
sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa,
con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria
negazione. E’ la negazione della negazione. E questa non ristabilisce
la proprietà privata, ma invece la proprietà individuale
fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione
e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti
dal lavoro stesso.”
Marx introduce cioè una significativa distinzione tra proprietà
individuale – cioè dell’individuo – e proprietà
privata - che corrisponde al massimo di spoliazione economica, cognitiva,
esistenziale - della stragrande maggioranza degli individui. Su questa
distinzione si fonda la nostra idea del comunismo, in cui il superamento
della proprietà privata dei mezzi di produzione e della mercificazione
integrale della società è la condizione per determinare
la piena libertà degli uomini e delle donne.
A questo riguardo grande rilevanza ha un tema antico, quello delle ideologie.
Lungi dall’essere scomparse, in questi vent’anni abbiamo
subito l’egemonia dell’ideologia neoliberista su tutte le
altre. La globalizzazione neoliberista si è caratterizzata infatti
con la produzione di un pensiero unico. Non si tratta di un pensiero
solo economico ma di una visione del mondo complessiva in cui la produzione
di un immaginario colonizzato dal potere è un punto decisivo.
Non ci vendono solo merci ma stili di vita. In questo contesto la riduzione
dei cittadini a sudditi quando non a servi, incapaci di comprendere
e quindi di decidere sulla gestione dei grandi macrosistemi, è
stata un punto fondamentale. La distruzione della democrazia –
basata anche sul controllo pervasivo dei mezzi di comunicazione di massa
- avviene in parallelo ad una sorta di infantilizzazione degli umani,
che devono essere guidati, non essendo in grado da soli di badare a
se stessi e al bene comune.
La sconfitta del pensiero unico, la costruzione di una soggettività
forte, che incorpori saperi e pratiche di autodeterminazione, è
quindi un punto fondante della lotta per il comunismo. Esattamente come
ci hanno insegnato le donne attraverso la ricostruzione della soggettività
femminile quale conditio sine quo non per una reale battaglia di liberazione.
Noi riteniamo che l’intreccio tra i processi di trasformazione
materiale e di costruzione di soggettività, apra la strada alla
democratizzazione della vita quotidiana intesa come processo di trasformazione
e di fuoriuscita dal capitalismo. Dignità degli individui e potere
decisionale diffuso sono quindi aspetti fondanti il nostro progetto
politico.
A partire da queste riflessioni riteniamo utile aprire una discussione
e un confronto con le forze politiche e le soggettività che si
richiamano al comunismo.
UNA CRISI COSTITUENTE
Il contesto in cui viviamo è caratterizzato da una crisi capitalistica
strutturale. Sono entrate infatti in crisi le politiche neoliberiste
messe in atto a partire dagli anni ’70 per contrastare la caduta
del saggio medio del profitto.
Negli anni ’60 e ’70, sulla scia della vittoria contro il
nazifascismo, dello sviluppo economico reso possibile dalle lotte operaie,
dalle politiche keynesiane e dei processi di decolonizzazione, si è
posta a livello mondiale la possibilità per l’umanità
di fare un passo in avanti. L’intreccio tra autodeterminazione
dei popoli, messa in discussione delle divisioni di classe e libertà
dell’individuo, rappresentano i tre elementi che hanno caratterizzato
quella fase di cambiamento e di profonda domanda di trasformazione.
Alla modifica dei rapporti di forza tra le classi e alla domanda di
trasformazione, il capitale ha risposto dapprima con la disdetta degli
accordi di Bretton Woods da parte degli Stati Uniti (1971) facendo così
venire meno il punto di stabilità nelle relazioni economiche
finanziarie su cui si era basato lo sviluppo del secondo dopoguerra.
In seguito dando vita ad una vera e propria rivoluzione conservatrice
che ha avuto nelle ideologie e nelle pratiche neoliberiste la propria
stella polare.
Dallo stato al mercato
I punti fondamentali su cui il neoliberismo ha agito per sconfiggere
il movimento operaio e le istanze di trasformazione, sono fondati sulla
progressiva cessione di sovranità che gli stati hanno praticato
a favore dei potentati economici privati. Questo processo tutto politico
di deregulation, di gigantesche privatizzazioni, ha lasciato mano libera
ai privati in tutti i settori dell’economia, dalla finanza al
commercio. In questo contesto si è realizzata una fortissima
finanziarizzazione dell’economia e un gigantesco processo di centralizzazione
dei capitali, la distruzione del welfare state e la globalizzazione
della produzione di merci. Negli anni del neoliberismo – al contrario
di cosa sostenevano le tesi sulla fine del lavoro - è raddoppiata
la quota di lavoratori sottoposti al dominio del capitale. Inoltre,
da un lato è aumentato a dismisura l’esercito industriale
di riserva e dall’altro, vi è stata una enorme concentrazione
del capitale in grandi società transnazionali.
Su questa base vi è stata la riduzione dei salari e l’attacco
al welfare che ha ridotto la domanda aggregata. Questa è che
è stata sostenuta a livello mondiale da un lato con l’accesso
al consumo di centinaia di milioni di nuovi proletari, dall’altro
allargando a dismisura il credito al consumo negli USA. Questo processo
non ha però risolto le contraddizioni ma le ha allargate. Da
un lato perché i salari nei paesi in via di sviluppo crescono
meno della produttività. Dall’altro perché il credito
al consumo dei lavoratori poveri ha prodotto schiere di consumatori
insolventi che sono stati all’origine dello scoppio della bolla
finanziario-immobiliare negli USA.
Infatti l’enorme ed abnorme sviluppo della sfera finanziaria ha
prodotto squilibri fortissimi. La centralizzazione dei capitali e l’instabilità
sono infatti i connotati più rilevanti di questo capitalismo
finanziario. Gli alti tassi di profitto sono stati realizzati con operazioni
largamente speculative, sempre più rischiose, che producono a
ripetizione bolle speculative destinate ad esplodere. L’interconnessione
mondiale che caratterizza i mercati finanziari è alla base della
dimensione globale della crisi capitalistica.
Questi processi, oltre all’espansione territoriale del sistema
capitalistico parallela alla caduta del “socialismo reale”
hanno dato vita ad un potente e apparentemente illimitato sviluppo per
quasi un ventennio. Uno sviluppo, però, carico di contraddizioni
che oggi sono venute chiaramente al pettine. Questo in un contesto in
cui la crisi colpisce in modo assai differenziato le diverse aree del
pianeta. Mentre Cina, India e altri paesi in fase di industrializzazione
stanno crescendo a ritmi sostenuti, Il Giappone, L’Europa e gli
USA sono sostanzialmente in stagnazione. Questa crisi rappresenta quindi
anche un deciso spostamento di baricentro del potere economico e politico
nel mercato capitalistico mondiale e delle sfere di influenza geopolitiche.
Il Pensiero Unico
Questo gigantesco processo di “rivoluzione conservatrice”,
è stato giustificato da una fortissima componente ideologica,
che si è espressa in tutti i campi della comunicazione e della
produzione simbolica e che ha dato vita a quello che abbiamo chiamato
il Pensiero Unico. Una vera e propria “concezione del mondo”
a dialettica che non a caso è partita dall’assunto della
fine della storia dell’umanità raggiunta nella vittoria
integrale del capitale globalizzato. Questa ideologia, è una
vera e propria teologia naturale, che mette al centro di tutto l’homo
oeconomicus, naturalizza le gerarchie sociali e pone il tema dell’egoismo
individuale – in realtà del godimento autistico - come
unico metro di misura. Da questa punto di vista il Pensiero Unico unisce
il massimo di darwinismo sociale con il massimo di universalismo: “anche
tu puoi diventare un bastardo socialmente irresponsabile che si arricchisce
sulle spalle degli altri !” . Il Pensiero Unico, che è
l’ideologia vincente del capitale privo di etica dopo il crollo
del socialismo reale, ha dato un contributo non piccolo all’imbarbarimento
dei costumi sociali ed è tutt’altro che in crisi. E’
in crisi il neoliberismo ma non l’egemonia dell’ideologia
reazionaria che ne ha accompagnato l’affermazione.
Il sistema non è riformabile
Il punto di fondo è però la crisi irreversibile –
dopo una lunga fase di successi a livello planetario – delle forme
concrete con cui il capitale si era ristrutturato, a partire dagli anni
’70, al fine di contrastare la caduta del saggio medio del profitto
e la sua perdita di egemonia.
L’espansione enorme della speculazione finanziaria, che ha determinato
una vera e propria trasformazione qualitativa del capitalismo, non è
quindi una patologia. E’ la forma concreta con cui il capitale
ha contraddittoriamente cercato rispondere ai propri problemi di valorizzazione
e di contrastare le domande di trasformazione sociale. Non ci troviamo
quindi di fronte a fenomeni pericolosi ma limitati che possano e devono
essere messi sotto controllo: è la natura di fondo che ha assunto
il capitalismo per aggirare la propria crisi che è andata in
frantumi. Per questo la crisi è costituente e non lascerà
nulla come prima.
Anche perché, il capitale non può semplicemente tornare
indietro. La messa in discussione della libertà delle istituzioni
finanziarie private di creare danaro e in ultima istanza di decidere
dei destini dell’umanità, metterebbe radicalmente in discussione
gli assetti di potere capitalistici. La messa in discussione della libertà
della finanza porrebbe nuovamente il tema dell’intervento pubblico
in economia e quindi – in ultima istanza – il nodo della
democrazia economica, del socialismo. Riproporrebbe cioè i nodi
che il capitale aveva avanti a se negli anni ’70 e che con il
neoliberismo ha cercato di rimuovere.
Viceversa, una pura prosecuzione della finanziarizzazione dell’economia,
come sta avvenendo sin’ora, è destinata a continuare a
produrre crisi e speculazione, aumentando l’instabilità
sociale. Così come, il proseguire di politiche deflazioniste
finalizzate all’esportazione e tutte tese a ridurre il costo del
lavoro per unità di prodotto, in assenza di qualsivoglia politica
indirizzata alla costruzione di un mercato solvibile, è destinate
semplicemente ad avvitarsi su se stessa e a determinare l’impoverimento
di fasce sempre più ampie di popolazione dei paesi occidentali.
Gli anni ’70 hanno mostrato l’impossibilità per il
capitale di dar vita ad un processo di autoriforma. Oggi, di fronte
al fallimento della restaurazione capitalistica, non si è certo
aperto uno spazio riformista ma piuttosto si pone in termini netti l’alternativa
tra socialismo o barbarie. L’alternativa tra la rimessa al cento
dell’economia dello sviluppo sociale o la distruzione della società
ad opera dell’economia finanziarizzata. Non si tratta di correggere
qualche distorsione del modello di sviluppo ma di modificare alla radice
il modello di sviluppo che sempre più si presenta come una forma
estrema di dominio di classe divaricato dal progresso sociale.
La crisi è ambientale ed energetica
La globalizzazione neoliberista e l’allargamento del modo di produzione
capitalistico ad aree del mondo prima escluse, ha determinato un netto
aumento del consumo di materie prime. La scarsità delle materie
prime e delle fonti energetiche tradizionali da un lato, il problema
dell’inquinamento e del rapporto tra natura e società dall’altro,
sono diventati un tema strutturale non più rinviabile: il tema
dei limiti fisici e sociali della crescita economica. Gli stessi fenomeni
del risorgente nazionalismo, delle piccole patrie, del razzismo sono
da leggere dentro questa dinamica. Il tema delle risorse scarse e del
loro accaparramento, dei livelli e degli stili di vita da “difendere”
contro gli invasori – contro “gli altri” - rimandano
sempre allo stesso problema. Siamo in regime di risorse scarse e la
loro condivisione mette in discussione il mantenimento degli standard
acquisiti nei paesi occidentali.
La tendenza alla guerra
Per questo il mondo della fase neoliberista è instabile e percorso
da grandi conflitti competitivi, di cui quello libico è solo
l’ultimo in ordine di tempo. La guerra permanente lanciata da
Bush e la potenza militare sono gli architravi di un nuovo ordine mondiale
che, al contrario di quanto si era potuto sperare con la nascita dell’ONU,
considera l’instabilità inevitabile o addirittura necessaria
al fine di “governare” gli effetti della globalizzazione
sulle relazioni fra diverse aree geopolitiche. Si intrecciano i classici
interessi relativi al controllo delle materie prime (comprese l’acqua
e la biodiversità prima escluse dal mercato capitalistico) a
quelli relativi al puro dominio politico dei paesi ricchi oggi in crisi.
Il rilancio della NATO a scapito dell’ONU, le guerre unilaterali
fatte da coalizioni a geometria variabile, lo “scontro di civiltà”,
le “guerre umanitarie”, le ripetute violazioni del diritto
internazionale, non sono episodi isolati. Sono ormai una costante da
almeno 20 anni. Nonostante le propensioni mostrate da Obama, sono destinati
a crescere nella crisi attuale, anche in previsione della competizione
fra aree geopolitiche che viene accentuata dalla crisi stessa. Basti
pensare al conflitto in Libia, che accanto ad una vergognosa capitolazione
dell’ONU riguardo ai suoi compiti, ha visto un ruolo aggressivo
di Francia e Inghilterra, tutto finalizzato al determinare una propria
sfera di influenza. Così come il protagonismo USA nel conflitto
libico e nel cercare di determinare uno sbocco moderato delle rivolte
in Nord Africa, ha molto a che vedere con una ripresa di ruolo forte
degli USA nell’area - anche al di la di Israele – e con
un forte interesse a contrastare la penetrazione cinese nel continente
africano.
La stessa globalizzazione ha quindi posto le basi per una decisa modifica
dei rapporti di forza a livello mondiale. Se dopo l’89 abbiamo
avuto un mondo unipolare, oggi questo è radicalmente messo in
discussione dal ruolo della Cina e dei paesi emergenti. La Cina non
è solo “la fabbrica del mondo” ma anche una potenza
tecnologica e una potenza militare in crescita. Inoltre la Cina –
oltre a rafforzare la propria presenza nell’economia europea e
africana - detiene una parte significativa del Debito Pubblico degli
USA. Quest’ultimo elemento, in questi anni ha costituito un fattore
di convergenza di interessi: gli USA consumano al di sopra delle proprie
possibilità fornendo però uno sbocco di mercato alla produzione
cinese. Questa fase volge però al termine, perché troppo
squilibrata. Il punto che ci troviamo dinnanzi non è quindi solo
la messa in discussione dell’impianto unipolare del mondo ma il
fatto che questo mette in discussione i livelli di vita e di consumi
degli Stati Uniti. Il tutto in una situazione in cui gli USA rimangono
però di gran lunga la maggior forza militare del mondo. Com’è
del tutto evidente anche questo è un potente fattore che spinge
nella direzione di un aumento dei conflitti e della guerra. Questo fenomeno,
per altro è destinato a emergere con maggiore chiarezza con il
passare del tempo. Oggi, ogni proposta delle classi dominanti è
basata sull’aumento delle esportazioni ma man mano che crescerà
il problema della scarsità di materie prime, il nodo tenderà
a rovesciarsi: non più esportare ma garantire alle popolazioni
della propria area l’accesso ai consumi e alle materie prime.
Se ne vedono le prime avvisaglie nelle polemiche USA /CINA sull’estrazione
delle cosiddette “terre rare”.
Come vediamo la crisi che stiamo vivendo non è solo economica
ma segnala una vera e propria crisi del rapporto natura/società
e tende a divenire una crisi di civiltà. In questo contesto le
classi dominanti non hanno risposte progressiste proprio perché
quella che viviamo è la crisi del tentativo capitalistico di
rispondere alla domanda di libertà che l’umanità
ha posto negli anni 60 e 70 attraverso una modernizzazione reazionaria,
una rivoluzione conservatrice che si rivela barbarica e distruttiva
per l’umanità. In questo senso si pone oggi in modo stringente
l’alternativa socialismo o barbarie.
La speranza che viene dall’America latina.
In questo quadro i paesi dell’America latina continuano nella
ricerca di un modello alternativo a quello neoliberista, che difenda
e sviluppi le varie nazioni che si stanno emancipando dal controllo
dell’imperialismo statunitense, sperimentando l’idea di
un socialismo del XXI secolo. Un processo, quello della primavera latinoamericana,
che nei punti più avanzati, si basa sull’intervento pubblico
in economia, sulla ripubblicizzazione di interi comparti economici,
sull’allargamento dei beni comuni e delle forme di democrazia
partecipata. Fra i vari progetti di integrazione regionale che stanno
avanzando, quello dell’ALBA è senza dubbio il più
avanzato politicamente. Un processo che non soltanto si fonda sulla
rottura con il modello neoliberale e su un’idea di integrazione
non solo commerciale e monetaria, ma punta anche su un altro paradigma.
In questa dinamica un ruolo rilevante ha svolto Cuba, che è stato
un riferimento delle forze rivoluzionarie e antimperialiste latinoamericane,
sia come esperimento di costruzione di una nuova società, sia
per la determinazione con cui ha affrontato l’ingiusto e immorale
embargo da decenni imposto dagli USA.
Non è un caso che proprio questi paesi siano sotto costante minaccia
di colpi di stato da parte delle forze reazionarie. L’Honduras
è stato vittima del colpo di stato proprio per la sua decisione
di adesione all’alba. Correa, Morales e Chavez hanno evitato solo
grazie alla mobilitazione popolare, la stessa fine.
Il mediterraneo in rivolta
Nel sud del mediterraneo, rivolte e sollevazioni popolari hanno dato
vita a quella che è stata definita la primavera araba. Nessun
paese è rimasto immune da grandi manifestazioni popolari e dalla
ripresa di un protagonismo delle masse. Questa primavera è il
frutto del fallimento del neoliberismo. Dalla Tunisia all’Egitto,
la crisi ha colpito, attraverso la speculazione sui beni alimentari,
in primis il grano, gli strati più poveri delle popolazioni.
Esasperati da anni di aumenti dei prezzi, dalla crescita della disoccupazione
e delle disuguaglianze, dal peggioramento delle condizioni così
come delle aspettative di riscatto sociale, le giovani generazioni dei
paesi del Magreb e mediorientali hanno unito la questione sociale alla
domanda di libertà da regimi dispotici e personali che da decenni
reggevano in modo nepotista e corrotto quei paesi, spesso allineandoli
alle potenze occidentali e alla sudditanza nei confronti della loro
politica di guerra.
Nelle sommosse popolari che hanno portato alla caduta dei regimi tunisino
e d egiziano, un ruolo significativo è stato quello svolto dai
sindacati e dal movimento operaio. Questione sociale e questione democratica
si sono saldate. Il futuro delle rivolte in medio oriente è tutt’ora
incerto. E’ evidente che senza una organizzazione delle componenti
progressiste che sono state protagoniste delle sollevazioni, il rischio
è che si affermino, nel breve periodo, forze controrivoluzionarie
o moderate sostenute dai regimi reazionari dell’area e dagli USA.
I conflitti irrisolti nell’area mediterranea.
Quello kurdo rimane sullo sfondo, per il progressivo imporsi della Turchia
come attore di primo piano nello scacchiere mediorientale. Lo scontro
in corso ad Ankara fra gli islamisti al governo ed esercito, ha come
conseguenza un riposizionamento della Turchia nelle sue alleanze regionali.
E’ da questo che nasce la rottura con Israele seguita alla strage
della freedom flottilla. Un riposizionamento che però evita di
fare i conti con l’irrisolta questione kurda e che vede invece
una nuova ondata di repressione militare, lasciando cadere colpevolmente
tutte le proposte di tregua e di trattativa che sono state ripetutamente
avanzate negli anni. Rifondazione Comunista sostiene la causa del popolo
kurdo, chiede la liberazione di Ocalan come azione che può favorire
un processo di pace e di soluzione politica del conflitto.
La questione sarawhi vede il regime marocchino tentare di forzare e
risolvere con la repressione il contenzioso decennale. La soluzione
del conflitto è possibile solo con il rispetto di quanto sancito
in sede Onu e dal riconoscimento del diritto del popolo sarawhi all’autodeterminazione.
Rifondazione Comunista ribadisce il proprio sostegno al Fronte Polisario
e alla sua lotta per i diritti del suo popolo.
La questione palestinese rimane centrale per le ripercussioni che continua
ad avere con tutto il mondo arabo musulmano. Senza una soluzione giusta
della questione palestinese sarà impossibile definire un futuro
per il mediteranno come area comune e di pace. Il processo di pace è
da anni fermo. Questo stallo è dovuto alla politica oltranzista
del governo israeliano e alla sua opera di colonizzazione continua dei
territori palestinesi, attraverso l’allargamento delle colonie,
la costruzione del muro, l’espulsione forzata dei palestinesi
da Gerusalemme, l’embargo e la guerra a Gaza. Nei territori occupati
e a Gaza i palestinesi vivono una vera e propria condizione di apartheid.
Tutto ciò mentre la comunità internazionale rimane silente
e complice,i crimini israeliani, come l’aggressione a Gaza, impuniti.
La soluzione dei due stati per due popoli, a parole da tutti sostenuta,
senza il pieno riconoscimento delle risoluzioni ONU, dei confini del
67, di Gerusalemme est come capitale del futuro stato e del diritto
al ritorno dei profughi, rimane una formula senza sostanza, ad oggi
compromessa dalla politica del fatto compiuto operata da Israele. L’azione
intrapresa dai palestinesi all’Onu per il riconoscimento dello
stato palestinese ha il merito di chiarire le responsabilità
e le complicità con quanto accade.
L’EUROPA LIBERISTA IN CRISI
Nel contesto della crisi l’Europa è l’aggregato socio
economico su cui – ad oggi - si scaricano le maggiori contraddizioni.
Questa crisi mondiale è asimmetrica e vede l’Europa nella
condizione di maggiore debolezza tra le grandi macro aree. Non ha il
vantaggio competitivo dei BRIC né la posizione di rendita militare
degli Stati Uniti. Inoltre l’Unione Europea ha dato vita ad un
unicum in campo mondiale, dando vita ad una moneta su cui l’Europa
politica non ha alcuna sovranità e che viene gestita in piena
autonomia dalla BCE. Questa impalcatura economica ha tolto agli stati
europei la sovranità sulla moneta, lasciandoli così in
balia dei mercati e della speculazione finanziaria.
Le ragioni specifiche della crisi europea sono quindi da ricercarsi
nelle scelte degli anni 90. L’attuale costruzione europea –
gestita in modo bipartisan da popolari, liberali e socialdemocratici,
ed avvenuta negli anni di maggior presa del pensiero unico neoliberista
- ha integralmente costituzionalizzato i dogmi del neoliberismo. Questa
costruzione dell’Europa di Maastricht e di Lisbona, rappresenta
una rottura profonda con il processo unitario della fase precedente
ed è caratterizzata da un triplo passaggio di sovranità.
Il passaggio dagli stati nazionali alle istituzioni europee ha infatti
“coperto” l’operazione neoliberista: dai parlamenti
ai governi e dalle istituzioni democratiche alle banche e ai potentati
economici. Questo secondo processo è ovviamente assai diversificato:
mentre gli stati più potenti – come la Germania –
si sono rafforzati, gli stati più deboli hanno perso ogni sovranità
effettiva.
L’Europa di Maastricht è quindi diventata la patria del
neoliberismo applicato, sia dal punto di vista dell’architettura
delle istituzioni finanziarie (basti pensare all’autonomia e allo
statuto della BCE) che dal punto di vista delle politiche economiche,
sociali e finanziarie. Proprio l’esistenza del welfare e dell’intervento
pubblico in economia - che hanno caratterizzato il modello sociale europeo
nel secondo dopoguerra - sono stati considerati ostacoli da rimuovere
sulla via della competitività globale. Su questa strada è
avvenuto il suicidio del riformismo europeo che con l’implementazione
e la firma dei trattati commerciali in sede Gatt e poi WTO ha costruito
le basi materiali per passare dal modello sociale includente a quello
escludente, con conseguente crisi della base sociale delle della sinistre
socialdemocratiche.
Il colpo di stato monetario
Questa Europa liberista, costruita a partire dagli accordi di Maastricht,
ha realizzato però un deciso salto di qualità a partire
dalla gestione della crisi negli ultimi tre anni. I vincoli sempre più
stringenti sui pareggi di bilancio, accompagnati dal ruolo ricattatorio
della speculazione finanziaria - utilizzata dalla BCE e dalla Commissione
Europea come vincolo esterno per obbligare i singoli stati a pesantissimi
piani di riassetto strutturale - hanno prodotto un deciso quanto negativo
salto di qualità. Un vero e proprio “Colpo di stato monetario”.
Le decisioni effettive in materia economica vengono prese dalle tecnocrazie
europee in cui la BCE e il governo tedesco giocano un ruolo centrale.
La gestione delle scelte economiche europee è quindi totalmente
antidemocratica. I parlamenti nazionali sono chiamati a ratificare scelte
assunte in sedi il cui potere non è in alcun modo sottoposto
a verifica democratica. Il ruolo della BCE costituisce un unicum negativo
a livello mondiale. Non esiste nessun altro paese al mondo in cui la
Banca Centrale possa finanziare le banche private e non gli stati sovrani.
Siamo nella follia in cui la BCE presta alle banche private i soldi
per speculare sugli stati.
Le risposte che vengono date alla crisi da parte delle elite europee
sono sovradeterminate dai voleri del capitale tedesco che impone politiche
deflattive a tutto il continente. Gli interessi del capitale tedesco,
che badano alla salvaguardia e al rafforzamento del suo forte apparato
produttivo, sono all’origine delle politiche comunitarie, che
utilizzano gli attacchi speculativi contro i paesi a minor produttività,
per determinare una pesante gerarchizzazione di livelli di vita e di
diritti nel continente, aprendo la strada ad una vera e propria crisi
di civiltà. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale,
invece del progresso, milioni di persone esperimentano una pesante regressione
sociale. Basti pensare a cosa sta succedendo in Grecia, dove l’intreccio
tra tagli alla spesa e alti tassi di interesse, stanno affossando il
paese.
Quella che è messa in discussione dalle classi dominanti europee
e dai governi europei di centro destra e di centro sinistra, non è
la persistenza dell’Europa, ma una qualsiasi idea di modello sociale
europeo. La prospettiva è quella di un continente che abbia al
suo interno un centro con produzioni ad alto valore aggiunto e più
periferie caratterizzate da basso valore aggiunto, bassi salari e scarse
tutele. Non a caso i paesi che sono sottoposti ad attacchi speculativi
non sono caratterizzati per il volume del debito quanto piuttosto per
la scarsa produttività. La speculazione viene utilizzata dalle
elites europee per ridurre il salario diretto e indiretto di interi
aree o paesi. Vi è una centralità oggettiva dell’attacco
al lavoro oggi in Europa, che vede al vertice della piramide, in Germania,
un mancato recupero salariale e, giù per li rami, una progressiva
riduzione del prezzo pagato per acquistare forza lavoro.
Questo modello generale di Europa gerarchizzata da costruirsi attorno
alla potenza economica tedesca non trova significative differenze politiche
all’interno dei principali partiti europei. Liberali, popolari
e socialdemocratici hanno condiviso questo impianto e lo stanno gestendo
unitariamente. Le differenze maggiori tra le forze politiche riguardano
il tema rilevante della redistribuzione del reddito dalle rendite finanziarie
verso i redditi dal lavoro, ma in nessun modo il tema del rapporto tra
Europa e globalizzazione o di riforma strutturale delle istituzioni
europee.
Ovviamente anche questa strada imboccata dalle elites europee è
priva di prospettive. Le politiche deflattive, determinano una ulteriore
riduzione della domanda solvibile in Europa. Visto che la Germania vende
larga parte del suo export in Europa, proprio le politiche deflattive
da essa imposte sono destinate a bloccare lo sviluppo tedesco e ad aggravare
la crisi europea.
In questo contesto, vengono a maturazione sia significativi conflitti
sindacali e sociali, che spinte di destra estrema, caratterizzate da
xenofobia, razzismo spinte alla tra i poveri.
ITALIA: LA II REPUBBLICA COME CRISI ORGANICA
La crisi è esplosa nel nostro paese, in una situazione economica
e sociale, per più aspetti, peggiore rispetto a quella dei principali
paesi europei.
Se il sistema finanziario ha sin qui sofferto meno, per il minore sviluppo
dei fondi speculativi e il ruolo para-pubblico delle Fondazioni la situazione
in Italia appare particolarmente critica per quel che riguarda la destrutturazione
dell’apparato industriale, i livelli salariali e gli strumenti
di protezione sociale, la polarizzazione tra Nord e Sud del paese. A
questo riguardo per segnalare una linea di tendenza che si sta aggravando,
il Pil pro capite è complessivamente al Sud meno dei 2/3 della
media nazionale (il che significa che è circa la metà
rispetto alle regioni più ricche del paese), mentre il tasso
di disoccupazione è mediamente il doppio e anche più rispetto
al Centro-Nord.
Le dinamiche della crisi in sostanza si intrecciano da un lato, a nodi
di fondo della situazione italiana, le cui radici risiedono nei processi
politici e sociali che si sono sviluppati in particolare a partire dagli
anni ’80, nella risposta delle classi dominanti alla stagione
di conquiste degli anni ’60 e ’70. Dall’altro all’uso
che l’ultimo governo Berlusconi e le classi dominanti del paese
hanno fatto della crisi: grimaldello per portare a termine un disegno
eversivo di radicale distruzione del complesso delle conquiste del movimento
operaio per come si sono sedimentate nel secondo dopoguerra. Ne è
emblema l’articolo 8 dell’ultima manovra del governo che
smantella in un solo colpo la contrattazione nazionale e l’intero
diritto del lavoro, resi mere variabili dipendenti del mercato, con
un atto di gravità inaudita nella storia repubblicana. Ne è
emblema l’attacco alla Costituzione tutta, ai diritti sociali
come a quelli civili, dentro un’offensiva che non è solo
politica e sociale, ma culturale e persino antropologica.
Porre come asse strategico della nostra linea politica, l’uscita
a sinistra dalla crisi nella costruzione di un’alternativa di
società, significa quindi fare i conti, fino in fondo, con i
processi che sul terreno economico, sociale, istituzionale hanno segnato
il nostro paese negli ultimi trent’anni, dando una risposta da
sinistra alla crisi della Seconda Repubblica. Perché alla crisi
costituente si risponda con un’opposizione costituente. Che individui
i “fili da tirare” in una lettura non schiacciata sul presente
e capace dunque di affrontare i nodi strutturali della regressione che
segna il nostro paese. Che si dia al tempo stesso obiettivi e piattaforme
nell’intreccio con lo sviluppo dei movimenti, la costruzione di
conflitto sociale, progetti e pratiche di trasformazione.
L’inizio della controffensiva del capitale e il craxismo
L’Italia è un caso paradigmatico del carattere distruttivo
della riposta capitalistica al ciclo di lotte degli anni ‘60/’70.
Fino alla metà degli anni ’70 il nostro paese ha conosciuto
un forte sviluppo economico trainato dagli aumenti salariali, dalle
politiche di welfare e keynesiane. È in questa fase che il movimento
operaio, in una società al cui centro c’è l’industria,
si conquista la centralità e usa tutta la sua forza conflittuale
per contendere alla borghesia la direzione del paese. Per quanto bloccato
dalla guerra fredda, il sistema politico fondato sulla repubblica parlamentare,
permette al movimento operaio e alle forze politiche ad esso legate
di portare nelle istituzioni le proprie rivendicazioni, e di trasformarle
in leggi e riforme. E’ così che le lotte trovano uno sbocco
politico istituzionale e che la politica e il parlamento sono avvertiti
dal popolo come strumenti capaci di produrre trasformazioni importanti
nella società e nella vita concreta delle persone.
Già a metà degli anni 70, inizia anche in Italia la controffensiva
del capitale. Sorge una nuova borghesia dedita alla speculazione immobiliare
e a quella finanziaria. Le grandi imprese private creano le proprie
finanziarie preparandosi ad abbandonare il mercato interno come riferimento
delle proprie prospettive industriali in favore delle esportazioni.
Il PSI recide ogni radice anticapitalista e sposa direttamente gli interessi
della nuova borghesia nascente. Non è un caso che a guidare questo
processo sia Bettino Craxi e che fra i suoi referenti più importanti
ci sia Berlusconi. Il Craxismo porta un pesante attacco ai lavoratori
e una feroce compressione salariale che si salda con una esplosione
del debito pubblico, finalizzata alla gestione clientelare della spesa
a fini di consenso sociale. Sono gli anni del “decisionismo”,
della nascente vocazione presidenzialista del PSI e dell’alternanza
di governo tra primi ministri democristiani e laici. Sulle politiche
sociali come sulla politica estera Craxi si presenta come competitore
della DC ma su contenuti di destra, come dimostrano l’attacco
alla scala mobile e la vicenda dell’installazione dei missili
USA a Comiso. Dopo i cedimenti dell’EUR, iniziano le lotte difensive
– emblematica quella della FIAT nel 1980- contro gli attacchi
alle conquiste dei decenni precedenti. La corruzione dilaga e la funzione
dei partiti, prevista dalla costituzione, degenera rapidamente. Lo denuncia
coraggiosamente Berlinguer ponendo al paese la “questione morale”
e il tema dell’alternativa.
Lo scioglimento del PCI, la concertazione, il bipolarismo.
Negli anni ’90, per centrare i parametri europei necessari all’ingresso
della moneta unica, iniziano le politiche di riduzione del deficit.
Scaricate integralmente sulle spalle dei lavoratori attraverso il taglio
del welfare e la compressione salariale. Il tutto mentre con la privatizzazione
della grande impresa pubblica, scompariva qualsivoglia politica industriale,
determinando nel tempo, un impoverimento del tessuto produttivo e un
parallelo indebolimento dei lavoratori e del sindacato. Nella sostanza
si attua la sistematica distruzione di ogni strumento pubblico capace
di determinare una politica economica, cosa che oggi paghiamo duramente.
Se gli anni del craxismo, sono stati gli anni della controrivoluzione,
dell’offensiva moderata contro il sindacato di classe e la sinistra,
gli anni ’90 sono stati gli anni in cui il pensiero unico è
diventato egemone nel centrosinistra. L’adesione entusiasta al
neoliberismo di larghissima parte del mondo politico e dell’intellettualità
diffusa, ha rappresentato la vera chiave di volta per il successo dell’offensiva
capitalistica in Italia, intervenendo su più piani:
-Lo scioglimento del PCI ad opera della maggioranza del suo gruppo dirigente
ha determinato grandi effetti negativi sia sul piano ideologico che
su quello della concreta organizzazione di classe. La condanna senza
appelli del comunismo è diventata una operazione di distruzione
della storia e dell’identità delle classi subalterne in
Italia. A venir meno non è stata solo l’esistenza di un
partito ma un tessuto di autonomia politica, culturale e sociale, faticosamente
costruito in anni e anni di lotte e riflessioni. Un intero ceto politico
ha separato le proprie sorti da quelle del movimento operaio e progressista.
Ha accettato e perfino teorizzato entusiasticamente che l’obiettivo
politico fondamentale era la conquista del governo per amministrare
l’esistente. Un “esistente” nel quale un ceto politico
di “sinistra” poteva candidarsi a gestire una politica avversa
agli interessi delle classi subalterne.
-Parallelamente la corrispettiva accettazione della concertazione da
parte della maggioranza della Cgil, una concezione del sindacato cooptato
nel sistema decisionale interno al governo dell’esistente, ha
rappresentato un deciso arretramento nella difesa degli interessi di
classe in una fase di durissima ristrutturazione padronale, oltre alla
tendenziale mutazione della sua natura di classe.
In ultimo – ma non meno importante – l’identificazione
della Prima repubblica con la partitocrazia, e l’introduzione
del bipolarismo maggioritario in Italia. La distruzione del sistema
proporzionale e la costruzione bipolare, sostenuta dagli ambienti più
reazionari del paese, proposta con un referendum dal democristiano di
estrema destra Mario Segni, trova il decisivo ed incondizionato sostegno
del PDS di Achille Occhetto. Essa rappresenta il vero punto di ingresso
nella Seconda repubblica, nella riduzione della politica alla logica
dell’alternanza e nella tendenziale assimilazione al neoliberismo.
I fautori del maggioritario bipolare – e tendenzialmente bipartitico
– sostituiscono la democrazia partecipata e conflittuale, che
caratterizza l’impianto della prima parte della Costituzione,
con la concezione della “democrazia governante”, con la
sua torsione presidenzialista e conseguente svuotamento delle funzioni
parlamentari e delle prerogative delle istituzioni di controllo. Il
centro sinistra ha qui aperto un varco molto ampio al berlusconismo.
Gli anni ’90, caratterizzati dall’adesione di larga parte
del ceto politico dirigente del centrosinistra all’ideologia neoliberista,
sono quelli in cui ogni difesa degli interessi di classe viene bollata
come conservatrice quando non reazionaria e in nome dell’adesione
al nuovo si cantano le lodi del capitalismo in fase di finanziarizzazione.
Sono gli anni delle privatizzazioni, dei “capitani coraggiosi”
e delle guerre umanitarie.
Merito storico di Rifondazione Comunista, è di essere nata dentro
e contro questi processi in direzione ostinata e contraria sul piano
politico, culturale e morale, rispetto agli osceni processi di trasformismo
che quegli anni ci hanno consegnato.
Un bilancio fallimentare sul terreno economico e sociale
Le ristrutturazioni degli anni ’80 e la Seconda Repubblica, affermatasi
a partire dagli anni ’90 e caratterizzata da un bipolarismo a
netta egemonia neoliberista, ci consegnano un bilancio fallimentare
tanto sul terreno economico e sociale, quanto su quello istituzionale
e democratico.
Dopo un quarto di secolo di liberalizzazioni e privatizzazioni, di delocalizzazioni
e di svendita del patrimonio pubblico e privato alle multinazionali,
di mancato sviluppo tecnologico dell’apparato produttivo, di precarizzazione
e svalorizzazione del lavoro, di sconfitte del movimento operaio e cooptazione
delle organizzazioni sindacali del quadro concertativo interno alla
“governabilità” il risultato è che la “sesta
potenza economica del mondo” si ritrova incapace di reggere la
competizione internazionale, di resistere agli scossoni delle ricorrenti
crisi finanziarie ed agli attacchi speculativi, al contrario di quel
che era stato promesso e garantito per giustificare quelle politiche.
Invece l’Italia ha subito un pesante processo di deindustrializzazione
a favore della nuova rendita fondiaria e della speculazione finanziaria
e perciò, al contrario della Germania, nel momento della crisi
non può far leva nemmeno sul volano della produzione e della
stessa produttività del sistema. La privatizzazione degli assi
strategici dell’economia e la rinuncia a influire in qualsiasi
modo sulle politiche finanziarie ed industriali delle multinazionali
a partire dalla Fiat, ha prodotto la totale assenza di una guida dell’economia
capace di avere una visione strategica, un controllo sulla finanza e
sulle banche secondo obiettivi coerenti con una politica industriale.
L’Italia poi riproduce al suo interno ingigantendole le contraddizioni
che si vivono in Europa. Accanto ad aree ad alta produttività
e ad alto valore aggiunto convivono aree a bassa produttività
e basso valore aggiunto. Da questo punto di vista l’Italia non
è solo destinata a subire un generale impoverimento ma anche
una divisione pesante per linee geografiche. Se il sistema fiscale basato
sull’evasione non redistribuisce ricchezza tra le classi, il federalismo
messo in piedi dal governo Berlusconi non redistribuisce la ricchezza
tra i territori, la demolizione dei contratti nazionali non garantisce
standard di retribuzione omogenee. L’Italia è quindi destinata
ad avere il massimo di gerarchie sociali ma anche il massimo di frantumazione
della classe, secondo linee di separazione su base territoriale o addirittura
produttiva.
Nelle scelte degli ultimi 30 anni delle classi dirigenti italiane non
c’è nulla di “oggettivo” e di “obbligato”.
Per quanto il processo di globalizzazione sia stato imperioso sarebbe
stato possibile fare diversamente. Se invece di accreditare nel paese
l’idea che si potessero far soldi con i soldi, alimentando consumi
sempre più effimeri e dannosi socialmente e lasciando che l’economia
reale venisse guidata da banche sempre più possedute e indirizzate
dai pirati della finanza, si fosse prevista la necessità di riqualificare
le basi strutturali e produttive del paese e la relativa capacità
di indirizzo del potere pubblico, oggi la situazione sarebbe ben diversa.
Il paese avrebbe una spina dorsale, un baricentro intorno al quale riorganizzare
se stesso nei momenti di difficoltà. Se invece di lasciare alla
spontanea ricerca del massimo profitto in tempi brevi il sistema delle
piccole e medie imprese e dei distretti industriali, con il corollario
di delocalizzazioni, di sfruttamento selvaggio della manodopera e della
gigantesca evasione fiscale, si fossero usate le leve del credito e
legislative per disincentivare le delocalizzazioni e costringere le
imprese ad avere programmi strategici, investimenti nella ricerca e
valorizzazione del lavoro, non avremmo avuto una tale disarticolazione
produttiva e territoriale. La coesione sociale sarebbe stata di per
se stessa un antidoto all’egoismo individuale e territoriale e
alla conseguente disarticolazione e ulteriore gerarchizzazione della
società.
Un bilancio fallimentare sul terreno democratico: il bipolarismo e
la crisi della politica.
Alla crisi di consenso e all’esplodere della questione dell’intreccio
perverso tra affari e politica, emersa con “tangentopoli”,
i poteri forti hanno individuato, dall’inizio degli anni ’90,
la risposta nell’assunzione di un modello istituzionale incardinato
sul sistema elettorale maggioritario, al fine di promuovere la ristrutturazione
del sistema politico in chiave bipolare. Una campagna battente e prepotente,
alimentata dai poteri economici, dal sistema politico, dai principali
mezzi d’informazione, è riuscita a presentare il salto
all’indietro come il nuovo, descrivendo il sistema elettorale
proporzionale come una rendita di posizione, la causa dell’instabilità,
il male assoluto. Il PDS con Occhetto e il PD con Veltroni, poi, portano
una responsabilità pesantissima non solo per non aver contrastato
questi esiti ma, addirittura, per esserne stati gli alfieri.
Gli effetti di queste scelte sono stati: la distorsione del principio
democratico della rappresentanza, il prevalere della logica degli schieramenti
su quella dei contenuti politici, l’instaurarsi di un modello
dell’alternanza che tende a espungere le posizioni radicali e
di classe relegandole nella marginalità. A questo si deve aggiungere
la torsione presidenzialista e plebiscitaria che ha interessato enti
locali e regioni e che ha comportato l’abnorme rafforzamento dei
poteri di sindaci e presidenti di province e regioni, oltre che degli
esecutivi, a scapito delle assemblee elettive e l’affermarsi nel
senso comune della logica plebiscitaria e della delega. Tutto ciò
ha creato le premesse per il superamento dell’impianto costituzionale
affermatosi nel dopoguerra con la trasformazione dei partiti in strutture
elettorali poggianti su reti di notabilato, la riduzione di fatto del
pluralismo politico, l’accentramento del potere decisionale.
A questa involuzione del sistema della rappresentanza si è accompagnato,
con la modifica del titolo V della Costituzione, l’indebolimento
della coesione del paese, della sua unità e del sistema dei diritti.
L’inseguimento della Lega sul terreno pericolosissimo del federalismo
ha comportato non solo l’indebolimento della funzione dello stato,
ma anche l’introduzione di un principio sul piano dell’utilizzazione
delle risorse (il federalismo fiscale) che ha in sé i germi della
dissoluzione dell’unità del paese e dell’accentuazione
abnorme delle diseguaglianze. Parallelamente, sul terreno più
propriamente sociale, l’assunzione della “sussidiarietà
orizzontale” come principio fondamentale per la gestione dei servizi
e quello della loro “essenzialità” hanno sancito
la titolarità del privato su un insieme di funzioni pubbliche
e la differenziazione dei diritti.
In questo contesto, la crisi della politica che si è manifestata
con una sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni e che alimenta
l’astensionismo e una pulsione anti-politica non priva di tratti
qualunquisti e populisti, non è scissa dai cambiamenti prodottisi
in questi anni nel sistema politico istituzionale. Infatti, la progressiva
mutazione dei partiti in strumenti elettorali privi di tensione ideale,
la loro trasformazione in aggregati d’interessi non è separabile
dalla modifica in senso bipolare dell’assetto politico. Così
com’è altrettanto vero che il riesplodere della questione
morale si è anche connessa al venir meno di un’etica pubblica,
che si è accompagnata all’esaltazione delle virtù
del mercato, celebrate non solo dalla destra, ma anche dalla sinistra
moderata. Infine, la questione dei costi della politica va inquadrata
nell’autoreferenzialità di soggetti politici che nella
sistematica occupazione di ogni sfera dell’amministrazione hanno
tratto legittimazione e consenso.
Il fallimento dell’Ulivo e la sconfitta del PRC
Il centro sinistra ha fallito in Italia, sia nella prima che nella seconda
esperienza: 7 anni di governo (con e senza il PRC nella maggioranza
e nel governo). Nelle elezioni che si sono succedute dopo quelle esperienze,
la vittoria delle destre è stata schiacciante.
Ne vanno indagate le ragioni strutturali sia sul piano sovranazionale
(il fallimento del cosiddetto Ulivo mondiale, da Blair a Clinton per
giungere a D’Alema) sia su quello più direttamente nazionale.
Noi individuiamo una ragione di fondo, che va ulteriormente approfondita
dentro un quadro di ricerca e di analisi: la subalternità culturale
e politica del centro sinistra ai processi della globalizzazione neoliberista.
Per questo motivo essenziale, il ruolo di condizionamento dei poteri
forti dentro quello schieramento è stato il fattore essenziale
di guida dell’azione politica e di governo. Il contrario di quanto
Rifondazione Comunista ha sostenuto, prima del secondo governo Prodi,
scommettendo sulla permeabilità del centro sinistra rispetto
ai movimenti. Questa scelta si è rivelata sbagliata,anche per
una errata valutazione dei rapporti di forza.
Sia sul terreno delle politiche economiche e sociali, sia su quello
delle libertà civili, sia sul terreno delle politiche internazionali
e della guerra, il centro gravitazionale è stato determinato
dei poteri forti nazionali e internazionali.
Dentro quel ciclo, si segna la sconfitta storica anche della sinistra
e del PRC in particolare.
Le due fasi della partecipazione del PRC alla maggioranza e al governo
di centro sinistra (4 anni in tutto), ne sono una dimostrazione: nella
prima esperienza, una contrattazione di risulta dentro una direzione
di marcia (stabilizzazione dei precari in cambio della Legge Treu, sanatoria
dei migranti in cambio della Turco Napolitano, ecc.); nella seconda
l’illusione della stesura di un programma dettagliato, poi in
larga parte disatteso.
Non si tratta, però, di una storia univoca: nel 1998 il PRC seppe
rompere da sinistra con il governo Prodi, affrontando di petto il tema
della fuoriuscita dalle politiche neoliberiste e dalla gabbia del bipolarismo.
Quella rottura permise una dislocazione politica utile all’internità
ai movimenti come un interlocutore importante. Senza quella rottura
e quella scelta, Rifondazione non avrebbe intercettato il vento di Genova
e del movimento altermondialista.
Il punto critico è che quell’impostazione, nei fatti e
nelle scelte concrete, è stata successivamente sacrificata, a
partire dalla valutazione del risultato del referendum sull’allargamento
dello Statuto dei Lavoratori del 2003, valutazione tutta piegata alla
riapertura del dialogo con l’Ulivo. Il pendolo si è di
nuovo spostato verso i rapporti politici, il quadro istituzionale, dentro
la gabbia del bipolarismo, con l’aggravante – negli anni
successivi al 2005 e all’alleanza con Prodi – della sopravvalutazione
della potenziale influenza delle forze di alternativa.
Il berlusconismo
In questa repubblica del pensiero unico, comincia l’era di Berlusconi
che rappresenta un vero e proprio inveramento del craxismo in una sintesi
presidenzialista, plebisicitaria, antioperaia ed antidemocratica. Il
berlusconismo, lungi dall’essere solo una patologia personalistica,
rappresenta un forma estremizzata del pensiero unico liberista in salsa
italica. Al di là dei caratteri generali dell’offensiva
neoliberista o degli aspetti peculiari della figura di Berlusconi, il
berlusconismo si è inserito profondamente negli elementi di lunga
durata del moderatismo e della destra italiana.
In primo luogo l’anticomunismo. Berlusconi, attraverso un utilizzo
spregiudicato e oligopolistico dei mezzi di comunicazione televisivi,
utilizza a piene mani una ideologica populista reazionaria fortemente
anticomunista. Questo anticomunismo si è saldato con una grandissima
operazione di revisionismo storico che è stata la cifra della
seconda repubblica. Nella seconda repubblica si è riscritta la
storia d’Italia dalla parte dei vincitori di oggi, puntando a
cancellare e delegittimare completamente le lotte per la libertà
e la giustizia di cui sono stati protagonisti il movimento operaio e
i comunisti. Questa azione “ideologica” ha inciso in profondità,
aiutata dalla cultura maggioritaria nel centro sinistra, che ha prima
giustificato lo scioglimento del PCI e poi ha proseguito nell’azione
di rimozione delle proprie radici.
In secondo luogo la centralità della relazione con il Vaticano,
assunto come fondamentale interlocutore di potere e contemporaneamente
come fonte valoriale extrapolitica di legittimazione. Il Vaticano da
parte sua, ha corrisposto pienamente questa relazione, guadagnando ulteriori
forti privilegi di tipo economico e significativi spazi nei settori
dell’istruzione e dell’assistenza.
In terzo luogo il darvinismo sociale, l’individualismo, il discredito
della cosa pubblica e il maschilismo, che hanno caratterizzato la proposizione
berlusconiana e che hanno determinato una sintonia con ampi strati del
paese. Nella crisi della sinistra, questi elementi hanno rappresentato
una componente essenziale del fascino della modernizzazione reazionaria
promossa da Berlusconi, una sorta di religione incivile radicalmente
anticostituzionale, che ha dato solleticato le peggiori pulsioni della
“pancia” del paese, esportando la “Milano da bere”
in tutt’Italia. Un vero e proprio universo di valori radicalmente
contrapposto a quello delle battaglie sociali e civili degli anni ’70.
In quarto luogo la costruzione di superfici di contatto con il fenomeno
mafioso e la capacità di traghettare l’accumulazione finanziaria
dell’economia illegale dentro il complesso dell’economia
italiana. La saldatura tra parti significative di borghesia del Nord
e malavita organizzata, con la creazione di veri e propri fenomeni di
borghesia mafiosa, ha la sua base materiale nella sistematica cancellazione
della linea di demarcazione tra economia legale ed illegale.
Da ultimo il berlusconismo è l’erede legittimo del sovversivismo
della classi dirigenti italiane. Non a caso Berlusconi era affiliato
alla P2 e larga parte del suo programma ricalca quello di Gelli nel
suo disegno di un controllo oligarchico di istituzioni e media. La costruzione
di una destra priva di confini a destra, ha rappresentato una grande
operazione politica e una vera innovazione nell’ambito delle destre
europee. Lo sdoganamento della destra estrema politica si è saldato
con lo sdoganamento dei comportamenti di totale deresponsabilizzazione
sul piano sociale e dei rapporti con lo stato che caratterizza una parte
importante dell’imprenditoria italiana.
Il punto centrale del berlusconismo è stato sempre la capacità
di costruire una mediazione tra varie espressioni della destra, dando
vita ad un impressionante impasto di liberismo economico, egoismo individuale,
moralismo reazionario sul piano legislativo e razzismo leghista. La
capacità di costruire la mediazione all’interno del blocco
dominante e di soddisfare gli appetiti degli interessi coagulati in
lobbies, è stata sia la forza che l’obiettivo di Berlusconi
Non a caso il profilo berlusconiano è stato così pesantemente
antioperaio. Non essendo in grado di progettare una via di sviluppo
per il paese Berlusconi si è concentrato sulla redistribuzione
del reddito e del potere, dal basso in alto ovviamente. Per questo il
berlusconismo rappresenta una soluzione capitalistica che salda al massimo
livello l’attacco sul piano democratico e su quello sociale e
manifesta una significativa tendenza alla costruzione di un regime.
La destra ha quindi interpretato in modo estremistico lo spirito del
tempo della seconda repubblica con una determinazione e una unità
di intenti assai rilevante.
Non a caso è proprio la crisi economica, che colpisce l’assoluta
maggioranza della popolazione, a determinare la crisi del berlusconismo,
cioè dell’impossibilità di continuare la mediazione
tra le diverse frazioni dei ceti dominanti.
L’ultimo governo Berlusconi. L’attacco “costituente”
contro il lavoro e le autonomie.
L’ultimo governo Berlusconi sin dal suo insediamento ha operato
con un elevato grado di coerenza interna. Non solo cioè ha compiuto
operazioni che hanno accentuato le disuguaglianze nella distribuzione
della ricchezza, ma ha usato la crisi come leva per una riscrittura
regressiva del complesso delle relazioni sociali.
Il governo ha anticipato le politiche restrittive europee. Pur non avendo
dovuto compiere le pesantissime operazioni di salvataggio del sistema
bancario che hanno impegnato i principali stati d’Europa , il
governo, con la motivazione della necessità di ridurre lo stock
del debito, ha varato da subito pesanti manovre di tagli. Se questa
politica ha svolto una funzione pro-ciclica, cioè nel concreto
manifestarsi della crisi, ha contribuito a inasprirla, come è
testimoniato dal crollo del Pil nel 2009, dal conseguente raddoppio
del deficit e dall’incremento di ben 9 punti del rapporto debito/pil,
passato dal 106 al 115 per cento in un solo anno, il governo con la
propria azione ha da subito alacremente lavorato per une vero e proprio
disegno “costituente”, di ridefinizione del modello sociale
e del ruolo dei soggetti sociali, in senso compiutamente eversivo della
costituzione repubblicana.
I tagli pesantissimi al sistema della formazione non sono casuali ma
mirati, sono lo specchio dell’idea di società che questo
Governo e questa destra hanno come progetto per il futuro. La scuola
e l’università sono rese luoghi sempre più classisti,
inaccessibili per sempre più larghe fasce di popolazione, fucine
di discriminazione e omofobia. Luoghi svuotati del loro potenziale rivoluzionario,
cioè quello di poter costruire una società di donne e
uomini liberi ed uguali, dove il sapere e la conoscenza sono diritti
inalienabili, e non sacrificabili sull’altare del mercato, di
una multinazionale, di una qualunque finanziaria. Sono tagli al futuro
e alla democrazia, sono tagli alla civiltà.
Analogamente i tagli agli enti locali, il sostanziale obbligo di privatizzazione
dei servizi pubblici riproposto in spregio del risultato referendario,
l’attacco ossessivo e distruttivo al lavoro pubblico, puntano
da un lato ad un salto di qualità dei processi di privatizzazione
del welfare, dall’altro all’annullamento del ruolo delle
istituzioni locali, cioè di quelle istituzioni che si caratterizzano
per un rapporto di prossimità con la cittadinanza.
La distruzione delle autonomie - dei saperi, degli enti locali, non
meno che della magistratura e dell’informazione - è stato
il cuore della politica dell’ultimo governo Berlusconi e ha avuto
al suo centro la distruzione della possibilità di organizzazione
e dell’autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori.
Il lungo attacco alla contrattazione collettiva nazionale portato avanti
sia con la volontà di imporre un modello aziendalista delle relazioni
industriali, sia per affermare il contratto individuale in deroga, si
è sostanziato in una pluralità di interventi sul terreno
contrattuale come legislativo, dagli accordi separati al Collegato Lavoro,
per precipitare in quell’articolo 8 dell’ultima manovra
che fa carta straccia tanto della contrattazione collettiva quanto dell’intero
diritto del lavoro, a partire dallo Statuto dei lavoratori e dall’articolo
18. La previsione che accordi pattizi a livello aziendale e territoriale
possano derogare oltre al contratto nazionale, le leggi della Repubblica,
è un inedito di assoluta gravità,, rappresentando la volontà
di distruggere il complesso delle conquiste del movimento dei lavoratori,
il ruolo del sindacato, e di affermare il comando assoluto dell’impresa
nella precarizzazione integrale dei rapporti di lavoro. Un modello intrinsecamente
autoritario, in cui l’annullamento di ogni diritto, libertà,
autonomia delle lavoratrici e dei lavoratori, è l’altra
faccia di una riorganizzazione delle relazioni sociali fondata sulla
dipendenza e sul “favore”.
La crisi della Lega di governo
Una indubbia protagonista degli ultimi lustri è stata la Lega
Nord. Essa ha avuto la capacità di catalizzare nel tempo i malumori
ed i disagi del nord dove più forte è stato l’impatto
dalle trasformazioni neoliberiste e dalla globalizzazione e più
forte è il disfacimento della coesione sociale. Ha altresì
approfittato dell’abbandono ideologico, culturale e pratico del
classismo e della sinistra a seguito dello scioglimento del PCI, della
concertazione sindacale, del confuso passaggio dalla prima alla seconda
repubblica, cui il centro sinistra ha contribuito non poco. Il classismo
è stato sostituito dalla competizione fra territori e contro
il diverso. Via via le parole d’ordine della Lega Nord dal popolo
padano a “Roma Ladrona”, dal “padroni a casa nostra”
all’additare il migranti come nemico, ma anche banche, grandi
aziende, fino alla secessione di cui il federalismo doveva essere un
passaggio transitorio, hanno dato corpo ai disagi, rancori, egoismi
del nord; per poi scendere verso il centro.
La Lega Nord, ha costruito la sua identità con l’antipolitica,
millantando la difesa del territorio mentre ai livelli superiori votava
tutto il contrario.
Una passaggio importante, ma come vediamo ora, contradditorio, è
stata, dopo il fallimento del ’94, l’alleanza stretta con
Berlusconi. Alleanza avvenuta dai contorni poco chiari e che vede coinvolte
banche padane fallite, Berlusconi, Fiorani (P4). Prima Berlusconi era
berluskaiser, e la Padania inventò le dieci domande che vertevano
tutte sui modi poco chiari con cui Berlusconi era diventato ricco. La
prima delle quali era: sei un mafioso?
Con questa alleanza la Lega Nord è diventato partito di governo
condizionandone non poco la politica del governo. E questo avveniva
tanto più aumentavano le difficoltà del Presidente del
Consiglio. Ora la Lega nord governa tre Regioni, un terzo della popolazione,
il 60% della produzione industriale.
Una forte carica identitaria ha permesso di gestire grandi contraddizioni
ma la crisi globale, le politiche europee, le vicende del premier hanno
tuttavia reso questo sempre più problematico. La politica della
Lega Nord si è dimostrata inefficace a difendere lavoratori e
piccole e medie imprese dalla globalizzazione, la lotta alle delocalizazioni
è via via scemata, sulla vicenda Mirafiori si è inchinata
all’odiata Fiat, si è ammorbidito il contrasto con le banche,
con la finanza ed il giudizio sulla stessa Europa. La guerra a Gheddafi,
la verifica concreta che una cosa sono gli slogan ed una cosa è
la gestione concreta dei flussi migratori, le manovre lacrime e sangue
con la macelleria sociale dei ceti medi e popolari, un federalismo che
alla prova dei fatti è anch’esso tagli e aumenti di tasse
e tariffe, hanno messo in crisi la Lega, aperto un aspro scontro interno
che non si era mai visto, posto il problema di una riconversione politica
anche nella previsione che il centro destra non vinca più le
elezioni. È in crisi la Lega di governo, la Lega nazionale. L’alternativa
è il ritorno all’antico: la secessione. Questa pare essere
l’approdo della crisi della Lega di governo nel tentativo di rimanere
un partito regionale di destra a base di massa. La crisi economica e
le tensioni dell’Euro possono favorire questa prospettiva politica
che quindi va presa molto sul serio. Non è detto che però
questa carta funzioni e in quel caso è molto probabile che la
Lega torni a giocare fino in fondo la carta del razzismo da spingere
alle estreme conseguenze. In questo caso, più che un partito
regionale di destra, assumerebbe le caratteristiche del partito di estrema
destra, in sintonia con un fenomeno ben presente a livello europeo.
I poteri forti.
In questo contesto, i poteri forti del paese stanno operando per dare
uno sbocco politico di destra alla evidente crisi del berlusconismo.
Il loro obiettivo è di sostituire Berlusconi costruendo una piena
sintonia con la leadership europea della Merkel e della BCE. Parallelamente
sono evidenti i tentativi di distruggere completamente i partiti politici
e di privatizzare tutto, a partire dall’ informazione.
Da qui nascono i tentativi di scalzare Berlusconi evitando in modo chirurgico
ogni spostamento a sinistra. Sono le proposte di governo del presidente,
i ripetuti riferimenti a Monti come possibile capo dell’esecutivo.
Questi tentativo, trovano nell’accordo interconfederale del 28
giugno una base di supporto materiale e vedono nella destabilizzazione
del PD - per normalizzarlo ulteriormente - e della Cgil punti di passaggio
rilevanti.
Il ragionamento che viene fatto è la necessità di togliere
un governo presieduto da un inetto impresentabile a livello europeo,
per dar vita ad un governo di responsabilità nazionale che applichi
in modo ferreo i dicktat europei in nome della salvezza dell’economia
e della nazione. L’accordo tra le parti sociali rappresenta quindi
una base materiale su cui costruire questo governo, mentre la sua legittimazione
extraparlamentare è data sia dal consenso delle parti sociali
che dalla benedizione del Presidente della repubblica.
Abbiamo quindi una concorrenza, sulla stessa linea di Maastricht, tra
un Berlusconi che resiste e cerca di continuare fino alla fine della
legislatura e un tentativo di determinare gli equilibri del futuro,
con l’obiettivo di una uscita a destra dalla crisi del berlusconismo.
Non a caso, sul piano politico, il principale alfiere di questi tentativi
è Casini che in questi anni ha ritagliato un ruolo per il polo
di centro di concorrenza a Berlusconi sul suo stesso terreno di interlocazione
con il Vaticano e i poteri forti.
La questione sindacale oggi.
L’azione del governo, che traduce oggi il disegno già
contenuto nel Libro Bianco del 2001 di Maroni, riscrive il ruolo del
sindacato dentro la compiuta ridefinizione neocorporativa del modello
sociale. E’ il sindacato della bilateralità, quello che
trae la sua legittimazione non più dalla rappresentanza dei lavoratori
e dalla contrattazione, ma dalla cogestione con le imprese di una pluralità
di funzioni impressionanti, conseguenti ai processi di privatizzazione
del welfare e alla distruzione della funzione pubblica: “mercati
locali del lavoro e dei servizi che danno valore alla persona, quali
sicurezza, formazione, integrazione del reddito, ricollocamento, certificazione
dei contratti di lavoro.. previdenza complementare, assistenza sanitaria,
oneri per la non-autosufficienza” secondo il riepilogo dei compiti
da assegnare agli enti bilaterali, contenuto in un altro Libro Bianco,
quello del ministro Sacconi.
La questione sindacale oggi non può prescindere dal fare i conti
con la ridefinizione radicale del ruolo del sindacato che viene avanzata.
Una ridefinizione che se nella politica del governo Berlusconi assume
la consueta declinazione estremistica, attraversa il dibattito sul sindacato
non solo nel nostro paese, come conseguenza dell’indebolimento
delle organizzazioni sindacali che la globalizzazione capitalista ha
comportato.
Riaffermare un modello di sindacato che pone al centro l’autonoma
rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori, la loro potestà
sulla contrattazione della prestazione lavorativa, richiede un deciso
salto di qualità. Nella capacità di lettura della crisi
del neoliberismo, collocandosi come parte di un movimento generale che
ne contrasti gli esiti distruttivi sul lavoro e sulla società.
Nella capacità di essere soggetto della ricomposizione del lavoro
rispetto ai processi di rottura dell’unità della classe
insiti sia nelle esternalizzazioni e nella moltiplicazione delle tipologie
del lavoro precario, come nella riarticolazione dei processi produttivi
su scala globale. Nella capacità di rinsaldare il vincolo con
le lavoratrici e i lavoratori con una proposta di democrazia radicale
nel rapporto tra lavoratori e organizzazioni sindacali.
Gli anni dell’ultimo governo Berlusconi, si sono caratterizzati
sul terreno sindacale in maniera particolarmente negativa in Italia,
anche rispetto al resto d’Europa. Cisl e Uil, imboccata decisamente
la via della bilateralità si sono distinte su scala europea per
essere le uniche due grandi centrali a non aver preso parte alle mobilitazioni
continentali indette dalla Ces, e per la subalternità e complicità
totale con i voleri del governo e di Confindustria: dagli accordi separati,
al collegato lavoro, fino al sostanziale assenso all’articolo
8 dell’ultima manovra. La Cgil si è opposta alla maggior
parte dei provvedimenti del governo e da sola ha promosso cinque sciopero
generali. La mancanza di un bilancio della stagione concertativa, le
modificazioni nel proprio quadro dirigente prodotte da quella stagione,
l’assenza di un dibattito sulle prospettive e il ruolo del sindacato
nella crisi del neoliberismo, ne hanno però condizionato l’azione.
Sia nell’incapacità di porsi come punto di riferimento
di un movimento duraturo di opposizione sociale, sia nella permeabilità
ai tentativi di uscita dalla crisi del berlusconismo nel segno della
“responsabilità nazionale” alla base dell’accordo
interconfederale del 28 giugno e del patto sociale del 4 agosto. Le
contraddizioni che attraversano la più grande organizzazioni
sindacali del paese, sono tuttavia, come dimostra anche la proclamazione
dello sciopero del 6 settembre, aperte ad esiti diversi.
Gli anni dell’ultimo governo Berlusconi sono stati però
anche anni di riconquista di una centralità e visibilità
del lavoro nello spazio pubblico. La stessa pesantezza dell’attacco
portato dalle destre e da Confindustria, l’estremismo del modello
Marchionne, hanno contribuito a far sì che attorno alla centralità
della condizione lavorativa, al nesso tra diritti del lavoro e difesa
della sostanza della Costituzione, alla necessità di contrastare
i processi di precarizzazione di massa, si coagulasse un inedito schieramento
di forze. Il ruolo soggettivo svolto dalla Fiom è stata un tramite
decisivo di questo processo. La Fiom ha rappresentato non soltanto la
“resistenza” all’offensiva Fiat, ma anche l’esperienza
sindacale che nel nesso tra conflitto e democrazia, ha individuato la
leva per la ricostruzione della soggettività del lavoro, e nella
ricerca delle connessioni tra i diversi conflitti, la premessa per la
ricostruzione di un movimento antiliberista.
La ricomposizione che è avvenuto sul terreno del sindacalismo
di base con la nascita dell’Usb indica un positivo processo di
superamento della frammentazione e della concorrenza tra sigle, con
l’obiettivo di costruire la massa critica necessaria per tradursi
in lotte non testimoniali.
Il valore del riconoscimento delle reciproche autonomie tra soggetti
sindacali e soggetti politici, significa per noi, operare perché
a partire dal merito, si determini la più ampia unità
d’azione dei sindacati nell’opposizione al tentativo di
azzeramento della contrattazione collettiva e dei diritti del lavoro,
perché si affermi un modello di sindacato di classe, del conflitto
e della democrazia, perché si determini un campo di forze politiche,
sindacali, sociali, in grado di dare sconfiggere Berlusconi , il berlusconismo,
le politiche neoliberiste.
Centro sinistra e nuovo Ulivo
Il carattere intimamente contraddittorio è il punto caratterizzante
il PD e il Nuovo Ulivo in fase di costruzione. Questo emerge anche nel
frangente della crisi del governo Berlusconi: la richiesta di dimissioni
di Berlusconi si sostanzia a volte con la richiesta di elezioni anticipate
e a volte con la disponibilità a sostenere un governo istituzionale.
Ovviamente questa contraddittorietà non è priva di un
centro gravitazionale: Il PD, si è schierato con la NATO, a favore
di tutte le guerre fatte dall’Italia negli ultimi decenni fatto
salvo l’Iraq. Convinto sostenitore dell’Unione Europea liberista
costruita con Maastricht e portatore di una idea di etica pubblica di
tipo europeo, che costituisce un elemento centrale della distinzione
da Berlusconi. Portatore di una ideologia e di una politica di liberismo
temperato, sostanziata dal progetto della costruzione di un rinnovato
compromesso sociale in Italia. Sostenitore del referendum per ripristinare
il “Mattarellum”, salvaguardando così il bipolarismo
dall’impresentabilità del “porcellum”. In sintesi,
il baricentro politico e culturale del gruppo dirigente del centrosinistra,
non tende alla costruzione dell’alternativa, che oggi, sul piano
politico non è per niente matura. Inoltre, rispetto ai due decenni
passati, la prospettiva prodiana della costruzione di un nuovo compromesso
sociale, viene completamente messa fuori gioco dalla crisi economica
e dalle politiche imposte a livello europeo. Politiche economiche e
finanziarie, peraltro non messe in discussione seriamente dal centro
sinistra.
Questi elementi, che ci sono ben chiari, motivano la nostra valutazione
di impraticabilità, nell’attuale fase politica, di un accordo
di governo. Essi non ci devono però far perdere di vista l’elemento
della contraddittorietà, che è quello più significativo
in relazione al dispiegarsi della nostra azione politica.
Ritroviamo infatti questa contraddittorietà nell’impianto
delle proposte che avanza in primo luogo il gruppo dirigente democratico.
Portatore di una idea di liberismo temperato ma anche attento alla redistribuzione
del reddito, alle istanze dei lavoratori. Attento alle istanze Vaticane
ma anche laico e attento ai diritti civili. Promotore delle riforme
istituzionali ma anche attento alle regole e alla difesa della Costituzione.
Interlocutore di Confindustria e schierato con Marchionne ma anche attento
alle istanze della Cgil e dei lavoratori. Bipolare, ma diviso tra chi
punta al bipartitismo e chi ad una maggiore articolazione democratica.
Questa contraddittorietà alberga nello stesso rapporto tra i
gruppi dirigenti e il “popolo” del centro sinistra. La domanda
di trasformazione sociale che è presente nella base del PD e
in generale del nuovo Ulivo, è generalmente assai più
di sinistra di quanto non esprimano i gruppi dirigenti. Su punti come
la patrimoniale, la precarietà, la guerra, questa contraddizione
è palese e visibilissima. La stessa piattaforma della Cgil sulle
questioni economiche e sociali è radicalmente diversa e più
avanzata delle proposte che l’opposizione avanza in parlamento.
A causa di questo impianto fortemente contraddittorio – che la
dice lunga sul carattere coercitivo ed “innaturale” del
sistema bipolare in Italia - il centrosinistra, che è fatto oggetto
di forti aspettative di cambiamento nelle fasi di opposizione, determina
poi rapidamente elementi di frustrazione quando va al governo. Vi è
una palese contraddizione tra la domanda sociale rivolta al centro sinistra
e il progetto dello stesso. Anche perché il centro sinistra attua
una certa disinvolta divisione tra propaganda e realizzazioni: lo abbiamo
visto nel mancato rispetto del programma del secondo governo Prodi ma
anche di recente nel referendum sull’acqua. I contenuti della
campagna referendaria del PD erano assai diversi dalla ricetta moderata
riproposta in modo plateale il giorno dopo la vittoria del referendum.
Questa situazione, si modifica prendendo in esame le singole forze politiche
che compongono il nuovo Ulivo, ma non viene radicalmente contraddetta.
L’Italia dei Valori, per una fase si è posizionata sul
lato sinistro della coalizione, pur collocandosi nel parlamento europeo
nel gruppo liberale. Nel passaggio delle elezioni amministrative, l’IdV
è stata protagonista con la Federazione della Sinistra, dell’appoggio
alla candidatura di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli. Dopo aver
svolto nei fatti una azione di supplenza nei confronti dell’assenza
della sinistra in parlamento, dando voce alla domanda di intransigente
opposizione al centro destra, ha scelto ora un terreno più moderato.
Sul piano delle politiche economiche, non si discosta significativamente
dal dibattito del PD. L’IdV si presenta quindi oggi come forza
responsabile del centro sinistra e costruisce il suo tratto distintivo
sul terreno della questione morale, con una curvatura che tende a presentare
il complesso dei problemi del paese in problemi di casta, sprechi e
ruberie.
Nemmeno Sinistra Ecologia e Libertà sfugge alla cifra contraddittoria
che caratterizza tutto il Nuovo Ulivo. La partecipazione alla fase costituente
di quest’ultimo, fortemente bipolare, unita alla promozione del
referendum per il ripristino del Mattarellum, contrasta con la domanda
di unità della sinistra di alternativa espressa da molte delle
persone che militano o simpatizzano per SEL e con i contenuti avanzati
che questa esprime su svariati terreni: dal no alla guerra alla lotta
alla precarietà, dalla difesa della scuola e dell’Università
pubblica alle proposte sui diritti sociali e civili. Anche nei gruppi
dirigenti di SEL si registrano posizioni diverse su terreni cruciali
– dalle questioni istituzionali ai temi del lavoro e della politica
economica – a testimonianza di un processo non ancora chiuso di
definizione dell’identità politica e culturale. Sta di
fatto - e questo appare a noi l’elemento più significativo
- che a SEL guardano molti compagni e compagne radicalmente critici
nei confronti del PD che auspicano la costruzione di una sinistra unitaria,
non certo di un nuovo Ulivo.
La richiesta di spostamento a sinistra del centro sinistra, si concentra
sul terreno della leadership, delle primarie. Anche questo contiene
un elemento fortemente contraddittorio: E’ del tutto evidente
che, in un sistema a base parlamentare, non basta cambiare il presidente,
ma il nodo è modificare a fondo i programmi che impegnano i parlamentari,
pena una sostanziale inefficacia. L’esempio di Obama, impossibilitato
anche quando aveva la maggioranza parlamentare a realizzare il suo programma,
è li a dimostrarlo. La stessa esperienza del Prodi bis, dove
una significativa presenza parlamentare delle forze di sinistra non
è certo bastata per modificare l’asse delle politiche economiche
del centrosinistra. Non ci pare che la proposta delle primarie sia oggi
in grado di determinare questo spostamento. Anche perché, di
fronte alla più grave crisi del capitalismo dal ’29 ad
oggi, dalle forze di centro sinistra è continuata la polemica
con Berlusconi e non si è sentito quasi nulla riguardo ad una
seria messa in discussione delle politiche europee, che sono all’origine
della profondità della crisi economica. Tanto meno si è
sentito qualcosa sul carattere specificatamente capitalistico della
crisi e sulla necessità di costruire una prospettiva anticapitalistica.
Potremmo continuare a lungo nella descrizione ma il punto di fondo non
cambierebbe e per quanto ci riguarda è riassumibile nella constatazione
che una parte significativa della gente che vota e si identifica nel
centro sinistra è portatrice di richieste e posizioni politiche
decisamente più radicali dei gruppi dirigenti. In secondo luogo,
che la strada scelta delle primarie non è per nulla sufficiente
a colmare questa divaricazione e che – al fondo – non esiste
un popolo del centro sinistra radicalmente separato da un popolo della
sinistra. Esiste un popolo di sinistra, in larga parte disorientato,
a cui occorre avanzare una proposta politica coerente con le sue aspirazioni
e con la necessità di uscire da sinistra dalla crisi.
La costruzione dell’alternativa non consiste infatti nella denuncia
dei cedimenti altrui ma nella concreta capacità a definire percorsi
praticabili di accumulo di forze e di trasformazione. Per questo proponiamo
la costruzione di una opposizione unitaria, la rottura del bipolarismo
e la costruzione di un polo della sinistra di alternativa. Non assumiamo
quindi la costruzione del nuovo Ulivo come un dato di fatto immodificabile,
ma piuttosto come un terreno di battaglia politica, proponendo alla
sinistra la costruzione di un polo della sinistra di alternativa, come
terreno necessario al fine di conquistare l’uscita a sinistra
dalla crisi.
La contraddizione tra la domanda sociale e le risposte politiche
Gli effetti della crisi e il resistere, contemporaneamente, di culture
ed esperienze critiche, hanno determinato nel paese una forte domanda
di cambiamento, in cui nelle esperienze più avanzate, l’antiberlusconismo
si intreccia con l’antiliberismo.
Il ruolo svolto dalla Fiom, nella tenuta del conflitto di classe e nella
ricerca, a partire dal 16 ottobre, delle connessioni con altri soggetti
sociali e soggettività di movimento, ha permesso l’incontro
tra temi e soggetti del conflitto che hanno radice comune ma, fino ad
allora, sbocco differente, a partire da quello tra operai metalmeccanici
e giovani generazioni, dunque mondo studentesco.
Come in Grecia, Spagna e Nord Africa, anche in Italia le giovani generazioni
di studenti e precari sono state protagoniste di un grande movimento
di opposizione alle politiche neoliberiste, dell’Europa e di questo
Governo, il quale con provvedimenti come la Riforma Gelmini ha mostrato
uno dei suoi volti peggiori.
Studentesse, studenti, precari, hanno attraversato il Paese, le piazze,
hanno occupato i tetti, le stazioni, le strade, con la volontà
di lottare per ottenere i propri diritti, a partire da quello ad attraversare
con dignità il presente, per potere abitare pienamente il futuro.
Una lotta consapevole, in una società di diritti negati, da quello
alla formazione in scuole e università che non siano sempre più
classiste ed asservite a mercato e Vaticano, fino a quello al lavoro,
ormai sempre più strumento del capitale per se stesso e non più
di chi lavora e per chi lavora.
Un Paese come il nostro, dove l'investimento nella ricerca è
agli ultimi posti d'Europa, dove chi governa e le figure chiave del
sistema hanno l'età media più alta d'Europa, dove vige
la politica del favore anziché quella del diritto, si ritiene
ancora necessario e urgente rivoluzionare ogni cosa. Lo scorso anno,
di cui il 14 dicembre è stato l’emblema per le lotte di
questa generazione, è stato solo l’inizio di quella che
in quelle piazze hanno chiamato appunto “ri-presa del futuro”.
Un anno che ricorderemo anche per le mobilitazioni delle donne, che
hanno segnato lo spazio pubblico, spesso con un’eccedenza di radicalità
rispetto alle stesse piattaforme di convocazione delle manifestazioni,
che a volte peccavano di compatibilità con il sistema. Nelle
piazze è giunta la denuncia della regressione culturale che il
governo Berlusconi sta producendo nella società, attraverso l’oscena
e grottesca esibizione di un potere maschile che, sempre più
in crisi, trae linfa dalla mercificazione del corpo delle donne.
Hanno portato il disagio, mai superato, del doppio lavoro, produttivo
e riproduttivo, che continua a scaricarsi su di loro, nella perpetuazione
della divisione sessuata del lavoro, il cui peso assume sempre maggiore
carattere discriminatorio a causa dei continui processi di attacco al
welfare. Hanno portato la contestazione di uno spazio pubblico - ottimamente
rappresentato dalla politica e dalle istituzioni- ancora pesantemente
segnate dal monopolio e dal dominio maschile.
Le mille vertenze ambientali contro il consumo del territorio, di cui
è emblematica le lotte di popolo contro la Tav in Val di Susa,
contro il Ponte sullo Stretto e le tante forme in cui la coscienza del
limite sta modificando stili di vita e producendo nuove pratiche sociali.
Quella coscienza del limite, che nel passaggio dei referendum ha conquistato
la maggioranza tra il popolo italiano, nel rifiuto del nucleare e nella
rimessa in discussione, a partire dall’acqua, delle privatizzazioni,
di quel pensiero unico che ha accompagnato le nuove enclosures della
globalizzazione neo liberista.
La domanda di cambiamento attraversa la società italiana. Si
è espressa con nettezza nei referendum, e con altrettanta nettezza
alle elezioni amministrative, che hanno sconfitto un altro dogma di
questi anni: quello per cui si vince al centro nella perpetua rincorsa
al voto “moderato”, nell’omogeneizzazione degli schieramenti.
E’ tutt’altro che semplice tuttavia il processo di messa
in connessione dei movimenti, la costruzione di luoghi condivisi, spazi
pubblici in cui si sedimentino le relazioni tra soggetti e obbiettivi,
si determini un salto di qualità, di progetto e mobilitazione.
Né questa domanda di cambiamento trova una sponda in una sinistra
antiliberista di dimensioni sufficienti, ne una possibile alternativa
sul piano del governo e delle politiche economiche.
Questo contribuisce non poco a determinare una situazione in cui i movimenti
sono in larga parte difensivi e di resistenza. Determinati più
dalla pesantezza dell’attacco dell’avversario che non da
una propria capacità di iniziativa. Questo vale sia sul piano
della democrazia che sia piano dei diritti dei lavoratori, dei diritti
sociali e civili. Questa situazione tende a generare sia una pulsione
alla rivolta che una relativa percezione di impotenza, che risulta essere
il dato maggiormente caratterizzante la situazione. Ovviamente la categoria
dell’impotenza va presa con le molle perché vive in modo
diversificato in ordine sia alle concrete condizioni lavorative che
alla propensione al conflitto. Laddove minore è l’organizzazione
sindacale e la pratica del conflitto, maggiore è la percezione
di impotenza. Laddove l’organizzazione e o il conflitto è
più forte, la costruzione di un nuove senso comune di appartenenza
è una realtà che si tocca con mano.
Il punto politico è quindi che vi è in Italia una domanda
di alternativa che risulta frustrata in particolare dalla dinamica concreta
determinata dal bipolarismo. Guardando il fenomeno in una prospettiva
oramai ventennale, possiamo notare come durante i governi di Berlusconi
maturi una opposizione di massa che eccede significativamente i contenuti
politici e culturali delle forze del centro sinistra. Questa domanda
eccedente è una risorsa politica importante che viene però
deformata dal carattere bipolare del sistema istituzionale. Mentre un
sistema proporzionale infatti determinerebbe in modo più fluido
una scelta politica, nel caso italiano ci troviamo di fronte ad una
doppia sovra determinazione che complica tutto: da un lato la necessità
di cacciare del destre e dall’altra la richiesta di modifiche
radicali nelle politiche economiche e sociali. Inoltre questi due elementi,
entrambi presenti nei movimenti e – in pesi diversi – contraddittoriamente
presenti nei ragionamenti delle persone singole, non entrano in gioco
nello stesso momento: Mentre il dato sistemico della sconfitta delle
destre pesa nella fase elettorale, il dato relativo ai contenuti, tende
ad emergere dopo, nella concreta attività di governo.
In conclusione
Possiamo dire che nella crisi della Seconda repubblica sono messe in
discussione le conquiste che riguardano ben tre cicli della storia del
paese. In primo luogo il ciclo degli anni ’70 che la controrivoluzione
berlusconiana vuole definitivamente seppellire. In secondo luogo, il
ciclo nato dalla lotta partigiana e che ha visto nella Costituzione
e nella presenza della sinistra e del movimento operaio organizzato
i propri caratteri distintivi. In terzo luogo la messa in discussione
della stessa unità del paese.
Dobbiamo quindi avere la consapevolezza che il nostro compito non si
esaurisce nella battaglia politica quotidiana ma chiede una capacità
di riprendere i fili della storia del paese per proporre oggi una alternativa
e un diverso svolgimento che si colloca a livello politico ma anche
culturale e sociale.
Questo in un contesto in cui vi è una significativa disponibilità
al conflitto, una significativa capacità di egemonia dei movimenti
in grado di condizionare l’opinione pubblica, ma, nel contempo,
la drammatica immaturità del tema dell’alternativa sul
piano politico e la totale non coincidenza tra il tema dell’alternanza
e quello dell’alternativa.
Dalla necessità di dare un risposta politica compiuta a questa
situazione nasce la nostra proposta politica di uscita a sinistra dalla
crisi.
IL NOSTRO PROGETTO POLITICO
Il nostro progetto di fondo, la nostra ragion d’essere, è
l’alternativa di società. Siamo uomini e donne che si battono
per la fuoriuscita dal capitalismo e dal patriarcato in direzione di
una società comunista.
Uscire dalla crisi
Questo progetto che ci guida, si articola concretamente, in questa fase
storica, nella lotta per l’uscita da sinistra dalla crisi del
capitalismo. E’ una crisi che produce sofferenze sociali e individuali,
che determina il netto peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro
della maggioranza della popolazione. La crisi produce insicurezza oggi
e paura del futuro: Con la crisi i cambiamenti avvengono, anche repentini,
ma sono negativi.
Questa crisi costituente produce regressione sociale e imbarbarimento
dei rapporti sociali. L’alternativa socialismo o barbarie la vediamo
concretamente maturare sotto i nostri occhi. In questo contesto l’uscita
da sinistra dalla crisi coincide con il tema della modifica profonda
dei rapporti sociali. Dentro il capitalismo neoliberista non esiste
nessuna uscita dalla crisi ma solamente la barbarie. Da qui deriva la
pericolosità delle destre che consapevolmente operano in direzione
della regressione sociale e civile e di qui matura l’inefficacia
delle forze del centro sinistra, incapaci di uscire dalla gabbia neoliberista.
Per questo noi riteniamo che l’uscita a sinistra dalla crisi corrisponda
agli interessi delle classi lavoratrici e della maggioranza della popolazione.
Operiamo affinché l’uscita a sinistra dalla crisi diventi
un aspirazione e venga riconosciuta una necessità a livello di
massa. Per questo ci poniamo l’obiettivo dell’uscita a sinistra
dalla crisi come obiettivo di fase, che orienti il nostro lavoro politico
nei prossimi anni, a livello italiano come a livello europeo e mondiale.
Costruire l’opposizione
Porsi l’obiettivo di uscire a sinistra dalla crisi significa innanzitutto
costruire l’opposizione contro le destre e le politiche di gestione
capitalistica della crisi a partire dall’aggressione alla democrazia
e al lavoro. L’efficacia delle politiche antisociali che il governo
sta attuando dipende innanzitutto dal grado di opposizione che saremo
in grado di produrre. La costruzione di un vasto movimento di opposizione,
sociale, culturale e politico è quindi il primo compito a cui
dobbiamo lavorare. Questa opposizione, che ha un punto comune nella
difesa della democrazia e della Costituzione, per sua natura, non può
che essere articolata, con posizioni più avanzate e altre più
arretrate: dall’antiberlusconismo interclassista al conflitto
contro Confindustria, alla lotta antiliberista. Basti pensare alla differenza
tra l’iniziativa in difesa della democrazia di piazza del popolo
del 13 marzo scorso e la lotta NO TAV in Val di Susa. Le caratteristiche
variegate dell’opposizione non devono essere un ostacolo al suo
sviluppo e noi abbiamo il compito di attraversare tutte le forme di
costruzione dell’opposizione, costruendo nessi e legami e puntando
ad una sua maturazione e alla costruzione di una soggettività
di massa antiliberista.
Cacciare Berlusconi.
Rifondazione Comunista si pone quindi l’obiettivo di far cadere
il governo Berlusconi, di farlo cadere da sinistra e di andare alle
elezioni anticipate. Parimenti contrastiamo nettamente le ipotesi di
stabilizzazione moderata che puntano a sostituire Berlusconi con un
governo “tecnico” o “istituzionale” che accentui
ulteriormente il carattere padronale e subalterno alle tecnocrazie europee
delle politiche economiche.
La cacciata di Berlusconi dal governo del Paese rappresenta una priorità
assoluta, una condizione necessaria sul piano sociale ma anche per impedire
un avvitamento ulteriore del degrado politico e morale delle istituzioni
e il pericolo di colpi di coda di tipo autoritario o che colpiscano
l’indipendenza e l’autonomia dei poteri costituzionali.
Da qui – nel quadro dell’attuale legge elettorale maggioritaria
- la nostra proposta di dar vita ad un Fronte democratico tra le forze
di sinistra e di centro sinistra per sconfiggere le destre e porre condizioni
migliori per difendere e rilanciare la democrazia e la Costituzione,
contrastare gli effetti sociali negativi della crisi e superare il bipolarismo.
Il contrasto radicale alle destre è infatti costitutivo del profilo
politico e culturale di Rifondazione Comunista. Ricordiamo che nel 2001,
nel massimo del contrasto con il centro sinistra e nel pieno di una
campagna denigratoria che intendeva descrivere il Prc come una forza
che favoriva la vittoria delle destre, Rifondazione Comunista praticò,
nelle forme consentite dalla legge elettorale, la desistenza unilaterale
nell’elezione della Camera dei Deputati.
La nostra valutazione di fase, per quanto riguarda l’impraticabilità
di un accordo di governo, non rende però meno necessaria la battaglia
per la qualificazione programmatica dell’alleanza contro le destre.
Riteniamo necessario contrastare la separatezza delle dinamiche politiche
al fine di costruire una relazione forte tra contenuti e aspirazioni
del conflitto sociale e confronto politico.
Dobbiamo quindi agire questa nostra proposta in modo dinamico, nella
piena convinzione che molta parte degli uomini e delle donne che vogliono
cacciare Berlusconi, si pongono contemporaneamente il problema di costruire
politiche alternative e fuoriuscire dal quadro neoliberista. Questa
domanda politica, di cambiamento radicale, non riesce oggi a determinare
i comportamenti delle forze politiche di opposizione.
Nostro compito politico è operare al fine di massimizzare la
capacità di questa domanda di trasformazione sociale di incidere
sul quadro politico. Per questo dobbiamo stare fino in fondo nel processo
politico che porterà alla costruzione di uno schieramento alternativo
a quello delle destre e lo dobbiamo fare ponendo al centro la questione
dei programmi e del progetto complessivo con cui sostituire le politiche
delle destre. Costruire a livello di massa il dibattito sui programmi
è decisivo per determinare un coivolgimento effettivo dei soggetti
sociali che hanno lottato contro Berlusconi e per massimizzarne il peso
politico. Occorre uscire da una discussione ridotta a pura questione
di schieramenti per aprire nella società una discussione sul
che fare nel dopo Berlusconi.
Per questo abbiamo avanzato e riproponiamo il tema delle primarie di
programma. Vogliamo che la discussione sui punti qualificanti dello
schieramento che nel sistema bipolare si contrapporrà alle destre,
avvenga in modo allargato, nel pieno coinvolgimento dei movimenti e
soggetti sociali che in questi anni si sono battuti contro il neoliberismo
e hanno costruito l’opposizione concreta al governo Berlusconi.
Proponiamo le primarie di programma non per determinare i rapporti tra
noi e il nuovo Ulivo ma come condizione più favorevole per rendere
permeabile lo schieramento antiberlusconiano alle domande sociali. La
sconfitta delle ipotesi centriste che cercano di egemonizzare l’opposizione
a Berlusconi può avvenire unicamente in un processo di coinvolgimento
pieno dei soggetti sociali che l’opposizione a Berlusconi e al
Berlusconismo l’hanno fatto e la stanno facendo concretamente.
In questo quadro, non riteniamo centrali le primarie per la scelta del
capo del governo, che introiettano le distorsioni del maggioritario
e del presidenzialismo e che affrontano le questioni di contenuto come
sottoprodotto della definizione del leader e nell’affidamento
alla persona.
Riteniamo invece decisivo il coinvolgimento dei movimenti, delle associazioni,
dei lavoratori, dei tanti comitati che innervano il tessuto democratico
del Paese e hanno sostenuto l’opposizione al governo delle destre.
E’ dentro quel campo largo che deve essere raccolta e alimentata
la sfida sulle idee e i programmi per battere le destre. Siamo infatti
convinti che su molti contenuti – dalla guerra alla patrimoniale
alla tutela del lavoro, ai diritti civili, per non fare che alcuni esempi
– il popolo antiberlusconiano esprime contenuti politici molto
più avanzati di quelli delle rappresentanze politiche. Questo
è il terreno di sfida che vogliamo porre .
Avanziamo questa proposta sapendo che la sconfitta di Berlusconi non
coincide con la costruzione dell’alternativa, perché l’indirizzo
politico maggioritario del centrosinistra non si pone l’obiettivo
di fuoriuscire dalle politiche neoliberiste. Questa consapevolezza,
sulla non coincidenza tra alternanza e alternativa, rafforza il nostro
proposito di superare il bipolarismo, verso un sistema elettorale proporzionale,
per uscire da sinistra dalla crisi seconda repubblica.
La nostra previsione sul profilo del centro sinistra e sull’assenza
delle condizioni politiche per determinare attraverso le elezioni una
alternativa al neoliberismo, deve quindi essere una bussola. Non un
impedimento al pieno dispiegarsi di una nostra offensiva politica unitaria
sui contenuti da immettere nel fronte antiberlusconiano.
Per un Movimento di massa antiliberista
Come abbiamo sottolineato la cacciata di Berlusconi non risolve il tema
dell’uscita a sinistra dalla crisi. Occorre costruire una opposizione
di massa alle politiche neoliberiste, italiane ed europee, uscendo dai
confini asfittici della dimensione nazionale e superando i limiti di
un antiberlusconismo interclassista.
Contribuire alla costruzione di un movimento di massa anticapitalista,
radicato nel paese ma con forti legami a livello europeo e mondiale
è quindi il secondo obiettivo che ci poniamo. L’assemblea
dei movimenti tenutasi a Genova il 24 luglio scorso e la manifestazione
unitaria del 15 ottobre sono stati primi positivi passi in questa direzione.
Si tratta innanzitutto di estendere i movimenti presenti e di qualificarne
la piattaforma nella capacità di collegare i motivi specifici
della propria lotta con una critica alle politiche neoliberiste. Passo
rilevantissimo a cui dobbiamo lavorare e che determina la possibilità
di intrecciare maggiormente le lotte in forma non episodica.
La costruzione di un movimento di questa natura è possibile solo
nella piena consapevolezza che questo deve mantenere una piena autonomia
dal quadro politico e dal governo. Un movimento antiliberista non può
oggi avere un unico punto di riferimento politico, non può avere
governi amici da sostenere ed è per sua natura pluralista sul
piano politico. Del resto i movimenti antiliberisti che concretamente
si presentano oggi sulla scena hanno proprio questa caratteristica plurale
come elemento costitutivo. Avanziamo questa riflessione a partire da
una valutazione autocritica del ruolo che Rifondazione Comunista ha
svolto - dopo il referendum sull’articolo 18 - nei confronti della
possibilità di consolidare un forte movimento antiliberista dopo
Genova. La costruzione del movimento non può essere storpiato
dalle storture determinate dal bipolarismo coatto in cui viviamo e che
– anche per questo – vogliamo superare.
Dobbiamo rovesciare la crisi costituente in una opposizione costituente
di una nuova soggettività anticapitalistica.
La Costituente dei Beni Comuni e del Lavoro
Nel quadro del movimento antiliberista avanziamo la proposta di costruire
una Costituente dei Beni Comuni e del Lavoro. Costruire cioè
un progetto politico di aggregazione di tutti coloro che ritengano la
prospettiva dei beni comuni e della liberazione del lavoro la strada
attraverso cui consapevolmente porre il tema del superamento della mercificazione
delle cose e dei rapporti sociali.
Parlano di questa esigenza la campagna che ha portato alla vittoria
nei referendum per l’acqua pubblica, come i conflitti di lavoro
o su base territoriale come il movimento NO TAV in Val di Susa. L’efficacia
dell’azione politica dei movimenti di lotta è direttamente
proporzionale alla costruzione di un progetto comune che diventi una
presenza stabile nel paese. Da questo punto di vista la parola d’ordine
della Costituente dei beni comuni e del lavoro può diventare
un obiettivo praticabile in quanto percepito come una necessità
vera da parte degli animatori dei principali movimenti. Questo sapendo
che i passaggi non sono per nulla automatici ma politici. Il passaggio
da movimenti unificati dal comune avversario fisicamente identificato
ad un conflitto contro la gestione capitalistica della crisi, è
tutto da fare e necessita l’individuazione degli obiettivi intermedi
ma anche la costruzione di una lettura anticapitalista della crisi.
Il termine Costituente indica quindi un passo in avanti rispetto alla
dimensione del movimento sia in termini organizzativi che in termini
di consapevolezza e di definizione degli obiettivi. Tra i soggetti collettivi
che possono concorrere alla costruzione di una Costituente dei Beni
comuni e del lavoro, vi sono soggetti politici così come vi sono
soggetti che in nessun modo possono far parte organicamente di un soggetto
politico istituzionale. Così come il quadro bipolare ci consegna
– a partire da comuni obiettivi e contenuti condivisi –
diverse ipotesi di collocazione politica istituzionale. Proponiamo quindi
la Costituente dei beni comuni e del lavoro come “istituzione
di movimento” che, a partire da obiettivi chiari, sappia confrontarsi
con il sistema istituzionale senza esserne da questo trasfigurata.
L’unità della sinistra di alternativa
L’esperienza di questi anni ci insegna che senza la sinistra non
c’è opposizione efficace, né politica né
sociale, giacché neppure l’opposizione sociale, pure così
radicale e attiva in questo ultimo anno, riesce a riaprire il terreno
dell’alternativa. Per questo, nell’ambito del movimento
di massa anticapitalista, proponiamo un percorso unitario per costruire
un polo politico autonomo della sinistra di alternativa. Riteniamo infatti
necessario superare l’attuale dispersione e frantumazione che
incide assai negativamente sull’efficacia e sulla credibilità
della nostra azione. Avanziamo questa proposta a tutte le formazioni
politiche di sinistra, così come alle compagne e ai compagni
dei movimenti che variamente organizzati, si pongono la necessità
politica di costruire una sinistra degna di questo nome. In particolare,
riteniamo che la soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori,
la loro organizzazione, il concreto manifestarsi della lotta di classe,
rappresenti un elemento decisivo per l’esistenza della sinistra
di alternativa.
In tutta Europa si evidenzia il permanere e per certi versi l’approfondirsi
delle differenze tra le due sinistre. Così come in tutta Europa
sono in corso processi di aggregazione della sinistra di alternativa.
Si tratta quindi anche in Italia di aggregare la sinistra di alternativa,
in sinergia con il movimento di massa, con la Costituente dei beni comuni
e del lavoro, con l’impegno della Federazione della Sinistra.
Occorre organizzare il campo delle forze che si pongono il problema
di uscire dalle politiche neoliberiste in una direzione anticapitalista
e di uscire dalla Seconda Repubblica superando la gabbia del bipolarismo.
Nel ritenere Rifondazione comunista necessaria per l’oggi e per
il domani avanziamo quindi una proposta unitaria, federata, volta ad
archiviare una stagione di scissioni che abbiamo subito ma che hanno
inciso in modo pesantemente negativo sulla credibilità della
sinistra. Va riedificato l’agire collettivo, attivando le forme
della democrazia partecipativa, reinventando le relazioni tra movimenti
e partito, facendo coesistere esperienze diverse disposte a riconoscersi
reciprocamente, praticando esperienze di democrazia diretta a partire
dall’uso dello strumento del referendum come è accaduto
nella straordinaria esperienza di quelli sull’acqua e nucleare.
La costruzione di una sinistra di alternativa passa anche attraverso
la forte valorizzazione delle esperienze locali. Già in occasione
delle scorse elezioni amministrative si sono formate sui territori aggregazioni
di forze politiche e sociali che hanno assunto un profilo politico e
programmatico dichiaratamente antiliberista. Talvolta, queste aggregazioni
hanno dato vita a coalizioni alternative, in altri casi hanno dato vita
a liste unitarie di sinistra, anche nell’ambito di coalizioni
di centro – sinistra. In ogni caso, esse hanno raccolto una nuova
domanda emergente a livello locale che non solo rimette in discussione
l’idea di governo come istanza separata, ma che pone anche la
necessità di politiche alternative a quelle abitualmente praticate.
Elementi comuni di queste esperienze sono stati: la rivendicazione di
un’estensione delle pratiche partecipative, la difesa del pubblico
contro la logica delle privatizzazioni, la difesa del welfare come condizione
per il sostegno ai redditi medio-bassi, la salvaguardia dell’ambiente
e un modello di sviluppo eco-compatibile, la difesa più ampia
dei diritti, nello spirito dell’inclusione e della solidarietà.
In queste esperienze si sono consolidate pratiche, relazioni unitarie,
aperture vere alle istanze sociali e ai movimenti che vanno sostenute,
allargate, consolidate, e connesse, con l’obiettivo della costruzione
di una “rete dell’alternativa”.
Proponiamo un processo unitario a base federativa, partecipato e democratico,
che coinvolga a pieno titolo tutte le realtà disponibili sia
a livello nazionale che territoriale, recuperando le relazioni e le
sperimentazioni della Sinistra Europea; dovrà costruirsi sulla
base di un lavoro politico comune, articolato e sperimentato nei territori
e radicato nei conflitti, a partire dalle lotte per il lavoro e per
la giustizia sociale. Un processo che Rifondazione Comunista propone
alle forze politiche, sociali, culturali, associative, a singole e singoli
disponibili a costruire un polo politico autonomo dal centro sinistra
e capace di una rinnovata critica del modo di produzione capitalistico
e di un’alternativa di società. Un polo politico che si
propone di incidere sul piano politico e nello stesso tempo capace di
rappresentare un progetto strategicamente alternativo, che assuma come
fondative e discriminanti la connessione tra anticapitalismo, critica
al patriarcato, riconversione ambientale e sociale dell'economia, antirazzismo,
pacifismo, solidarietà internazionale, lotta contro l'omofobia,
critica della politica come attività separata e del bipolarismo.
La Federazione della Sinistra.
Nella prospettiva di costruzione di un polo autonomo della sinistra
di alternativa abbiamo dato vita alla Federazione della Sinistra. Lo
abbiamo fatto con il Partito dei Comunisti Italiani, con Socialismo
2000, Lavoro e solidarietà e con altre soggettività presenti
nei movimenti di lotta, consapevoli di fare un primo ma indispensabile
passo. Una scelta unitaria compiuta proprio mentre subivamo l’ennesima
scissione, giacché riteniamo che non si costruisce unità
a sinistra attraverso rotture, e perché riteniamo che il patrimonio
di militanza e di saperi di Rifondazione Comunista sia fondamentale
per una prospettiva di sinistra e anticapitalista nel Paese.
Come abbiamo detto, il nostro obiettivo di fase è la costruzione
di un polo politico autonomo della sinistra di alternativa. Proponiamo
quindi a tutti coloro che fanno parte della Federazione della Sinistra
di agire in questa direzione e di operare affinché la Federazione
possa essere strumento utile a questo obiettivo.
La Federazione, così come essa oggi è, non rappresenta
certo la tappa conclusiva dell’aggregazione della sinistra di
alternativa. Siamo perfettamente consapevoli di tutti i limiti della
Federazione: di funzionamento, di radicamento sui territori, di democrazia
e relativi alle diversità politiche che l’attraversano.
Così come riconosciamo le nostre responsabilità a proposito.
Ci è ben chiaro che larga parte degli uomini e delle donne di
sinistra così come moltissime soggettività che si pongono
il problema di costruire una sinistra di alternativa oggi in Italia
non fanno parte della Federazione della Sinistra. Anche per questo ci
poniamo l’obiettivo di allargare la Federazione, qualificandone
il lavoro politico e democratizzandone il funzionamento.
Oggi non c’è nel Paese una realtà sociale passivizzata,
di questo ci parlano le tante mobilitazioni dell’anno in corso,
tuttavia c’è una realtà sociale assai distante dalla
sinistra politica. Nei corpi intermedi della società, sindacati,
associazioni, centri sociali, volontariato, come in quelle di movimento,
realtà di fabbrica, studenti, precari, operatori della cultura
dell’arte e dello spettacolo, c’è il deposito di
resistenze e di insorgenze. Qui vive un patrimonio di esperienze e saperi
che parla le lingue della sinistra, senza tuttavia riconoscerla come
utile per sé. Proponiamo che la Federazione cammini con questa
umanità, muova i propri passi mettendo a disposizione uno spazio
politico comune che ognuno e ognuna possa attraversare riconoscendolo
come proprio. Fondamento di questa possibilità dev’essere
la certezza della democrazia e del rapporto paritario tra tutti coloro
vogliano far parte della federazione.
Riteniamo infatti che il tema dell’unità a sinistra oggi,
lungi dal declinarsi nella forma dei nuovi partiti – che si risolvono
in nuove scissioni – trovano a nostro parere nella forma federativa
il suo punto più avanzato. La forma della federazione permette
di mettere in comune la sostanza delle cose che ci uniscono evitando
di riprodurre laceranti divisioni o addirittura scissioni sulle cose
che ci dividono.
Riteniamo quindi necessario operare per superare i limiti della Federazione,
a partire dal suo funzionamento democratico a tutti i livelli, al fine
di realizzare il comune obiettivo che ci siamo dati nel suo congresso
costitutivo. In quella sede abbiamo infatti deciso che: “E’
un soggetto politico e sociale che vive e trae alimento dalle risorse
ideali e umane delle diverse soggettività politiche che costituiscono
la Federazione, senza presupporre ne implicare lo scioglimenti dei partiti
esistenti e delle associazioni che decidono di farne parte, superando
i limiti già verificati della dinamica scioglimento dei partiti
esistenti – costituzione dei nuovi partiti”. In particolare
dobbiamo dare corso fino in fondo alla decisione espressa nel documento
congressuale che recita “la Federazione della Sinistra decide
di presentarsi unitariamente, come soggetto politico, con il proprio
simbolo, alle elezioni a tutti i livelli, sulla base della ispirazione
e del programma condivisi, e di assumere democraticamente, in modo vincolante
per tute e tutti, le decisioni relative alla partecipazione elettorale
e le regole per la vita delle proprie rappresentanze istituzionali”.
A partire dall’impegno nella costruzione e del miglioramento della
Federazione, siamo quindi perfettamente consapevoli che il tema della
costruzione di un soggetto politico della sinistra di alternativa, non
è oggi un dato acquisito, ma sta davanti a noi come compito politico
di fase. Non solo, siamo consapevoli che, le esperienze di governo prima
e le scissioni poi, hanno pesantemente indebolito il nostro progetto.
La proposta politica di Rifondazione Comunista si articola quindi su
più piani e con una pluralità di interlocutori, proprio
con l’obiettivo di costruire un movimento e un soggettività
politica anticapitalista in grado di porre concretamente il tema dell’uscita
a sinistra dalla crisi.
RIFONDAZIONE COMUNISTA
Il programma
Il programma non può che essere per noi un terreno di ricerca
aperto, la cui definizione va oltre questo congresso. Aperto al rapporto
con tutte le soggettività sociali e di movimento poiché
non esiste rivendicazione e obiettivo che possa vivere se non si incarna
in movimenti e conflitti reali e nella ricostruzione di un nuovo spazio
pubblico. Aperto all’interlocuzione con i saperi, che vivono tanto
nei luoghi istituzionalmente deputati alla produzione di conoscenza
quanto in quella crescita dei saperi sociali diffusi, che è risorsa
indispensabile per il cambiamento. Aperto al confronto a sinistra perché
la nostra proposta politica ha come elemento centrale la ricostruzione
di un polo della sinistra di alternativa capace di essere massa critica
sufficiente a determinare un’altra agenda della politica.
La funzione che assegniamo a questa ricerca ha l’obiettivo di
mettere in connessione la necessità di dare risposta alle contraddizioni
sempre più drammatiche della crisi del capitalismo globalizzato
nella riattualizzazione di un’alternativa di sistema, con l’individuazione
della parole d’ordine capaci di rompere qui ed ora il senso di
impotenza che rischia di essere l’elemento sovradeterminante.
Sia per la “naturalizzazione” della lettura della crisi
che i poteri forti e l’apparato mass-mediatico continuamente ripropongono,
sia per i meccanismi messi in campo a livello europeo che nel rimando
di responsabilità tra tecnocrazie europee e stati nazionali,
rendono difficile l’individuazione di una controparte in grado
si assumere decisioni cogenti, mentre sono ancora embrionali le lotte
a livello continentale.
Quel livello europeo che noi riteniamo decisivo, quello su cui si giocherà
la vera partita politica. Il terreno europeo, la costruzione di un efficace
partito della Sinistra Europea non è quindi per noi questione
di politica estera ma punto decisivo della possibilità di costruire
una risposta da sinistra alla crisi costituente del capitale.
Una piattaforma per uscire a sinistra dalla crisi
Le proposte che avanziamo sul terreno economico e sociale si muovono
su quattro assi fondamentali. Si tratta di mettere in campo politiche:
- di regolazione per contrastare la speculazione finanziaria, sia con
provvedimenti che abbiano un’immediata efficacia, sia agendo sui
meccanismi che hanno consentito lo sviluppo dei processi di finanziarizzazione.-
- redistributive: che attraverso la leva fiscale consentano di invertire
la crescita drammatica delle sperequazioni sociali e territoriali, che
salvaguardino i diritti sociali e promuovano una riforma universalistica
del welfare.
- di riqualificazione e riconversione delle produzioni, finalizzate
alla piena occupazione, alla produzione pubblica di beni collettivi,
alla salvaguardia dell’ambiente in una nuova alleanza tra lavoro
e natura.
- di contrasto della precarietà e per i diritti del lavoro.
L’EUROPA
L’Europa è il terreno sovranazionale indispensabile nel
quale realizzare scelte di politiche economiche,finanziarie e sociali
alternative alle politiche neoliberiste. Ciò è necessario
sia per ridefinire il ruolo dell’Europa nella internazionalizzazione
dell’economia sia per cambiarne radicalmente le politiche monetariste
e neoliberiste, che tendono a distruggere l’unità europea
o attraverso la definizione di una Europa a due velocità o di
una vera e propria implosione dell’euro. Si tratta perciò
di porre l’obiettivo della “rifondazione democratica dell’Europa”
a partire dalla costruzione dell’Europa politica e sociale e dal
ruolo di guida delle sue istituzioni sulle scelte finanziarie della
BCE, per la costruzione di regole contro la speculazione finanziaria,di
realizzazione di un sistema: fiscale,di welfare , di diritti contrattuali
del lavoro omogenei, contro ogni forma di dumping sociale e fiscale.
Va quindi rilanciato e reso più efficace il Partito della Sinistra
Europea, ridefinita una sua piattaforma con la quale contribuire alla
costruzione ed unificazione delle lotte indispensabili a far vivere
questi obbiettivi, e per questo avanziamo alcune proposte:
1) Modifica dei trattati di Maastricht e dello Statuto della BCE trasformandola
in una Banca Centrale sottoposta alle direttive del Parlamento Europeo
e avente come obbiettivi istituzionali la piena occupazione e il finanziamento
dei Fondi Comunitari e degli Stati membri,attraverso l’acquisto
diretto dei titolo di Stato.
2) Pesante tassazione comunitaria sulle transazioni finanziarie speculative,
introduzione della Tobin Tax, adozione di un comune sistema fiscale,
a partire dall’abolizione dei paradisi fiscali, definizione di
una comune politica economica finalizzata alla piena occupazione e alla
riconversione ambientale e sociale dell’economia. Misure di contrasto
alle delocalizzazioni produttive.
3) Messa in discussione degli accordi GATT e WTO con la ricontrattazione
dei dazi per quanto riguarda le merci e introduzione del “labour
standard” per la loro circolazione.
4) Introduzione di una regolamentazione dei mercati finanziari attraverso:
a) l’istituzione di una autorità sovranazionale di regolazione
dei mercati finanziari(che vigili su derivati, hedge funds, private
equità, merchant bank, ecc.), b) la limitazione dell’effetto
leva di ciascun operatore (non superiore a 10 volte il valore del patrimonio
in gestione) e le posizioni dei singoli operatori su uno specifico sottostante,
c) l’inserimento di un tetto alle forme di incentivazione alla
vendita di prodotti finanziari per dirigenti, quadri e operatori del
settore del credito e della finanza, d) l’introduzione dell’obbligo
di trasparenza, verso la clientela, di tutte le forme di incentivazione
extra-contrattuale per la compravendita di prodotti finanziari e di
credito( mutui, fondi, obbligazioni, ecc.) e) la revisione dei criteri
per la concessione del credito alle piccole e medie imprese e alle imprese
sociali (revisione di Basilea 3) .
5) Contro l’Europa della BCE e dell’asse franco –
tedesco perseguiamo la costruzione di un’area euro-mediterranea
che sposti l’asse delle politiche europee verso il Mediterraneo
facendo di quest’ultimo un luogo di formazione di relazioni solidali
sul piano economico, culturale e civile.
1)Contrastare la speculazione e la finanziarizzazione.
Se la misura più efficace per contrastare la speculazione nell’immediato
passa dall’acquisto da parte della BCE di titoli di stato direttamente
da parte degli stati membri, sul piano nazionale vietare la vendita
di titoli allo scoperto, come altri paesi a partire dalla Germania hanno
fatto, consentirebbe di porre un freno ai meccanismi puramente speculativi.
Sono necessarie inoltre una serie di altre misure che intervengano sui
meccanismi che hanno consentito lo sviluppo dei processi di finanziarizzaione.
Dal ripristino del principio di separazione tra banche di deposito e
banche di investimento, dall’applicazione immediata delle regole
di Basilea 3, al divieto di gestione fuori bilancio di qualsiasi titolo,
alla costituzione di un polo pubblico del credito, sia trasformando
la Cassa Depositi e Prestiti in una banca pubblica, sia attraverso la
nazionalizzazione delle banche di interesse nazionale, come nodo decisivo
per riacquisire la capacità di indirizzare gli investimenti.
Vanno infine introdotti meccanismi che scoraggino l’accesso del
piccolo risparmio e delle risorse previdenziali dei lavoratori al mercato
finanziario. Per questo proponiamo la costituzione presso l’INPS
di un fondo pubblico per la gestione delle pensioni integrative, fiscalmente
conveniente.
Non è eludibile infine il nodo del che fare, nel caso in cui
le proposte che avanziamo sul piano europeo, in particolare in relazione
alla BCE non dovessero trovare spazio, e continuassero gli attacchi
speculativi all’Italia. In questo caso l’Italia deve ristrutturare
il debito, garantendo per intero i piccoli risparmiatori e allungando
unilateralmente i tempi di restituzione e la definizione delle cifre
da restituire alle grandi finanziarie, cioè agli speculatori.
Anche se nessuno ne parla, l’Islanda lo ha fatto con ottimi risultati.
2) Per politiche industriali pubbliche, per il contrasto delle delocalizzazioni.
L’eliminazione dei vincoli alla libera circolazione dei capitali
e i processi di finanziarizzazione, hanno avuto una pesante ricaduta
sui processi produttivi. I principali soggetti finanziari - fondi pensione
e di investimento, assicurazioni - sono proprietari oggi del 55% del
capitale di tutte le società quotate in borsa nel mondo, e pretendono
rendimenti annui del capitale di almeno il 15%, quattro-cinque volte
superiori alla crescita del PIL mondiale. Il neoliberismo predatorio
è all’origine delle esternalizzazioni, delle “catene
lunghe” delle produzioni, dei processi di delocalizzazione, per
massimizzare i profitti a breve. Quei processi che hanno agito un ricatto
pesantissimo sui lavoratori e i sindacati, riassunti nello spostamento
massiccio di ricchezza dal lavoro ai profitti e alle rendite: 10 punti
di Pil come media nei paesi OCSE, 15 in Italia, il paese che insieme
a Irlanda e Giappone presenta le peggiori dinamiche. La situazione italiana
per i processi politici e sociali che abbiamo analizzato, presenta dunque
un quadro negativo nel confronto con altri paesi europei. Aziende mediamente
più piccole del 40% rispetto all’Europa, investimenti diminuiti
negli ultimi trent’ani di quasi il 40% in rapporto alla crescita
dei profitti, mentre la ricchezza prodotta si trasferiva nei compensi
dei grandi manager e alle rendite (+87% dal ’90 al 2009), produzione
ad alto contenuto teconologico più bassa del 75% di quella media
delle imprese europee. Emblematica l’importazione del 98% dei
pannelli solari dall’estero. A fronte di salari tra i più
bassi in Europa e nei paesi Ocse - scesi in un ventennio dal 4°
al 23° posto- e orari di lavoro tra i più lunghi. Contrastare
le delocalizzazioni, pretendendo dalle imprese che delocalizzano la
restituzione dei contributi e delle agevolazioni pubbliche ricevute,
è uno dei nostri impegni. Come lo è mettere in campo un
nuovo intervento pubblico sul terreno delle politiche industriali, che
veda definita la sua missione in un piano di riqualificazione e riconversione
dell’economia: che promuova la “filiera corta” delle
produzioni, dentro un modello di pubblico fondato sul protagonismo delle
comunità, dei lavoratori, dei cittadini sulle scelte di fondo
di “cosa, come, per chi produrre”.
3) Un piano per il lavoro, l’ambiente, la conoscenza, la cultura.
Tagliare le spese militari, le grandi opere, i privilegi della politica.
Riconvertire il nostro modello di sviluppo significa lavorare da subito
per contrastare scelte profondamente regressive che si stanno facendo
e proporre una destinazione alternativa delle risorse, che dia risposta
alle contraddizione più aspre, ai bisogni sociali inevasi.
La crisi climatica ed energetica domandano un immediato intervento sul
risparmio energetico, le fonti rinnovabili, un diverso modello di mobilità.
Destinare a questi interventi prioritari le risorse ingentissime previste
per opere dannose e inutili come la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo
stretto significa tenere insieme la salvaguardia dell’ambiente,
una nuova politica industriale e un grande piano per l’occupazione.
Con la possibilità di creare in questi soli settori, almeno mezzo
milione di posti di lavoro, secondo le stime più prudenti. Tagliare
le spese militari, dagli F35 agli organici di un esercito in cui i graduati
sono più dei soldati semplici, la fine delle guerre in Afghanistan
e in Libia, incrociano sia la lotta per la pace che quella una ridestinazione
delle risorse in un paese che è terzo in Europa per spesa militare
pro-capite e ventunesimo per spesa per l’istruzione. Così
come il taglio dei privilegi della politica, degli stipendi dei parlamentari
e dei consiglieri regionali, degli enti inutili e delle consulenze d’oro,
è connesso per noi al blocco dei processi di smantellamento della
funzione pubblica, a partire dalla stabilizzazione dei precari della
pubblica amministrazione.
Il nostro impegno è quello di costruire l’opposizione alla
nuova ondata di privatizzazioni che l’Euro Plus Pact e il governo
Berlusconi vorrebbero imporci. Per un’altra idea dello sviluppo:
un piano costruito nelle lotte, nella messa in connessione dei saperi
sociali per il lavoro, l’ambiente, la conoscenza.
4) Contro la precarietà, per i diritti del lavoro. No all’articolo
8, al Collegato Lavoro, alla legge 30, alla Bossi-Fini.
Bassi salari, alta precarietà sono stati la risposta all’entrata
dell'Italia nell’euro, invece della riqualificazione dell’apparato
produttivo. Non essendo più possibile la svalutazione della lira
si è scelta la via della svalorizzazione del lavoro. L’esito
è stato quello della crescente marginalizzazione dell’Italia
nella divisione internazionale del lavoro. Oggi quella strada viene
riproposta con un radicale salto di qualità, dall’articolo
8 al Collegato Lavoro, nella volontà distruggere la contrattazione
collettiva e l’insieme dei diritti del lavoro. La crescita della
disoccupazione nella crisi va di pari passa con la crescita della la
quota di lavoro precario, ormai l’80 per cento dei nuovi assunti.
Siamo tra gli ultimi in Europa per occupazione femminile, tra i primi
per disoccupazione giovanile. Donne, migranti, precari, si trovano costantemente
nelle mansioni meno qualificate e con i salari più bassi. Alle
forme flessibili del lavoro a termine e interinale, si aggiunge la platea
del falso lavoro autonomo, delle collaborazione e delle partite IVA.
La ricomposizione del mondo del lavoro è per noi una priorità.
Il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma ordinaria del
rapporto di lavoro. Per questo va rilanciato il contrasto alla legge
30, va superata la distinzione fittizia tra lavoro subordinato e parasubordinato,
vanno introdotti limiti all’utilizzo dei contratti a termine,
va introdotto un salario orario minimo da definire con riferimento ai
minimi contrattuali. Va istitituito un reddito sociale, per disoccupati
e inoccupati, come elemento decisivo del contrasto alla precarietà.
Va rilanciata l’iniziativa contro la Bossi-Fini.
Mentre sosteniamo tutte le iniziative che sul piano sindacale si pongono
l’obiettivo di difendere la libertà dei lavoratori, la
piena agibilità del diritto di sciopero, la costrattazione collettiva
contro le deroghe, a partire dalla necessità assoluta di cancellare
l’articolo 8, torniamo ad avanzare la proposta di costruire una
stagione referendaria contro la precarietà del lavoro.
5) Redistribuire la ricchezza: un’imposta sui grandi patrimoni
per la difesa e la riforma universalistica del welfare.
I processi di ristrutturazione del sistema produttiva e la precarizzazione
dei lavoro, combinati con la radicale iniquità del sistema fiscale,
hanno portato ad una crescita delle disuguaglianze particolarmente accentuata
nella società italiana. Mentre calava analogamente a quanto avvenuto
in tutto l’occidente, la tassazione sulle imprese è aumentata
in maniera particolarmente pesante quella sul lavoro e sulle pensioni.
In aggiunta al blocco della legge che prevedeva la restituzione del
fiscal drag.
L’Italia si caratterizza inoltre per due anomalie in negativo
rispetto al resto d’Europa: -Un’evasione fiscale doppia
rispetto a Francia e Germania e quadrupla rispetto a Austria e Olanda,
con appena il 52% delle imprese che dichiara bilanci in attivo, mentre
il 90% ricorre alle elusione fiscale attraverso l’utilizzo della
filiera societaria. Se l’evasione fosse nella media OCSE il rapporto
deficit/PIL sarebbe fra l’80/90%.
-La diminuzione negli ultimi 15 anni della tassazione sui patrimoni,
all’opposto di quanto avvenuto nei principali paesi europei.
In conseguenza di questi proocessi, della diminuzione costante della
spesa pubblica per il welfare, l’Italia ha visto crescere più
degli altri paesi le disuguaglianze. Se i dati sullla distribuzione
del reddito sono già particolarmente iniqui, quelli sul patrimonio
sono scandalosi. Il 10% più ricco della popolazione possiede
il 45% della ricchezza immobiliare e finanziaria complessiva, mentre
il 50% più povero non ne possiede che il 9,8%. L’1% delle
famiglie, quelle ricchissime, detiene una quota di patrimonio (il 13%)
uguale a quella posseduta dal 60% delle famiglie meno abbienti.
Istiuire un’imposta ordinaria sui grandi patrimoni sopra il milione
di euro è una misura di giustizia sociale elementare, che potrebbe
dare risorse per 20 miliardi annui. Come lo è una reale lotta
all’evasione fiscale, che recuperi ogni anno almeno un decimo
del gettito evaso.
Per diminuire il carico fiscale su salari e pensioni, istituire il reddito
sociale, rafforzare il welfare a partire dal diritto all’abitare
e dalle politiche per la non autosufficienza. L’opposizione a
qualsiasi ulteriore intervento peggiorativo in materia previdenziale,
la rivendicazione di meccanismi che garantiscano il diritto alla pensione
per le lavoratrici e i lavoratori precari, va insieme per noi alla lotta
per la difesa e la rifoma universalistica del welfare.
qui
-SUD
Diritti Civili
La piena libertà di scelta individuale del proprio orientamento
sessuale, che è fatto di piena rilevanza sociale, è parte
costitutiva della nostra idea della trasformazione sociale. Nel nostro
paese si registrano gravi discriminazioni in relazione all’orientamento
sessuale, nella vita sociale, nell’accesso al lavoro e al welfare.
Il movimento LGBTQI si batte per l'emancipazione e la liberazione delle
donne e degli uomini, non solo dei gay, delle lesbiche, delle e dei
trans. Un mondo e un Paese liberati dalle discriminazioni, dalle ingerenze
vaticane, dall'oscurantismo che non è solo religioso, è
un mondo più libero per tutte e tutti, eterosessuali compresi.
Un movimento che è antifascista, che si batte per una società
laica e contro le derive securitarie degli Stati e dei Governi. Un movimento
di cui siamo parte, orgogliosamente, e le cui proposte e rivendicazioni
sono imprenscindibili punti del nostro programma.
Riteniamo quindi indispensabili:
• il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto e delle differenti
forme di relazione, per distruggere l'idea che ci siano cittadine/i
di serie A e di serie B;
• il contrasto a tutte le forme di omofobia e transfobia, attraverso
mirate legislazioni ma anche attraverso la diffusione di modelli sociali
e culturali “altri”;
• l'abrogazione della legge 40, che ha inteso legiferare sul corpo
delle donne,
• la depatologizzazione della transessualità
• il contrasto alle ideologie familiste e alle conseguenti legislazioni
che producono emarginazione;
• una legislazione che introduca norme attive contro ogni forma
di discriminazione fondata sul genere e sull'orientamento sessuale;
La società che vogliamo, l'altra umanità a cui vogliamo
“dare vita”, parte anche da qui
Pacifismo e questioni internazionali
Come abbiamo scritto, le nostre proposte non possono che avere un respiro
internazionale.
Ciò è vero, a maggior ragione, per quelle che avanziamo
sul terreno preciso dello scenario mondiale, della lotta contro la guerra,
per la pace e per l’avanzamento su scala planetaria delle ragioni
dei popoli, dell’eguaglianza e della giustizia sociale e della
cooperazione solidale.
Il primo punto all’ordine del giorno è la costruzione del
più vasto movimento per la pace, contro tutte le guerre e le
politiche degli Stati che le producono e le determinano. Nello specifico,
dobbiamo rilanciare in Italia un ampio movimento contro la partecipazione
italiana alle guerre – a cominciare dall’Afganistan e dalla
Libia - che ponga al centro la necessità di una soluzione politica
e negoziata dei conflitti.
Parallelamente proponiamo un programma di disarmo attraverso la drastica
diminuzione delle spese militari, l’annullamento dei programmi
di riarmo (a partire dal più recente, relativo all’acquisto
dei cacciabombardieri F-35), il ritiro dei militari italiani dall’Afganistan,
la chiusura delle basi Nato e statunitensi presenti sul territorio nazionale.
La lotta contro la guerra e l’imperialismo implica la lotta per
la pace e quindi il sostegno – culturale e politico – alle
esperienze di resistenza al modello neo-liberista incamminate, ciascuna
con la propria specificità, verso prospettive di carattere socialista.
In particolare, ribadiamo la nostra solidarietà a Cuba e il nostro
sostegno a qualunque iniziativa atta a rimuovere il criminale embargo
a cui è sottoposta da cinquant’anni e il nostro impegno
a fianco del governo cubano nella richiesta presso la comunità
internazionale della scarcerazione dei Cinque patrioti detenuti illegalmente
negli Stati Uniti dal 1998.
Allo stesso tempo, riteniamo determinante che si costruiscano anche
nel nostro Paese una attenzione profonda e una solidarietà attiva
nei confronti di quei popoli che – nella stessa area del Mediterraneo
– subiscono da decenni violenze e discriminazioni intollerabili.
Rifondazione Comunista sostiene la lotta del popolo kurdo, contro le
politiche vessatorie e repressive del governo turco e chiede l’immediata
scarcerazione di Abdullah Ocalan, come prima azione concreta che possa
favorire un processo di pace e la soluzione politica del conflitto.
Rifondazione Comunista sostiene la lotta del popolo Sahrawi e del Fronte
Polisario e condanna in maniera inequivoca la pretesa del governo marocchino
di risolvere con la repressione il contenzioso. La soluzione del conflitto
è possibile soltanto nel rispetto di quanto sancito in sede Onu
e cioè con il riconoscimento del diritto del popolo Sahrawi all’autodeterminazione.
Rifondazione comunista sostiene infine la lotta del popolo palestinese
per la libertà e l’autodeterminazione, nella convinzione
che soltanto una soluzione equa e giusta del conflitto israelo-palestinese,
basata sulla parola d’ordine dei “Due popoli per due Stati”,
potrà aprire scenari di pace nel futuro del Mediterraneo. In
quest’ottica sosteniamo la richiesta avanzata dall’Anp alle
Nazioni Unite del riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese.
Esprimiamo il nostro sostegno alle campagne internazionali fondate sulla
condanna delle politiche del governo israeliano, della sua opera di
colonizzazione dei territori palestinesi determinati dai confini del
1967, della vergogna del Muro, dell’espulsione dei palestinesi
da Gerusalemme, dell’embargo e della guerra nella Striscia di
Gaza. Sosteniamo le forze progressiste e democratiche che in Israele
si battono per la fine dell’occupazione e le azioni e le campagne
internazionali, a partire dalla campagna di BDS sostenuta dalla società
civile palestinese, che nascono sul terreno della resistenza non violenta
all’occupazione israeliana.
Per dare più forza a queste proposte, Rifondazione Comunista
si impegna a lavorare, di concerto con le altre forze della Sinistra
Europea, per l’organizzazione del prossimo Forum sociale dell’area
euro-mediterranea, allo scopo di ricostruire una prospettiva comune
tra le forze della sinistra e i movimenti sociali delle due sponde del
Mediterraneo, necessaria anche per determinare in senso progressivo
l’esito delle rivolte che si sono prodotte nei mesi scorsi.
Una rivoluzione democratica per uscire dalla crisi.
Mai come in questo momento affrontare il nodo della democrazia, non
è altra cosa da
una piattaforma per uscire dalla crisi, a sinistra. Opporsi al tentativo
di smantellamento dei diritti del lavoro, alla volontà di cancellazione
dell’articolo 41, alla follia della costituzionalizzazione del
pareggio di bilancio, significa riaffermare il carattere progressivo
del conflitto sociale, gli obiettivi di uguaglianza e libertà
che sono lettera e sostanza della Carta Costituzionale. Significa opporsi
a quel sofisticato ed esteso attacco al complessivo impianto costituzionale,
che è passato, anche a sinistra, attraverso la concezione della
“democrazia governante” che ha imposto il sistema bipolare
maggioritario, alluso al sistema presidenziale, affievolito gli istituti
di controllo e critica del potere, puntato a rendere il Parlamento un
superfluo orpello .
Significa rilanciare la democrazia conflittuale e organizzata che si
fondi sul protagonismo quotidiano, su strutture di partecipazione autonoma,
sull’autogestione.
Una testa, un voto: per un sistema elettorale proporzionale.
Il maggioritario e il bipolarismo non sono solo un modello istituzionale,
sono un modello di società. Lo hanno capito gli Indignados in
Spagna, lo dobbiamo affermare con forza nel nostro paese. Il meccanismo
maggioritario, il premio nazionale o di collegio che sia, che scatta
se una coalizione ha una manciata di voti in più dell’altra,
ha costretto in questi anni la politica dentro coalizione forzose, in
cui la logica del “meno peggio” era sostanzialmente obbligata,
in cui la politica è stata ridotta ad una logica binaria. E’
il ricatto che ha distrutto la possibilità di ricostruzione di
una sinistra autonoma in questo paese, libera di allearsi se ce ne sono
le condizioni, ma anche di non farlo se non esiste la possibilità
di un compromesso progressivo.. E’ il teorema della conquista
dell’elettore “mediano” quello in bilico tra i due
schieramenti, che vale doppio perché è strappata all’avversario,
che ha prodotto l’omologazione di programmi e contenuti della
proposta politica. E’ il sistema che ha consentito che la destra
avesse maggioranze assolute in Parlamento, anche se non le aveva nel
paese E’ la propaganda falsificante dell’elettore che “sceglie
il governo” per occultare la realtà: quella della blindatura
dai processi e dai conflitti sociali, degli esecutivi, a cui si concede
per cinque anni una delega totale. E’ la negazione del principio
elementare della democrazia “una testa un voto” giacchè
quel principio prevede che i voti contino tutti nello stesso modo. Il
proporzionale è la liberazione della politica e della società
dalla camicia di forza che gli è stata imposta in questi anni.
Una testa, un voto nei luoghi di lavoro. Per il voto vincolante su
piattaforme e accordi.
Rompere la delega, significa intrecciare il ripristino del principio
della rappresentanza dentro le istituzioni, con la riappropriazione
sociale di poteri e decisioni. E’ nostro obiettivo prioritario,
quello di una legge sulla democrazia nei luoghi di lavoro, che sancisca
il potere vincolante delle lavoratrici e dei lavoratori su piattaforme
e accordi, attraverso il voto segreto. Non si tratta di una questione
sindacale, ma di un tema decisivo dello statuto della democrazia di
un paese. La potestà di pronunciarsi sulle condizioni di lavoro,
il salario, gli orari e i ritmi, su quanto determina una parte decisiva
della propria vita, è un nodo ineludibile della ricostruzione
della soggettività del lavoro ed insieme della rottura dei processi
di passivizzazione sociale, di affidamento al leader salvifico come
contraltare della propria impotenza quotidiana. Serve una legge dunque,
sul modello delle diverse proposte esistenti.
Per la democrazia partecipativa. Per un nuovo intreccio tra democrazia
rappresentativa e democrazia diretta.
Rompere la delega significa costruire un nuovo intreccio tra democrazia
rappresentativa e democrazia diretta. La nostra proposta di “primarie
di programma” vuole costruire processi di coinvolgimento e protagonismo
popolare, in grado di stabilire vincoli politici su contenuti qualificanti,
al mandato che si conferisce nel momento delle elezioni. E’ un
nodo che riguarda l’autoriforma della politica e dei partiti,
che ne ridefinisce la funzione nella socializzazione delle decisioni
più importanti. Come avviene per alcuni partiti della sinistra
europea, che hanno affidato passaggi rilevantisimi, compresi quelli
relativi alla propria collocazione istituzionale, oltre che alla costruzione
della discussione dentro circoli e sezioni, ad assemblee popolari ed
infine al pronunciamento diretto di militanti ed elettori attraverso
il voto referendario E’ un nodo che riguarda la riforma delle
istituzioni nello sviluppo della democrazia partecipativa, nel coinvolgimento
diretto dell’associazionismo, dei movimenti, di singole e singoli,
in un nuovo statuto della cittadinanza.
Per il diritto di voto alle migranti e ai migranti.
Una piattaforma per la democrazia deve comprendere la ripresa della
campagna per il diritto di voto amministrativo di donne e uomini migranti
e una riforma della cittadinanza che renda possibile il pieno esercizio
dei diritti politici. L’esclusione dei migranti dal diritto di
voto significa l’esclusione di una parte decisiva della nuova
classe operaia dai diritti politici, in un sistema di sostanziale apartheid
censitario. Ne è erosa la qualità complessiva della nostra
democrazia.
Per la rottura del monopolio maschile dello spazio pubblico
Processi materiali e simbolici, particolarmente gravi nel nostro paese,
concorrono a determinare lo spazio pubblico come sostanziale dominio
maschile. E’ tempo di porre il tema di una legge che obblighi
non solo a candidare, ma ad eleggere le donne secondo i principi della
rappresentanza paritaria dei sessi, a tutti i livelli istituzionali.
E’ una della vie da percorrere per modificare oltre che la politica,
l’immaginario sociale.
Sono proposte tutt’altro che esaustive, accomunate però
dalla volontà di ridare voce e potere ai soggetti e alle culture
indispensabili per il cambiamento.
Coerenti con l’asse della nostra ricerca programmatica che si
muove per noi sulla messa a tema del punto fondamentale: esiste un’alternativa
al ricatto dei governi e delle finanze, rovesciando il punto di vista
che vuole azzerare ogni prospettiva di riscatto politico e sociale usando
la crisi come “vincolo esterno”. Esiste un’alternativa
alla distruzione dei diritti del lavoro e del welfare, alla precarizzazione
integrale del lavoro e della vita, all’ipertrofia delle politiche
neoliberiste che la crisi l’hanno causata e che nella crisi vengono
riproposte con un ulteriore regressivo salto di qualità. Esiste
un’alternativa alla distruzione della democrazia costituzionale,
alla trasformazione della statualità da potere di programmazione,
coordinamento, regolazione delle attività economiche, in stato
penale, che produce e reprime le marginalità sociali nel definitivo
abbandono di ogni obiettivo di uguaglianza e libertà. Esiste
un’alternativa al dominio maschile, che si rafforza dentro una
crisi che nello smantellamento del welfare accentua piuttosto che superare
la divisione sessuata del lavoro produttivo e riproduttivo, mentre le
conquiste di libertà delle donne, sul terreno della sessualità
e dell’autodeterminazione sono messe in discussione tanto dal
disciplinamento neo-familista, quanto dalla reificazione mercatista
dei corpi delle donne. Esiste un’alternativa al consumo onnivoro
e alla mercificazione delle risorse, ad un modello di sviluppo che mette
in discussione la riproducibilità della natura, e dunque il benessere
e la stessa sopravvivenza della specie umana.
Il problema del programma è quello allora di cercare i nessi
unitari tra i vari movimenti e conflitti, identificando nei diritti
universali e in una nuova “confederalità dal basso”
le leve di una difficile ma necessaria riunificazione. Evitando la doppia
deriva dell’autonomia del politico e dell’autonomia del
sociale, politicizzando invece il sociale e socializzando il politico;
il che comporta che il ruolo primo di una soggettività organizzata
alternativa è alimentare i conflitti, coordinare le lotte, accompagnarle
nella costruzione di una uscita da sinistra dalla crisi.
Il Partito della Rifondazione Comunista
Dalle cose sin qui espresse risulta evidente che il Partito della Rifondazione
Comunista ha un ruolo indispensabile nel progetto di aggregazione delle
soggettività e nell’individuazione del progetto di costruzione
dell’alternativa di società. Nel contempo le nostre forze
sono insufficienti e da questo ne deriva che il nostro progetto politico
non può esaurirsi nella crescita di rifondazione su se stessa.
Per questo poniamo il tema dell’unità della sinistra di
alternativa e della costituente dei beni comuni e del lavoro come punti
fondanti del nostro progetto.
Questa insufficienza, a vent’anni dalla nascita, è evidente
che segnala una situazione di crisi del nostro partito che è
bene non sottovalutare al fine di poterla superare. L’assetto
del partito è oggi più fragile. Merito fondamentale degli
iscritti e delle iscritte, del quadro attivo è l’aver impedito
la liquidazione dell’esperienza di Rifondazione Comunista. Ciononostante,
dopo il Congresso di Chianciano, anche a seguito della scissione e al
conseguente dimezzamento della consistenza numerica del partito, i problemi
della vita interna non sono stati superati, il che ha determinato, accanto
a realtà territoriali caratterizzate da una positiva ripresa
del lavoro politico, situazioni di grave difficoltà.
Rifondazione Comunista si è opposta sin dalla sua nascita al
processo di costruzione della seconda repubblica per come lo abbiamo
sopra definito. Il primo ostacolo – oggettivo – che Rifondazione
si è trovata ad affrontare è dato dalla modifica del contesto
istituzionale. Il bipolarismo ha posto in questi anni rifondazione dinnanzi
al tema delle alleanze con una pesantezza che ne ha condizionato fortemente
il progetto politico.
A questa difficoltà oggettiva il partito non ha saputo fare fronte
costruendo un percorso di elaborazione strategica e di radicamento sociale
all’altezza della sfida. Così le singole scelte di volta
in volta operate sul piano delle alleanze sono diventate laceranti e
hanno determinato pesantemente la pratica del partito, la sua identità
oltre che al sua immagine esterna. Da questo punto di vista, l’esperienza
del governo Prodi è stato un fattore decisivo della crisi di
Rifondazione ed ha determinato risposte divaricanti, che hanno portato
ad una scissione molto rilevante.
Nel corso degli anni, questa centralità assorbente della tattica
istituzionale si è sommata a fenomeni di deformazione leaderistica
non dissimili dal contesto politico in cui ci siamo mossi e ad una discussione
sull’innovazione politico culturale che non sempre ha avuto il
necessario respiro strategico. Questi elementi hanno pesato non poco
nel rafforzamento e nella cristallizzazione di correnti strutturate
che costituiscono oggi un limite pesante nell’elaborazione politica
e nell’azione del partito. Il correntismo esasperato, spesso si
traduce in cordate in cui la fedeltà alla corrente e al capo
corrente ha il sopravvento sul resto, mortificando competenze, entusiasmi,
capacità di fare. Esso si è tradotto in molti territori
in una lotta sorda per la conquista di posti di comando. Laddove si
è determinato un compromesso, questo si è spesso tradotto
in un equilibrio tra vertici di correnti, fondato sulla spartizione
degli incarichi.
Occorre rompere il monopolio correntizio che attanaglia la vita di Rifondazione
Comunista. Ciò non si fa, con la riduzione degli spazi di democrazia
o in nome di una unità formale che spesso cela posizioni politiche
divergenti e guerre intestine nei territori.
Aree culturali, tendenze, diversità non sono il male da distruggere,
sono il sale del confronto in una forza in cui le compagne e i compagni
sono “liberamente comuniste e comunisti”.
La democrazia è il punto fondamentale di svolta necessario e
noi riteniamo che il Convegno di Carrara abbia tracciato le linee di
autoriforma del partito. Si tratta di applicare quelle decisioni, che
al contrario sono rimaste lettera morta in questi anni.
Il punto di fondo è che il tema della rifondazione comunista,
a Vent’anni dalla nostra nascita, non è certo stato risolto
positivamente. Si tratta allora oggi di impostare una “rifondazione
di rifondazione”, che per essere tale chiede una discussione franca
e unitaria e una direzione democratica e partecipata.
Ribadendo la nostra lotta strategica contro il bipolarismo, vogliamo
costruire un partito che sappia vivere, discutere e svilupparsi senza
essere sussunto da una centralità assorbente del piano istituzionale.
Non perché questo non abbia una grande rilevanza politica –
al contrario – ma perché se il bipolarismo costituisce
una condizione istituzionale funzionale alla distruzione delle forze
politiche antisistema, noi dobbiamo conquistare un grado di autonomia
strategica dal bipolarismo che ci permetta di fare politica senza esserne
fagocitati. Occorre quindi costruire consapevolmente un Partito della
Rifondazione Comunista che non abbia nella discussione sui passaggi
istituzionali il centro della sua vita politica. In questa prospettiva
proponiamo di assumere la scelta di praticare il terreno della rappresentanza
politica come Federazione della Sinistra e in prospettiva come aggregazione
della sinistra di alternativa. Ovviamente il terreno della rappresentanza
costruito come terreno unitario deve vedere la definizione e la pratica
di regole chiare nella definizione degli indirizzi politici e del funzionamento
delle rappresentanze istituzionali. Si tratta di applicare in modo rigoroso
i regolamenti già varati e di farlo a partire dalle situazioni
attualmente in essere.
Questa scelta ci chiede un deciso salto di qualità sugli altri
terreni dell’azione politica, sulla base delle analisi e delle
proposte che sviluppiamo in questo documento. Dalla prospettiva dell’alternativa
di società declinata nella prima parte del documento, al progetto
di uscita a sinistra dalla crisi, abbiamo riassunto i nostri compiti,
in cui rifondazione deve agire consapevolmente come forza che lavora
ad organizzare forze per questi obiettivi.
In primo luogo un partito che si faccia portatore di una critica dell’economia
politica del capitalismo attuale e individui i concreti obiettivi di
fase, costruendo una “narrazione” anticapitalista e comunista
che sappia riallacciare i fili della memoria con il movimento operaio
italiano, con il movimento altermondialista mondiale nella prospettiva
del socialismo del XXI secolo.
Che ritessa il filo rosso dell’internazionalismo per il rafforzamento
del Partito della Sinistra Europea e per la costruzione di un soggetto
politico mondiale anticapitalista.
Che riprenda con forza il tema dell’antifascismo, inteso come
ricerca e diffusione della conoscenza dei diversi fascismi per poter
portare una seria azione di contrasto al revisionismo storico imperante
e ai nuovi fenomeni di neofascismo e neonazismo e , più in generale,
alle destre razziste e xenofobe. E’ un impegno già presente
in sempre più numerose realtà giovanili, che si organizzano
nell’ANPI ma anche e sempre più spesso, in circuiti, coordinamenti,
reti a carattere territoriale, nei quali occorre rafforzare il nostro
impegno militante.
Che rilanci la pratica dell’inchiesta operaia sul complesso delle
soggettività che subiscono la crisi capitalistica, sui conflitti
sociali, sulle ristrutturazioni in corso.
Che operi per lo sviluppo delle lotte e per la loro unificazione. Il
tema della costruzione delle lotte è decisivo per lo sviluppo
di una nuova soggettività antagonista. Altrettanto importante
è il tema della connessione tra le lotte e della valorizzazione
dei punti di vista dei diversi soggetti coinvolti. In nessun modo la
centralità dello scontro tra capitale e lavoro – alla quale
deve corrispondere il più marcato radicamento del partito nei
luoghi del lavoro e del conflitto - può oggi essere declinata
come irrilevanza della altre contraddizioni o peggio come se dal conflitto
capitale lavoro sgorgasse una compiuta soggettività in grado
di costruire l’alternativa di società. Solo una grande
operazione politica e culturale di connessione e confronto tra le soggettività
e le elaborazioni che emergono dalle diverse contraddizioni oggi determinate
dalla crisi capitalistica, può dar luogo alla costruzione di
una soggettività dell’alternativa. Per questo nel ribadire
che lottiamo per il superamento del capitalismo e del patriarcato siamo
impegnati nella costruzione di lotte su tutti i terreni in cui avviene
sfruttamento o compressione delle libertà degli uomini e delle
donne. In tal senso la democrazia di genere deve diventare elemento
fondamentale della vita del partito e della sua gestione, nel riconoscimento
del carattere sessuato dei soggetti. E' necessario aprire una riflessione
su di noi. Ci impegniamo a realizzare un'inchiesta che attraversi il
partito a tutti i suoi livelli, per comprendere le ragioni organizzative,
politiche, culturali e simboliche, della gravissima asimmetria che segna
la nostra composizione materiale. Per cercare le soluzioni alla nostra
evidente incapacità di essere vissuti come strumento del protagonismo
delle donne.
Che agisca per la costruzione di un tessuto di mutualismo e autorganizzazione
sociale, che rappresenta un punto decisivo per l’aggregazione
dei soggetti sociali frantumati dalla crisi e un punto fondamentale
per la riconquista della nostra credibilità politica. La ricostruzione
dei legami sociali di Rifondazione Comunista con la propria gente, dentro
la crisi, è quindi un fondamentale obiettivo di fase e qualifica
la nostra volontà di costruirci come partito di massa. Da questo
punto di vista tutte le pratiche del partito sociale vanno allargate
ed approfondite sino a diventare un fatto non solo culturalmente ma
socialmente rilevante oltre che un fattore di identificazione della
proposta comunista oggi. Il punto non è costruire il partito
sociale dentro rifondazione ma il fatto che tutta rifondazione deve
caratterizzarsi per le pratiche sociali. Anche perché l’attacco
allo stato sociale e in generale alla redistribuzione del reddito è
fortissimo. Così come le tendenze neocorporative a costruire
vere e proprie forme di welfare aziendalistico e privatizzato. Noi dobbiamo
affiancare alla lotta per la difesa di un welfare pubblico che garantisca
l’universalismo dei diritti, forme di mutualismo e di autotutela
dei soggetti colpiti dalla crisi. In questo senso, le pratiche del partito
sociale, cioè l’autorganizzazione delle forme di tutela
del quotidiano, sono parte costitutiva della pratica politica comunista
oggi.
Che si adoperi per l’allargamento dei beni comuni e delle forme
di democrazia diretta, partecipata, di genere.
Che sviluppi la Formazione el’Autoformazione legandola ad ogni
momento della vita del Partito: dalle Feste del Tesseramento (con almeno
una riflessione sul "Manifesto del Partito Comunista" rivolta
ai/lle reclutati/e) fino a serie attività di studio e lettura
collettiva del patrimonio storico e teorico della nostra tradizione,
da lavori di valorizzazione della memoria e del sapere diffuso dei/elle
nostri/e compagni/e più anziani/e fino a specifiche attività
formative rivolte al "saper fare" dei nostri quadri dirigenti
a tutti i livelli. Occorre connettere la formazione e l’autoformazione
a momenti di dibattito, di diffusione di un sapere critico costruito
nel concreto delle lotte, così come è successo nelle battaglie
del movimento per l’acqua pubblica, nella lotta contro la TAV
in Val di Susa e in molte altre lotte.
L'obiettivo ambizioso che ci dobbiamo porre è produrre una nuova
leva di quadri comunisti capaci di "nuotare controcorrente"
con propri autonomi strumenti nella crisi culturale, e ormai anche etica
e antropologica, del capitalismo.
Particolare attenzione deve essere rivolta a tutti i livelli del partito
a cominciare dal piano nazionale, alla questione dell’informazione.
L’oscuramento mediatico che subiamo è certo frutto di una
censura consapevole ma anche causato da gravissime lacune nell’organizzazione
della nostra comunicazione. Accanto a Liberazione, a cui abbiamo dedicato
grandi risorse e grandi attenzioni, nel tentativo di rilanciarlo, dobbiamo
sviluppare fortemente la comunicazione su tutti i terreni, a partire
dall’utilizzo della rete.
Un partito in grado quindi di fare una analisi critica del capitalismo
oggi, di avere un progetto di trasformazione, di fare battaglia culturale,
di organizzare lotte e strumenti di autorganizzazione sociale. Un partito
intellettuale collettivo che si ponga l’obiettivo di aggregare
le avanguardie di lotta presenti nei diversi movimenti e di essere punto
di riferimento per il precariato intellettuale diffuso, portatore di
saperi essenziali per il progetto di trasformazione.
Presentato dalla Segretria e sottoscritto dalla maggioranza dei componenti
presenti al Cpn. L’elenco definitivo dei sottoscrittori sarà
disponibile dopo il 3 ottobre, come previsto dal dispositivo approvato
dal Cpn)