Partito
della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 9 - 10 luglio 2011
Interventi
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Danilo Barreca
Il buon risultato delle amministrative e del referendum
ci dice che possiamo guardare al futuro con maggiore ottimismo. Penso
che rispetto alle rivolte del Nordafrica (Libia esclusa), si debba rafforzare
il livello di relazione con quelle popolazioni. Va ribadito il nostro
sostegno ai movimenti, a partire dalla vicenda No Tav e penso che alla
costituente sui beni comuni di deve proporre da subito una mobilitazione
per la raccolta delle firme sul referendum per abbattere la legge 30.
Inoltre penso che sulla corruzione dilagante che attraversa il Paese il
Partito dovrebbe assumere delle iniziative concrete. Giudico negativamente
l’accordo siglato dalla Cgil il 28 giugno, penso che su questo tema
bisogna costruire un momento di riflessione con i lavoratori. Su quanto
accaduto in Calabria dico solo che nulla accade per caso, più volte
ho denunciato la degenerazione di alcuni comportamenti, e per questo ho
pagato un prezzo molto alto con il licenziamento al gruppo regione e con
la mancata ricandidatura alle elezione provinciali nel collegio di Reggio-Sbarre,
dove alle elezioni del 2006, con circa seicento preferenze, sfiorai l’elezione,
in un territorio tradizionalmente di estrema destra. Questa vicenda mette
in evidenza la decadenza della politica calabrese, dove il modello Reggio,
sempre più sta diventando modello Calabria. Dobbiamo comprendere
quello che è accaduto affinché non si ripeta mai più.
Nessuno attraverso il potere economico deve condizionare la vita democratica
di un partito. Dobbiamo guardare avanti e costruire un partito che sappia
interpretare i bisogni dei tanti calabresi onesti per costruire una nuova
stagione di riscatto. Per fare questo è utile uscire dal bipolarismo,
quindi dobbiamo sostenere attivamente la raccolta firme a favore dei quesiti
referendari per una legge elettorale proporzionale che superi il bipolarismo. |
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Ugo Boghetta
Teniamo il congresso in una fase nuova: l'ascesa delle
aspettative di massa del cambiamento, e dopo avere (quasi) vinto la battaglia
per l'esistenza.
Serve un congresso unitario perché abbiamo bisogno di vero approfondimento,
confronto, sintesi. L'obiettivo dovrebbe essere quello della ricostruzione
di Rifondazione e della Rifondazione.
Per il dopo Berlusconi già emergono due ipotesi: una di sinistra
(Napoli. Milano nella fase iniziale, i referendum), l'altra di centro,
centro-sinistra con Confindustria, chiesa, accordo Cgil Cisl Uil. Non
banalizziamo. Costoro stanno riflettendo più di noi sulla finanza,
sul nanismo industriale italiano ed altro.
Noi dobbiamo agire questa sfida nei movimenti, anche quelli più
spuri, nell'opinione pubblica popolare e democratica. L'obiettivo è
costruire il fronte del popolo, la coscienza, il popolo, il polo dell'alternativa.
Alcuni punti sono acquisiti e vanno concretizzati: i referendum (giustizia
compresa). Altri mancano: la centralità del lavoro in tutti i suoi
aspetti (in questo senso è negativo assai l'accordo sindacale),
l'individuazione del nemico n. 1 nella finanza, un nuovo intervento pubblico
in economia, la questione democratica che se correttamente declinata (proporzionale,
rappresentanza lavoro, partecipazione cittadini) ha valenze antiliberiste.
Un altro nodo è l'Europa. Direi: o cambia l'Europa o fuori dall'Europa.
Questo significa per noi costruire un profilo culturale, politico programmatico
non minoritario e non governista che risponda ad una linea di massa comprensibile
ed al problema della scarsità di consenso elettorale ed organizzativo
a fronte di quello su certi temi. Ed infine il congresso deve intrecciarsi
fortemente con una rivisitazione del funzionamento della nostra organizzazione:
segreteria nazionale, direzione, dipartimenti, Regionali, distanza fra
centro e periferia, comportamenti negativi, gruppi dirigenti, web, Liberazione.
Ciò al fine di evitare che tutto cambi e nulla cambi. |
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Salvatore Bonadonna
Il limite maggiore che la sinistra di alternativa deve
superare è la incapacità di superare la coazione a ripetere.
È paradossale che mentre diciamo che la crisi ha un caratteri sistemico,
che tutto è messo in discussione nei rapporti sociali, economici
e culturali a livello nazionale ed internazionale, i parametri entro cui
collochiamo le nostre azioni sono quelli che abbiamo sperimentato, nel
bene e nel male, dentro la fase politica che sta arrivando a conclusione.
Il ventennio della seconda repubblica si chiude dentro la crisi della
globalizzazione alla quale l’Europa e ancor meno l’Italia
sanno dare una risposta adeguata; il capitale finanziario sta imponendo
le sue leggi agli stati e ai governi e la politica, invece di riprendere
fino in fondo la sua funzione di scienza della trasformazione, appare
sciogliersi, sfarinarsi.
La politica come esercizio dell’amministrazione dell’esistente
ha mostrato il suo fallimento e, non a caso, si esaurisce ormai nelle
faide di potere tra gruppi e persone che lo hanno esercitato avvalendosi
di leggi elettorali “porcata”, di bipolarismo del pensiero
unico, di maggioritario senza egemonia. L’esito dei referendum rappresenta
in modo evidente che ritorna una domanda di politica ancorata a principi
e valori forti, a visioni del mondo condivise, a democrazia partecipata
che contesta la delega.
Per questo l’accordo interconfederale firmato anche per un grave
cedimento della CGIL sul terreno della propria concezione della democrazia,
oltre che una grave lesione ai diritti dei lavoratori, appare come l’estremo
tentativo di una classe imprenditoriale senza idee e progetti, di salvare
i propri profitti scaricando sui lavoratori il costo della competitività;
per questo è necessario sostenere la FIOM e ogni azione volta a
recuperare iniziativa e conflitto. Quando oltre quaranta anni fa, si propose
la questione se dovessero essere le vecchie e gloriose Commissioni Interne
o i consigli di fabbrica eletti su scheda bianca e le assemblee a validare
le piattaforme e i contratti, nel confronto politico aspro, Bruno Trentin
amava raccontare la storia della ranocchia e del ranocchio che si incontrano
in uno stagno: il ranocchio corteggia la ranocchia e lei si schermisce
dicendo “non sono una ranocchia ma una principessa trasformata dal
sortilegio di una strega invidiosa e brutta; ma verrà un principe
che con un bacio mi farà tornare principessa”; al che il
ranocchio, inorgoglito: “neppure io sono un ranocchio, sono un metalmeccanico”,
e quando la ranocchia chiede le ragioni della trasformazione, il ranocchio,
disorientato, risponde “ ma, io non so! Ha fatto tutto il sindacato!!”
Trentin concludeva dicendo che mai più si dovesse ripetere una
cosa simile.
Accordo sindacale e referendum sono due facce contraddittorie della fase
in cui siamo chiamati ad agire.
Bene dunque la organizzazione di un momento di studio sulla attualità
del comunismo, come ha proposto Ferrero; suggerisco che più corretto
ed opportuno sarebbe parlare di attualità del socialismo, come
alternativa al capitalismo, dato che il richiamo al comunismo, storicamente
determinato, non ha dato buoni esiti. Bene anche il seminario sul partito
che sarebbe opportuno si rivolgesse anche alla crisi della politica, e
delle sue forme, senza le cadute qualunquiste che sono, purtroppo, di
moda.
Ferrero propone un Congresso unitario che non esponga il partito, già
debole, a lacerazioni; d’accordo. Ma l’unità non è
assenza di confronto ne può essere una sorta di congelamento dei
gruppi dirigenti legati dal patto di gestione scaturito dopo la scissione
vendoliana. Bisogna pur prendere atto che la proposta di costruire l’unità
a sinistra attraverso la Federazione si è dimostrata inefficace,
un cartello elettorale che non ha neppure funzionato come si pensava.
Bisogna fare i conti con una crisi del PD che non riesce ad esprimere
una ipotesi di alternativa alle politiche fallimentari e antipopolari
con cui Berlusconi e Tremonti hanno gestito la crisi economica. Confrontarsi
con SEL al cui interno si manifestano contrasti profondi su questioni
fondamentali come l’accordo sindacale e i referendum per il ripristino
del sistema proporzionale. Non è sufficiente ribadire la disponibilità
al fronte democratico per mandare a casa Berlusconi e chiedere l’intesa
con il PD con la garanzia di non partecipare ad un eventuale governo ma
di sostenerlo per evitare il ritorno della destra. La situazione richiede
il coraggio di sfidare la sinistra moderata su una proposta di alternativa
di politica economica e sociale quale viene dai referendum sull’acqua;
richiede di fare i conti con la riforma dello Stato sociale lungo una
linea di uguaglianza e solidarietà, con la riforma della economia
e della politica attraverso forme nuove di democrazia e di partecipazione
e controllo dei lavoratori sull’impresa. E su questo terreno ricercare
una robusta piattaforma di governo sulla quale impegnare tutta la disponibilità
nostra e di quanti si cimentano nella costruzione dell’alternativa.
Diversamente si rimane prigionieri del passato, si legittima la politica
moderata ritagliando per se una ipotetica presenza parlamentare di testimonianza.
Per questo la questione del governo è decisiva di una strategia
non di una banale scelta “governista”.
Su questi terreni va sviluppato il confronto tra di noi e sarebbe auspicabile
un congresso nel quale potessero confrontarsi, laddove si manifestassero,
tesi diverse in maniera limpida e trasparente. Per questo le regole con
le quali daremo vita al Congresso sono importanti: possono rappresentare
la continuazione dell’esistente, fatto di patti di gestione del
partito tra correnti o, viceversa, l’alimentazione di un soggetto
politico che guarda alla costruzione della sinistra che serve oggi per
l’alternativa di società e di governo. Questa sfida ridarebbe
a Rifondazione un ruolo che difficilmente potrebbe essere ignorato od
oscurato; si passerebbe dalla marginalità al protagonismo. |
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Bianca Bracci Torsi
Credo che il risultato dei referendum ci dia qualche
elemento di analisi in più e qualche indicazione di lavoro da sommare
alla soddisfazione per una vittoria andata oltre le più ottimistiche
previsioni. L’acqua è une bene comune per eccellenza, necessaria
e preziosa per tutti come sanno gli abitanti di zone del nostro paese
che ancora debbono misurarne l’uso, , ma il sì di massa alla
sua gestione pubblica non segna anche la negazione dello sciagurato slogan
“privato è bello” così caro al libero mercato?
Il rifiuto delle centrali nucleari è senz’altro dovuto anche
alla recente tragedia giapponese il cui incubo è prevalso anche
sulle speranze di posti di lavoro. Ma è certo che è stata
elevata a problema nazionale una lotta finora presente, pur con grande
determinazione e costanza, nei territori direttamente coinvolti come la
Sardegna. Infine il legittimo impedimento. Era il quesito meno pubblicizzato
e meno legato alla vita quotidiana eppure il numero dei votanti e la percentuale
dei sì è stata più o meno pari agli altri. Un effetto
di traino, un successo dell’antipolitica dei grillini? E’
probabile il peso di entrambi questi elementi ma quel che emerge in modo
chiaro è la caduta verticale del carisma di Berlusconi e l’aspirazione
a una giustizia davvero “uguale per tutti”. Le risposte uguali
a quesiti diversi ci danno un (finalmente positivo) elemento di analisi
e una indicazione di lavoro. Tutti e tre stanno a dimostrare una secca
condanna del liberismo e una scelta dei mezzi per uscirne, direi un principio
di presa di coscienza che spetta anche a noi far crescere partendo dai
conflitti territoriali e di lavoro troppo spesso ancora costretti nei
limiti di categoria o di municipio, se vogliamo che questo successo non
resti isolato ed esposto a tentativi già in atto di limitarlo o
annullarlo (la libera scelta fra acqua pubblica o privatizzata del Pd,
e la gravissima resa al nemico di classe della Cgil). Un impegno necessario
per portare a un rapporto giusto con la politica e una nuova militanza
lavoratori e cittadini democratici anche in vista della campagna che ci
aspetta per una nuova legge elettorale che, insieme alla difesa della
Costituzione, appare ancora a gran parte dell’elettorato qualcosa
di “politicista” riservato agli addetti ai lavori e lontano
dai problemi sempre più pesanti della realtà di ognuno.
E questo ci richiama alla necessità di una maggiore e più
preoccupata attenzione al riproporsi di un neofascismo appena mascherato
che si esprime nelle aggressioni di strada, di scuola, di stadio come
nelle proposte governative di abrogare il divieto costituzionale alla
“ricostituzione del disciolto partito fascista, sotto qualsiasi
forma”, alla revisione di libri di testo di parte antifascista,
alla parificazione tra partigiani e reduci di Salò, oltre che nell’appoggio
a interventi sulle condizioni di lavoro ed il ruolo del sindacato che
ripropongono, con poche varianti, le corporazioni di Mussolini. Un nuovo
movimento antifascista, essenzialmente composto di giovani e giovanissimi,
esiste e sta crescendo e organizzandosi in reti e coordinamenti e vede
presenti quasi dappertutto i giovani comunisti e gli iscritti all’Anpi
ma la sua crescita e visibilità deve diventare una scelta di condivisione
e di internità per tutto il Partito e per la Federazione della
Sinistra. |
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Alberto Burgio
Care compagne e cari compagni,
a me pare che la fase politica attuale si collochi dentro la polarità
instabilità/stabilizzazione, reattività sociale/normalizzazione.
Pensiamo, per cominciare, alle insurrezioni nel nord Africa. Quale prospettiva
possiamo immaginare dopo le rivolte (che peraltro continuano in Siria
e in Egitto), mentre prosegue la guerra della Nato in Libia (finalizzata
alla instaurazione di un protettorato anglo-francese), gli Stati Uniti
si disimpegnano per concentrarsi sul Golfo e l’Asia centrale e l’Europa
registra crescenti divisioni al suo interno?
Da una parte va riconosciuto il dato di fatto che le rivolte testimoniano
l’emergere di un sottosuolo ribollente: le società possono
essere sedate (con dosi più o meno massicce di violenza) ma non
possono essere pacificate dentro la cornice della divisione internazionale
delle risorse e delle funzioni di comando. Questo resta un dato strutturale,
attivo sul lungo periodo. Ma, dall’altra parte, non può essere
affatto esclusa l’ipotesi di un assorbimento dell’onda d’urto,
cioè di una sostanziale restaurazione del precedente quadro politico.
Mi pare vadano in questa direzione non solo le vicende egiziane e le dure
repressioni in Siria, ma anche la situazione maturata in Giordania, Yemen
e Bahrein e, sin dall’inizio, in Algeria.
Rispetto a questo quadro ambivalente c’è una analogia (non
priva di ragioni nel contesto mondiale del comando capitalistico) con
la situazione interna dei Paesi europei e del nostro Paese in particolare.
In Italia (per limitarci a una descrizione sommaria) il voto di maggio
e di giugno ha registrato una forte presa di parola della società,
della sua ampia e persino maggioritaria componente democratica e critica:
una presa di parola tanto più significativa, se consideriamo il
deficit di direzione politica del “popolo della sinistra”.
Ma è sin troppo evidente, per contro, il tentativo – in particolare
del Pd – di imbrigliare la domanda di liberazione posta dal Paese.
Pensiamo alle valutazioni duramente ostili nei confronti delle lotte in
Val di Susa; alla guerriglia sull’acqua (che non è quella
della Puglia, come qui è stato sostenuto, ma quella aperta dagli
amministratori delle cosiddette regioni rosse); alla vicenda dell’accordo
interconfederale, caratterizzata da un marcato connotato politico; alla
posizione anti-proporzionalista, infine, assunta sulla legge elettorale.
Il tutto sullo sfondo dell’ostentata ricerca di un’intesa
privilegiata con l’Udc.
Anche in questo caso si ripropone il classico gioco tra azione e reazione.
Chiediamoci allora come si svilupperà questo gioco.
La sequenza dei voti tra maggio e giugno ha segnato un passaggio rilevantissimo,
mostrando l’esistenza di una straordinaria potenzialità trasformativa
del nostro Paese, che va ben al di là dei pur importanti contenuti
dei referendum e della partita amministrativa e investe frontalmente lo
stesso modello sociale e la sua gestione neoliberista. Detto questo, raccomanderei
di evitare – tra noi – di precipitare per l’ennesima
in previsioni del tipo “non si tornerà più indietro”,
“nulla sarà più come prima”, previsioni a cui
siamo stati abituati da una certa retorica politica e che proprio per
il loro ripetersi diventano ridicole. La verità è che siamo
nel guado, e in mezzo a correnti fortissime.
Il dato cruciale è l’instabilità generale che sovrasta
l’intero quadro politico-economico e sociale del Paese. Una instabilità
radicata nella struttura produttiva del Paese e che coinvolge gli stessi
“poteri forti”, anche se il padronato italiano e la speculazione
del grande capitale nazionale lucrerà anche su questa crisi del
debito e sulle misure economiche che ne conseguiranno.
Siamo entrati in una fase di acutissima turbolenza, simile a quella dei
primi anni Novanta e destinata ad accrescersi sino al 2014, il che significa
che abbiamo dinanzi, con tutta probabilità, tre anni di devastante
macelleria sociale a danno di un Paese già stremato. È molto
significativo che tra centrodestra e centrosinistra la polemica sulla
manovra Tremonti verta sulla tempistica (su chi sarà chiamato ad
applicarla) piuttosto che sui contenuti, in buona sostanza assunti come
ovvi.
Dicevo della turbolenza finanziaria e dell’urto che essa scaricò
sulla condizione materiale delle classi lavoratrici all’inizio degli
anni Novanta. Il guaio è che, rispetto a quel momento, oggi la
sinistra è più debole, frammentata e arretrata, e lo stesso
vale per il centrosinistra (il Pds manteneva con le sue radici legami
ben più stretti di quanti non ne abbia oggi il Pd).
Se questo è vero, qual è l’indicazione che emerge
in questo quadro?
A me pare che proprio questa situazione sfavorevole imponga la ricerca
della più vasta unità possibile a sinistra, precisamente
allo scopo di mettere a valore e incrementare il potenziale critico espresso
nel voto dal Paese, e – a monte – dalle mobilitazioni della
Fiom e del movimento No-Tav, dalle lotte per la scuola e l’università
pubbliche, i beni comuni e i diritti civili e dalla battaglia delle donne
contro il patriarcato. Le difficoltà con cui siamo costretti a
fare i conti impongono la ricerca della massima unità, per così
dire, “orizzontale” tra l’insieme delle forze critiche,
politiche e di movimento, a cominciare dalla Fds, contro la quale sono
state pronunciate in questo nostro dibattito parole a dir poco fuori luogo;
e la massima possibile unità “verticale” tra le forze
politiche della sinistra nelle sue diverse articolazioni.
Per quanto possa apparire paradossale (ma le contraddizioni sono nei fatti),
dell’unità si ha tanto più bisogno quanto più
essa è difficile. E la difficoltà connota la situazione
presente come connotava la situazione in cui Rifondazione Comunista è
nata vent’anni fa – tanto per chiarire che, nella sostanza,
la fase è ancora quella, con buona pace delle estemporanee teorie
che registrano “nuovi cicli” politici e storici ad ogni piè
sospinto.
Se questo è vero, il nostro compito è ricercare sempre il
difficile equilibrio tra la piena autonomia del partito e della Fds (autonomia
nel giudizio e nella definizione della linea) e una tenace pratica unitaria,
astenendoci da qualsiasi forzatura foriera di lacerazioni (come diversi
compagni hanno giustamente osservato a proposito delle irricevibili espressioni
– irricevibili perché insultanti – da taluno usate
per criticare il pur pessimo accordo sulla contrattazione).
Il 2011 sta dentro la fase aperta dal 1989-91, che a sua volta rimanda
alla cesura degli anni Settanta, cioè alla fine dei cosiddetti
“Trenta gloriosi”. Dobbiamo avere ben chiaro che finché
questa fase storica non si sarà esaurita, le condizioni generali
saranno avverse alle nostre lotte, e dovremmo tenerne conto quando snoccioliamo
i nostri pur sacrosanti obiettivi strategici. Le insorgenze che le società
manifestano (in Italia come in Spagna e Grecia, come nel nord Africa,
ma anche in Inghilterra, se pensiamo al movimento contro le leggi sull’università)
dimostrano che la partita non è affatto chiusa. Ma una considerazione
sobria della realtà ci induce ad aggiungere subito che essa è
lunga e che oggi non la giochiamo in posizioni di forza.
Due parole, infine, sul Congresso.
Il tema dell’unità riguarda anche il partito, quindi condivido
appieno l’auspicio che si riesca a fare un Congresso unitario. Ma
sono molto d’accordo anche con quei compagni che ci ricordano che,
se la prendiamo sul serio, anche l’unità tra noi è
un obiettivo che va perseguito: è un fine, non un presupposto.
L’unità è un obiettivo che va perseguito in spirito
di verità e di onestà intellettuale, altrimenti si tratterà
di una pura e semplice finzione, e il risultato del Congresso sarà
inferiore alle esigenze e alle nostre stesse possibilità, e tale
da non consentirci di fare un solo passo in avanti verso la soluzione
dei problemi con i quali il partito deve fare i conti.
Questo, a mio giudizio, significa, in sintesi, due cose.
La prima è che abbiamo bisogno di un confronto vero, esigente,
già nelle Commissioni, affinché l’unità sulla
politica risulti dalla sintesi più alta delle diverse prospettive,
che vanno seriamente assunte come una ricchezza.
Da qui segue la seconda considerazione, relativa alle aree o correnti
che dir si voglia. Su questo tema suggerirei molto semplicemente di invertire
l’ordine del discorso: le aree-correnti (non interessa qui porre
questioni terminologiche) non preesistono alle nostre divergenze pratiche
e politiche (e per divergenze pratiche intendo anche quelle prodotte dalle
modalità di gestione del partito) ma ne conseguono, chiamando in
causa scelte e pratiche del gruppo dirigente, in misura direttamente proporzionale
alle responsabilità ricoperte. Anche in questo caso è questione
in primo luogo di onestà intellettuale, perché in questo
discorso una cosa credo non si possa assolutamente fare: brandire l’argomento
dell’unità del partito usandolo come un’arma per la
lotta interna. |
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Maria Campese
Questa nostra discussione si colloca all’indomani
di importanti appuntamenti, elettorale e referendario, che hanno avuto
un esito non scontato.
Il risultato delle elezioni amministrative ci hanno consegnato un quadro
in cui le forze del centrosinistra complessivamente avanzano e che vede
una sostanziale tenuta del Partito Democratico, un arretramento dell’Italia
dei Valori, il mancato decollo elettorale di SEL, un risultato di sopravvivenza
della Federazione della Sinistra.
L’analisi del voto fa emergere che la FdS ottiene risultati migliori
laddove va in alleanza, poiché il sistema maggioritario penalizza
le liste che si presentano da sole o in alleanze poco credibili (ai fini
dell’esito delle votazioni): insomma emerge che il voto utile condiziona
fortemente il consenso.
Il tema quindi oggi è quello della modifica della legge elettorale,
perché solo se si opera in direzione dello scardinamento del bipolarismo
potremo affrancarci dal condizionamento di costruire le alleanze a prescindere
e potremo caratterizzare la nostra proposta politica.
L’altra importante consultazione è stata quella dei referendum.
Il risultato dei referendum è stato straordinario, anche grazie
al protagonismo delle nostre compagne e dei nostri compagni. Siamo stati
dal primo momento nel comitato promotore dell’acqua e abbiamo contribuito
anche noi alla formulazione dei quesiti referendari, così come
abbiamo sostenuto convintamente i referendum sul nucleare e sul legittimo
impedimento. Oggi dobbiamo vigilare affinché si dia attuazione
all’esito dei referendum, poiché c’è il rischio
serio che si dia una interpretazione riduttiva della volontà espressa
dalla consultazione: il PD, che aderisce ai referendum all’ultimo
minuto utile, all’indomani del risultato, per bocca del suo segretario,
dichiara che il risultato del referendum sull’acqua va interpretato
come ritorno alla doppia opzione pubblico/privato.
In questo quadro, all’indomani di tali importanti risultati, il
governo delle destre prepara una manovra finanziaria con pesanti tagli
agli enti locali (9,6 miliardi in meno); la crisi avanza, aumenta la richiesta
di assistenza ed il governo taglia. Le regioni, le province ed i comuni
non saranno più in grado di dare ai propri cittadini i servizi
minimi essenziali. E la situazione peggiorerà sempre più
per il Mezzogiorno d’Italia con la piena attuazione del federalismo
fiscale; del resto, misure sperequative fra Nord e Sud sono in campo già
da tempo; un esempio su tutti: la distribuzione del fondo sanitario nazionale
alle regioni viene da anni fatta con criteri tali da far stanziare E.
127 procapite ai cittadini del Nord e E. 40 procapite ai cittadini del
Sud. Un dato che si commenta da solo.
Alla luce dei risultati elettorali e referendari e in considerazione della
iniqua manovra finanziaria si è sviluppata la discussione sulle
alleanze possibili per cacciare il governo delle destre. In tale discussione
la FdS è assente: sia perché c’è la volontà
di espellerci dal quadro politico, sia perché noi per primi ci
siamo tirati fuori dall’ipotesi di possibili alleanze per un governo
di centrosinistra.
Penso sia stato sbagliato tirarci fuori dal confronto politico: dovremo
verificare, a partire dai contenuti programmatici, la possibilità
di alleanze di governo.
Abbiamo lanciato l’ipotesi di un polo della sinistra. Chiedo: per
fare cosa?
Se l’ipotesi è quella del confronto sui contenuti programmatici
per verificare la fattibilità di un’alleanza l’aggregazione
vedrà il coinvolgimento delle forze che non escludono a priori
l’ipotesi del governo. Se altrimenti noi escludiamo qualsiasi coinvolgimento
in alleanze per un governo del centrosinistra, allora il polo di sinistra
dovremo costruirlo con Sinistra Critica ed il PdAC.
Alla luce del posizionamento nel terso polo dell’IDV, dovremo anche
rivedere l’ipotesi di avere tale forza fra i soggetti privilegiati
al confronto. Il nostro interlocutore privilegiato rimane SEL, ma possiamo
noi continuare a dire di voler costruire l’unità a sinistra
e contemporaneamente, ogni giorno, dalle pagine di Liberazione, attaccare
Vendola ed il governo regionale pugliese? È veramente la Puglia
la regione con il governo più arretrato fra quelli del centrosinistra?
Non si fa un confronto fra le politiche messe in campo nelle regioni a
presidenza PD e si criminalizza il governo pugliese. Su Liberazione ogni
giorno si reitera la stessa, identica, dichiarazione del comitato pugliese
per l’acqua, e si raccolgono attacchi di dirigenti di partito sulle
questioni più svariate. Ma è, o non è, la regione
Puglia l’unica ad aver trasformato l’ente Acquedotto Pugliese
da spa in ente di interesse pubblico? Vogliamo dirlo o no. Il comitato
pugliese per l’acqua lamenta che la legge approvata non è
pienamente rispondente a quanto concordato in sede di stesura: da allora
sono trascorsi anni-luce in termini di vincoli economico-finanziari.
Ma il dato più preoccupante che rilevo è che dirigenti nazionali
del Partito possano provare soddisfazione se il governo pugliese soccombe
al voto rispetto alla destra, su una questione demagogica, nell’unica
regione che non usufruisce del premio di maggioranza.
Si ritiene forse che attaccare Vendola ci porti più consenso? No,
indebolisce tutti.
Liberazione oggi porta avanti una linea politica che sembra dettata da
Sinistra Critica e dal Pdac, su posizioni minoritarie, settarie, contro
ogni ipotesi di governo.
Penso non ci sia rispondenza con la linea politica del Prc sancita nei
documenti votati dagli organismi dirigenti, ma se la linea politica del
Partito dovesse coincidere con quella portata avanti da Liberazione allora
si dovrebbe uscire da tutti i governi locali, ai diversi livelli; e bisognerà
costruire un polo della sinistra che si accontenta dell’0.8% di
consenso, e che sta fuori dalla rappresentanza istituzionale.
Il congresso unitario che ci aspetta, proprio perché unitario,
potrà, dovrà, costituire l’occasione per una discussione
vera su questi nodi, una discussione non più rinviabile. |
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Luca Cangemi
É necessario che il congresso sia un momento forte
di protagonismo dei compagni e delle compagne del partito ma che sia in
grado anche di parlare all’esterno. Quest’obiettivo richiede
modalità adeguate in tutto il percorso (in particolare una discussione
aperta alle soggettività con cui vogliamo interloquire, sin dai
congressi dei circoli) ma soprattutto riguarda la qualità dell’analisi
di fase e della proposta politica, la capacità di dire parole significative
sul contesto complesso in cui questo nostro appuntamento si situa. Un
contesto, sottoposto a tensioni e accelerazioni, che richiede, una costante
capacità di lettura e intervento.
Il congresso “deve” essere unitario è stato detto da
molti e molte- con argomentazioni che condivido- sulla fase politica,
sullo stato del Partito, sull’orientamento che viene dai compagni
e dalle compagne. Credo che sia giusto porre l’accento anche sul
fatto che il congresso “può” essere unitario, perchè
l’elaborazione della linea politica è stata largamente unitaria,
come segnalano, ormai da tempo, i documenti votati dal comitato politico
nazionale.
Davanti al congresso e all’azione del partito sta il tema dello
sviluppo, dell’articolazione e dell’applicazione della linea
politica. Così come vi è la questione del rapporto tra linea,
culture politiche, gestione del partito. Sono terreni che l’esperienza
di questi anni ci ha mostrato essere non privi di contraddizioni, che
potranno essere superate con un impegno che guardi con uguale attenzione
ai contenuti dei documenti e alla coerenza dei comportamenti.
In quest’ottica va affrontata anche la questione della federazione
della sinistra. La tendenza a ridurla a mero cartello elettorale, che
ritorna esplicitamente in alcuni interventi e implicitamente in diverse
posizioni, non solo contraddice quanto abbiamo più volte affermato
ma rischia di introdurre elementi regressivi difficilmente gestibili. |
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Giovanna Capelli
E' il nostro momento,la fase non è chiusa e il
PRC non è solo un corpo collettivo sfinito dalle ferite,malato
di istituzionalismo,ma è anche un luogo vivo percorso dal filo
rosso della costruzione del partito sociale, dalla partecipazione alle
lotte,dalle campagne referendarie,dalla generosità di chi lo ha
fatto vivere in questi anni difficili. I risultati elettorali non sono
un caso.
Grande è la instabilità e caotica la trasformazione:Berlusconi
cade al rallentatore ,il vecchio ordine non crolla e il nuovo fatica a
nascere .Nella lunga transizione dentro alla crisi strutturale del capitalismo
convivono molti progetti,ma si connettono già tutti quelli che
hanno l'obiettivo di mantenere la subalternità all'ordine economico
internazionale,che preparano per l'Europa la distruzione dello stato sociale
e della democrazia. A questo orizzonte si inchinano centro-destra e centro
sinistra .Se il quadro sovraordinatore è questo va precisato nella
analisi della crisi non solo la qualità delle risposte alternative
,ma il peso oggettivo di questo vincolo.
Decisivo è il ruolo dei movimenti e il nostro essere dentro alle
loro dinamiche; mentre cresce nei luoghi di lavoro l'evidenza dell'intreccio
fra capitalismo e patriarcato (a Inzago la fabbrica Mavib licenzia solo
le operaie, dopo due anni di cassa che ha escluso i maschi), a Siena si
riunisce un movimento di donne organizzato dall'alto, con grandi strumenti
mediatici. Un senso comune moderato fagocita la indignazione delle donne
che hanno riempito le piazze il 13 febbraio. Manca la nostra iniziativa
e la voce di un femminismo che non si accontenta della parità dentro
la ingiustizia sociale. Propongo che le donne del PRC elaborino una proposta
per costruire occasioni, relazioni e pratiche che colmino questo vuoto. |
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Pino Commodari
Il PD tenta di ingabbiare i referendum dopo averli cavalcati,
divenendo soggetto protagonista della ristrutturazione capitalista neoliberista
in atto. Le scelte di politica economica e sociale del PD vanno in questa
direzione. La firma della CGIL all’accordo del 28 giugno, la colloca
tra chi sostiene questa ristrutturazione. L’accordo va giudicato
negativamente perché, assieme alla linea politica del PD, tenta
di comprimere la spinta alla partecipazione, al conflitto e al cambiamento
che caratterizza questa fase, va contro i diritti dei lavoratori, costituisce
un nuovo corporativismo, è antidemocratico e modifica in profondità
la natura stessa del sindacato. Il tutto per costruire il dopo Berlusconi,
senza mettere in discussione le politiche neoliberiste. La FdS deve esprimere
un giudizio sull’accordo. La costituente dei beni comuni rafforza
il percorso referendario. Dobbiamo connettere la battaglia per i beni
comuni con quella per la democrazia e per il ritorno al proporzionale,
contro la corruzione, la precarietà e la legge 30, la finanziaria,
vera e propria macelleria sociale, che distrugge definitivamente lo stato
sociale, riduce drasticamente i trasferimenti agli enti locali, sopprimendo
i servizi. Il capitalismo finanziarizzato impone le sue scelte. Dopo aver
provocato la crisi, propone di uscirne facendo pagare i costi ai lavoratori,
ai precari e ai pensionati. L’Europa fa proprie queste scelte. In
questo contesto diventa tragico per noi e per gli interessi che vogliamo
rappresentare, pensare di far parte di un governo di centro sinistra.
Dobbiamo contribuire a cacciare Berlusconi e a far nascere un nuovo governo,
questa, ritengo, è la “costituente democratica”. Andare
oltre rappresenterà un tragico errore e l’esperienza del
governo Prodi non ha insegnato nulla e il congresso di Chianciano non
è servito proprio a nessuna cosa. Su grandi temi come la guerra
e la democrazia siamo in grande disaccordo. Bisogna costruire una forza
autonoma dal PD, un polo della sinistra di alternativa. E’ fondamentale
la nostra internità ai movimenti che va praticata e non declamata.
E’ necessario un congresso unitario sulla politica e non su un unanimismo
di facciata. Dobbiamo affrontare la ricostruzione dell’etica nel
nostro partito, la vicenda della Calabria lo impone, le modalità
di costruzione dei gruppi dirigenti, il rapporto tra eletti e partito.
Bisogna trarre un bilancio sulla FdS, che non gode di ottima salute. E
necessario ridefinire i rapporti con Sel, che ha tutt’altra prospettiva
politica tutta interna alle compatibilità di sistema. Va messo
al centro del nostro dibattito il tema della rifondazione comunista, del
nesso stretto tra comunismo e libertà e dell’attualità
del comunismo in questa fase di crisi del capitalismo. |
^ |
Alfredo Crupi
Il capitalismo finanziario impone a livello europeo e
mondiale politiche monetariste e liberiste che aggravano la crisi e peggiorano
le condizioni di vita delle masse popolari. In questo quadro europeo e
nazionale, in cui le ricette neoliberiste sono fatte proprie anche dal
centrosinistra, negli attuali rapporti di forza, dobbiamo tenerci lontani
dall’assumere responsabilità di governo.
Il segretario ci ha presentato la crisi del governo Berlusconi come frutto
del forte vento di cambiamento sociale, che la borghesia cerca di imbrigliare
in una gestione morbida della transizione verso nuovi equilibri. Io credo
che taluni poteri forti abbiano iniziato da tempo lo scontro con il governo,
non più idoneo a tutelare i loro interessi, e hanno individuato
punti di convergenza con altri importanti soggetti sociali fino a costruire
un fronte comune, da essi egemonizzato. Vi è dunque una convergenza
d’interessi di settori sociali molto diversi verso l’obiettivo
dell’abbattimento del governo, ma ciò nonostante la sconfitta
di Berlusconi appare possibile ma non certa, e la sinistra sociale e politica
non è oggi in grado di provocare e gestire da sola il cambiamento.
Questo rende possibile e necessario il confronto. Non possiamo partecipare
al governo, non possiamo eludere la domanda sociale di cambiamento che
chiede la cacciata di Berlusconi. Da qui la proposta del fronte per la
democrazia, per la difesa della Costituzione. Ma questo significa difendere
non un pezzo di carta ma i diritti dei lavoratori, la pace, lo stato sociale,
la libertà d’informazione, ecc. E’ rispetto a questi
temi reali che dobbiamo chiarire se la cacciata di Berlusconi può
rappresentare un passo avanti, pur nel quadro difficile che viviamo. Se
la risposta fosse negativa dovremmo assumere una linea di opposizione
netta anche al centrosinistra. Se viceversa, come capisco dalla relazione,
è timidamente positiva, allora ci sono i margini per l’apertura
di un confronto programmatico, da intessere in relazione con i movimenti,
in modo da rendere visibili e forti le nostre posizioni. Una sfida da
sinistra sul programma possibile che sarebbe suicida lasciare in mano
a SEL. Tuttavia suggerisco prudenza nell’uso dei termini: il segretario
ha parlato di primarie sul programma, ma alle primarie può partecipare
solo chi è già in coalizione e il loro risultato vincola
anche chi perde. Meglio parlare di confronto sul programma.
Anche l’accordo interconfederale, grave dal punto di vista delle
relazioni sindacali che disegna, si inserisce nel quadro di ricomposizione
di un blocco sociale moderato funzionale a un accordo politico PD-terzo
polo. Ma io credo che ci dobbiamo interrogare pure sul rapporto tra le
diverse categorie, la differente capacità dei diversi segmenti
del mondo del lavoro di reggere uno scontro sociale prolungato in condizioni
di divisione e isolamento sindacale contro un governo arroccato e sordo
al dialogo. Ciò significa che la nostra critica non deve dimenticare
il ruolo centrale di opposizione sociale e politica che la CGIL ha finora
avuto e deve tenere conto delle difficoltà reali del movimento
sindacale.
Dobbiamo avanzare una proposta di uscita a sinistra dalla crisi all’altezza
della fase, ma per renderla credibile dobbiamo realizzare maggiori livelli
di unità a sinistra e rafforzare il ruolo della Federazione, che
non può restare un mero cartello elettorale, perché così
non è sostenibile sul lungo periodo, non è attrattiva.
Sono per un congresso vero che affronti i nodi politici e teorici essenziali,
che sia unitario perché vi sono le condizioni per farlo e perché
diversamente semineremmo sconcerto. Un congresso a tesi, in cui su un
corpo largamente condiviso si possano introdurre riflessioni diverse senza
per questo provocare rotture. Il superamento delle correnti si può
gradualmente realizzare, tenendo conto della funzione positiva che le
aree hanno pur svolto, costruendo un’elaborazione comune e una fiducia
reciproca nella conduzione del partito e nell’applicazione delle
scelte che si assumono. |
^ |
Gianni Fresu
Alla vigilia del nostro VIII Congresso, per quanto possa
apparire poco logico, più che un problema di linea politica, su
cui tutto sommato (tra tante sfumature) ci si può intendere, intravvedo
una questione più stringente e preliminare, quella del soggetto
deputato a incarnare e perseguire in maniera coerente e credibile quella
linea. Da oramai tre anni continuiamo a dimenarci in mezzo al guado di
un processo di transizione che pare infinito. Tra rallentamenti, fughe
in avanti e ripiegamenti repentini, nei fatti, non siamo stati capaci
di trasformare il Progetto della Federazione della Sinistra in un soggetto
organico con organismi dirigenti e proposta politica sottoposta a verifica
democratica. Abbiamo preferito una costante mediazione su tutto, alla
ricerca dell’unanimismo, con il risultato di minarne la credibilità,
la capacità attrattiva e, in ultima analisi, la tenuta elettorale.
A partire dalla presentazione della lista comunista e anticapitalista
alle ultime elezioni europee, il progetto della Federazione della Sinistra
ha suscitato diverse speranze e molteplici aspettative. La crisi organica
del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre
imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse
energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva
padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una
conferma oggettiva all’esigenza di un Partito non solo genericamente
di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua
ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno
del conflitto capitale lavoro. Alle conferme oggettive si sono sommate
quelle soggettive, nel senso che a dispetto di chi per trent’anni
ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità
di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi
due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e
dalle realtà del disagio sociale, la richiesta di una salda rappresentanza
sociale e politica, seria e credibile, capace di andare oltre la classica
oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Nonostante la
presenza simultanea di questi fattori e le enormi potenzialità
della fase, la Federazione stenta però a decollare e, a mio avviso,
se non si imprime una severa sterzata, rischia di esaurirsi per autoconsunzione
o implodere per deflagrazione interna. Il congresso della Federazione,
in realtà poco più di un attivo nazionale dei quadri, è
stata un’occasione mancata, perché la scelta di determinare
organismi dirigenti pletorici, sulla base di quote predeterminate, senza
vagliare il loro peso a tutti i livelli con congressi veri, ha impedito
di risolvere il problema prioritario che la Federazione vive a livello
nazionale e locale: la sovranità e l’effettiva capacità
decisionale degli organismi federativi rispetto a quelli dei soggetti
fondatori; la capacità di operare delle scelte politiche andando
oltre la drammatica alternativa tra unanimismo e separazione che sistematicamente
si presenta nei territori quando si tratta di far parte di un’alleanza
o di una giunta, presentare liste, stabilire le modalità comuni
di iniziativa politica e lotta sociale. Se vogliamo essere sinceri fino
in fondo, allo stato attuale, la Federazione è poco più
di un cartello elettorale, perennemente impastoiato in micro conflitti
interni, nel quale tra i soggetti fondatori, in particolare i due partiti
che dovrebbero costituire il fulcro dell’organizzazione, piuttosto
che la reciproca lealtà e la solidarietà attiva e permanente
prevalgono deteriori mire egemoniche e controegemoniche. Occorre una svolta
urgente, e a mio avviso questo dovrebbe essere anzitutto il compito dell’VIII
Congresso del PRC, per dar corso ad un effettivo processo di amalgama
delle realtà che danno vita alla Federazione. In assenza di questa
svolta, ma sarebbe una sciagura, meglio investire tutte le nostre energie
sul rilancio della rifondazione comunista. Di certo non è più
ammissibile che il criterio ispiratore della Federazione sia una sorta
di pilatesca “mano invisibile”, in ragione della quale, dato
che non possiamo fare di meglio, ci limitiamo a lasciare campo alle libere
fluttuazioni tra i soggetti fondatori nell’assurda speranza che
la competizione internatra PRC e PdCI possa essere tutto sommato positiva.
Non credo che se ognuno persegue il suo utile soggettivo fa, inconsapevolmente
o meno, il bene dell’insieme e anche qualora fosse fortunosamente
così il bluff si sgonfierebbe immediatamente dopo, quando al momento
elettorale subentrano le ordinarie e straordinarie incombenze dell’agire
politico. Personalmente riterrei un grave errore un arretramento del processo
federativo, dell’unità organica tra le forze che ne sono
protagoniste, perché darebbe un’ulteriore conferma dei limiti
della sinistra di classe nel nostro Paese, avviando un nuovo processo
di scissione e frammentazione che nella drammaticità della situazione
e nei risicati numeri che ci riguardano avrebbe connotati farseschi. Bisogna
uscire dal guado, dare testa, corpo e gambe alla Federazione per consentirgli
di vivere e misurarsi sul terreno della lotta politica nel cofronto con
le altre forze democratiche e di sinistra. Ciò che non è
più accettabile è il mantenimento di questo stato di cose
dominato dall’inerzia e dalle ambiguità, oltre il quale intravvedo
solo il progressivo svuotamento e l’impotenza sia della Federazione,
sia dei suoi soggetti costitutivi. La Federazione nasce all’interno
di un lungo processo dialettico nella sinistra, con l’ambizione
di porre fine alle lacerazioni e al processo infinito di scissioni, più
o meno significative. A questo processo dialettico manca il salto decisivo,
il mutamento dalla mera quantità, puramente sommatoria, alla qualità
nella natura dei rapporti federativi. Occorre il coraggio politico e la
necessaria determinazione nella volontà per far compiere questo
salto al nostro progetto politico. |
^ |
Ezio Locatelli
“Ho l’impressione, se usciamo da questa ristretta
cerchia di discussione, che ci siano ancora troppi compagni/e attardati
in una discussione involuta, priva di slancio a fronte della necessità
che il partito nel suo insieme colga le potenzialità positive dei
cambiamenti in atto. Cambiamenti che non sono semplicemente nei termini
di un capovolgimento delle fortune politiche di una maggioranza di governo
quanto nei termini dell’esaurimento di un ciclo sociale e di una
radicale rimessa in discussione di molti valori portanti del pensiero
dominante. Lo abbiamo visto in questi mesi di intensificazione del conflitto
sociale e coll’ultimo referendum. I segnali sono di un rovesciamento
di elementi di egemonia e di sintonia di cui per lungo tempo ha beneficiato
la destra, penso ad esempio ai temi della sicurezza o dell’immigrazione
extracomunitaria agitati in termini securitari. Oggi, dentro lo sconquasso
della crisi, su temi come la precarietà, il lavoro, i beni comuni
succede il contrario. Assistiamo ad un cambiamento di percezione, di immaginario
collettivo che può ridare respiro e fiducia nella nostra capacità
di agire, di portare avanti un discorso di cambiamento. Abbiamo questa
possibilità ad alcune condizioni. Ne indico due. La prima è
che non ci si chiuda nel campo delle formule ideologiche o politicistiche
– unità dei comunisti, costituente della sinistra o quant’altro
– in un momento in cui bisogna tornare a fare discorsi correlati
all’esperienza vissuta, concreta certo avendo la capacità
di saldare concretezza e ragioni di fondo di una alternativa di società.
Anche per quanto riguarda il tema dell’unità della sinistra,
stiamo attenti alle scorciatoie fatte a tavolino, il solo modo per trovare
delle risposte e fare passi in avanti è nel conflitto sociale che
attraversiamo. La seconda condizione è che in questa fase - che
è si di ripresa sociale ma anche di forte critica nei confronti
delle attuali forme di rappresentanza - noi dobbiamo lavorare di più
ad una strategia di radicamento e di programma di lavoro nei territori
come aspetto che caratterizza e differenzia il nostro agire politico.
Chiedo: dopo averla lanciata quando parte la campagna sociale su “futuro,
lavoro, società”? Diamo priorità a questo impegno
senza nulla togliere all’importanza di lavorare ad una proposta
politica. Su questo punto anche se mi sembra del tutto inverosimile guardare
ad una prospettiva di governo – non ce ne sono le condizioni –
dobbiamo trovare la maniera di incalzare non solo sull’idea del
fronte democratico per battere Berlusconi, ma di misurarci sulle proposte
di programma, sui contenuti”. |
^ |
Annalisa Magri
Un pezzo della storia di Rifondazione Comunista ha inizio
a Genova nel 2001 e giunge attraverso un percorso che è stato tortuoso,
a volte smarrito, poi ripreso, fino alla Val di Susa nel 2011. Più
in generale possiamo dire che un pezzo importante della storia dei Comunisti
ha inizio nel Luglio del 1960 con i massacri dei lavoratori (da Genova
a Reggio Emilia), passa attraverso le lotte degli agrari e degli operai
degli anni ’60 e ’70, attraversa gli accordi sindacali del
’93, si inceppa nella cosiddetta Legge Biagi e si scontra con l’accordo
confederale del 28 giugno. Accordo che si configura come un arretramento
rispetto alla breve stagione di avanzamento delle Amministrative e dei
Referendum e che abbiamo salutato positivamente; ci auguriamo e lavoreremo
affinché si costruiscano in questo Paese le condizioni per un concreto
cambiamento che parta proprio dalla nostra “primavera elettorale”.
Nell’Italia del 2011 il capitalismo mostra ancora il suo volto più
feroce, scaricando la sua crisi sistemica sui più deboli; il mondo
2011 è tutto fuorché pacificato come stanno a dimostrare
i numerosi conflitti attualmente in atto e, di recente di nuovo rifinanziati,
dal nostro Governo. Il divario tra i Nord e i Sud del mondo è oramai
un solco profondissimo; le “avanzate” democrazie occidentali
non riescono a “gestire” l’arrivo dei tanti e delle
tante che lasciano i loro paesi a causa della guerra e della fame. Questo
nei casi migliori, perché noi ci distinguiamo nella platea mondiale
per razzismo e per intolleranza: il ministro La Russa ha ottenuto il rifinanziamento
della missione afgana, ma in cambio deve sborsare alla Lega Nord più
soldi per “gestire” i clandestini che arriveranno nel nostro
Paese, per la serie tutto ha un prezzo... E restando fuori dai nostri
confini nazionali, dobbiamo citare, almeno per titoli, la cosiddetta Primavera
araba, sulla quale sarebbe bene fare un’analisi molto approfondita
sulla sua natura, anche per capire come mai, quella primavera, ho solo
parzialmente soleggiato qui da noi, portandoci i positivi risultati delle
Amministrative e dei Referendum, ma che non ha prodotto, almeno per ora,
un reale e radicale cambio di rotta politica. Comunque quella “nostra
primavera” ha detto al nostro partito e alla Federazione: ci siete
ancora – potete ancora lottare e per noi questo non era scontato.
Sta di fatto, però, che l’Italia nella quale il nostro partito
agisce politicamente è l’Italia ancora governata da Berlusconi,
senza una sostanziale opposizione parlamentare e senza, ancora, un’opposizione
sociale, fuori dal Parlamento, che sia ben organizzata; tant’è
che la sua maggioranza farlocca, gossippara, piduista ha comunque varato
una manovra economica che scaricherà il suo peso sui più
deboli al contrario proteggendo la casta, la cricca, l’Italia degli
appalti e che dà il contentino a Confindustria. È l’Italia
che ricorda Genova nel modo peggiore con le forze dell’ordine che
sparano lacrimogeni ad altezza uomo contro una popolazione in lotta ma
mai eccessiva e mai aggressiva. Sembra Genova, sembra Piazza Alimonda,
sembra la scuola Diaz, invece è la Val di Susa, 10 anni dopo.
Siamo in guerra, e i soldati che tornano a casa nelle bare stanno lì
a ricordarcelo; eppure, anche la più alta carica dello Stato, benedice
interventi armati al di là del Mediterraneo, alla faccia della
Costituzione!! Una Costituzione mortificata e minata costantemente da
rigurgiti neo-fascisti. Nella città di ognuno di noi qui presente,
saranno capitati attacchi neo-fascisti; d’altra parte cosa potremmo
mai aspettarci di diverso, se proprio in Parlamento vengono presentate
a scadenze regolari proposte di legge che legittimano l’equiparazione
tra Partigiani e Repubblichini…
Solo per titoli ricordiamo poi, la situazione politica interna, ancora
infangata dal conflitto di interessi di Berlusconi, ancora governata da
un Parlamento che esce dalle segreterie dei partiti, con un’informazione
che conosce uno dei periodi più oscuri della sua storia, con i
piduisti che scorrazzano dalle istituzioni, agli affari, alla malavita.
In tutto questo, purtroppo, la geografia dei partiti e dei loro progetti
politici, invece di chiarirsi, si intorpidisce sempre di più: dov’è
il PD? Dove andrà Di Pietro? Al centro? A sinistra? E Vendola?
E SeL? Il movimento ondivago di questi soggetti, oltre a non far ben sperare
per il futuro, mette in luce lo spessore dei loro progetti politici…comunque
questi li si giudichi…
Noi avremo tanti difetti, e tra breve ne parleremo, ma senz’altro
la gente sa dove siamo: la gente ci trova sotto la falce e il martello…(quasi
sempre..).
Nell’Italia che per sommi capi abbiamo provato a descrivere, Rifondazione
va verso la scadenza naturale del suo VIII Congresso nazionale.
Un congresso che vorremmo unitario, ma con questo che non si soffochi
il confronto interno, schietto e leale.
Ci auguriamo di avere la capacità di innovare quelle componenti
strutturali del partito oramai obsolete e datate che non rispondo più
alle esigenze dei tanti e delle tante che vogliamo rappresentare; pur
tuttavia ci auguriamo anche che si abbia la volontà di riprendere
seriamente il filo della formazione, di tutti e di tutte, ma soprattutto
dei tanti giovani, che non certo per demerito loro, non sono a conoscenza
della grande storia del comunismo. Dobbiamo scoprire e riscoprire le nostre
radici per non farci travolgere dalla realtà presente e dei suoi
tanti inganni.
Vorremmo un cambio generazionale, ma attenzione, per noi questo NON significa
rottamare nessuno: non ci piacciono queste scorciatoie truffaldine, poco
rispettose tra compagni dello stesso partito e non significa nemmeno abbassare
l’età media dei gruppi dirigenti, soluzioni troppo semplici,
di poco respiro e solo di facciata. Si tratta, invece, di cambiare metodi,
radicalmente: ce lo chiedono i compagni dai territori che sono stufi di
vedere il partito eroso dalle pratiche che hanno regolato nel bene, e,
soprattutto spesso, nel male, la vita interna del partito.
Un congresso unitario, con la possibilità di emendamenti, a nostro
avviso può aiutare l’elaborazione del documento congressuale
che deve contenere la traccia del percorso politico di Rifondazione per
i prossimi anni. Non sarà semplice, ma il nostro dovrà essere
un progetto politico di cambiamento con il quale andare dai lavoratori,
dai giovani, dalle donne, dai pensionati, dai migranti, dai più
deboli e, lì, parlare chiaro.
Il compito più difficile sarà quello di costruire un’idea,
tracciare un percorso, che tutti insieme deve trovarci coinvolti ed impegnati.
Il richiamo al valore delle nostre radici è funzionale all’orizzonte
possibile, ma alto, nel quale i compagni nei territori possano trovare
nutrimento per il loro lavoro politico. È un’emergenza oggi,
a nostro avviso, rimotivare i compagni ed è compito dei dirigenti
non solo fornire loro gli strumenti operativi, ma anche restituire loro
un sogno, un obiettivo alto, nobile, credibile, possibile, genetico; un
sogno da poter richiamare nei momenti difficili dell’attività
politica e per dare un senso complessivo del lavoro nei circoli e nelle
federazioni. Un sogno, un obiettivo di cui ciascuno si senta in parte
responsabile per realizzarlo insieme ai propri compagni al di là
delle aree, delle fazioni, del proprio piccolo esercito…
Le aree: un pensiero va anche a loro, visto il ruolo che hanno avuto nel
partito, ma che oramai, pur non volendole demonizzare nella loro antica
origine e nel loro antico scopo, oggi purtroppo si sono incancrenite e
sono diventate una vera metastasi che colpisce il partito fin nei circoli
più piccoli.
Ci vuole una terapia d'urto, ciò non è più rimandabile
e NON bastano buoni propositi ed intenzioni palliative. Gli iscritti,
i nostri compagni nei territori, non ce la fanno più a vedere un
partito che si consuma giorno dopo giorno e che è continuamente
eroso da scissioni e abbandoni individuali.
È urgente che gruppo dirigente e base si confrontino schiettamente,
ma che poi marcino, ciascuno investito della propria responsabilità,
nella stessa direzione. I compagni sono stanchi e amareggiati da tanti
dirigenti che si sono dispersi qua e là, magari alla ricerca della
poltrona smarrita; siamo obbligati a mettere in campo un profondo rinnovamento
dell’essere partito, pena la nostra scomparsa per sfinimento, consunzione,
depressione.
Siamo sicuri che senza troppi “bilancini” di mezzo, ma valorizzando
le idee, i compagni, le competenze, la passione, sarà facile ripartire
e andare tutti verso un’unica direzione. |
^ |
Adriana Miniati
L’avvio del percorso congressuale comporta un bilancio
politico di questi 3 anni, un’autocritica dei gruppi dirigenti,
per soddisfare il presupposto enunciato di un Documento unitario, su cui
concordo in linea di principio, ma che va sostanziato con quali sono gli
elementi di unità da cui si parte e a cui si aspira. E’ cambiato
il clima politico : dopo le elezioni amministrative e i referendum si
sono manifestati comportamenti sociali nuovi con una interessante richiesta
di partecipazione e una spinta antiliberista, dall’ origine non
solo nazionale. La nostra posizione è stata premiata : esiste dunque
uno spazio politico a sinistra per posizioni più radicali che noi
abbiamo appena iniziato a intercettare. Ma nello scenario economico-sociale
ci sono elementi negativi, dalla manovra del Governo, con effetti recessivi
e con un’operazione di classe tesa a penalizzare il ceto medio-basso,
e sul piano sociale la scelta della Cgil che ci ha fatto entrare in un
quadro non più solo concertativo, ma neo-corporativo, e ha indebolito
la democrazia interna e la rappresentanza, storici elementi di tenuta
e di forza del movimento dei lavoratori. Ergo la crisi non sarà
aggredita come si doveva se ci fosse stata in piedi un’opposizione
sociale guidata dalla Cgil.Ciò influisce anche sulla prospettiva
politica con un orizzonte più moderato su cui costruire il centro-sinistra.
E permane una forte incertezza sullo sbocco poltico.Sarà di nuovo
forte il ricorso al voto utile , per cui a noi converrà –più
che il fronte democratico- un’emergenza democratica, senza coinvolgimento
in eventuali governi. E per noi la migliore strategia è essere
forti al nostro interno , consolidarci per gestire al meglio tutte le
posizioni tattiche che saranno necessarie da posizioni di forza .Positiva
la proposta della Costituente di Beni Comuni allargata al Lavoro e alla
Democrazia. E l’attualità del comunismo centrale nel documento
unitario. Sulla Fds, mai decollata e spesso causa di paralisi interna
ed esterna, ( il cui massimo punto di paralisi si è mostrato con
le posizioni sull’Accordo interconfederale) tutto il partito coglie
un grave disagio, perché essa non è né sufficiente
né adeguata, non la si può sciogliere, benché sarebbe
auspicabile, ma va di certo superata in un soggetto più ampio legandola
più ai movimenti e meno ai partiti , per raccogliere la mutata
domanda di protagonismo critico di massa. |
^ |
Simone Oggionni
Intervengo sollecitato da alcuni interventi molto interessanti.
Penso che il dato con cui ci dobbiamo confrontare prima di ogni altro
è rappresentato dal protagonismo della nostra generazione e di
tanti soggetti (comitati, collettivi, reti) che hanno tenuto alto, anche
in queste ultime settimane, lo straordinario livello di mobilitazione
dell’ultimo anno e mezzo. I comitati referendari, e il movimento
cresciuto intorno ad essi, è la logica prosecuzione delle lotte
degli studenti, degli operai a Pomigliano e Mirafiori, delle donne.
E l’elemento che caratterizza questo protagonismo è il rifiuto
di delegare in bianco la rappresentanza e al contrario la volontà
di agire direttamente. Noi, Rifondazione Comunista, siamo un partito,
con una sua struttura, un suo profilo, una sua identità. Ed è
bene che continuiamo ad esserlo. Però il rischio che vedo è
che se non troviamo il coraggio di sintonizzarci sulla lunghezza d’onda
di questi movimenti e delle domande che esprimono noi rischiamo di non
servire più a molto.
Il congresso deve servire appunto a questo: a discutere di quali forme,
di quale linguaggio, di quali strumenti noi dobbiamo dotarci per essere
parte del cambiamento e non essere travolti da esso.
In una battuta, dobbiamo provare a coniugare il massimo dell’ortodossia
(non derogare di una virgola rispetto al nostro essere comunisti, forza
organizzata che organizza la trasformazione) con il massimo dell’innovazione
e dell’apertura.
E questo riguarda esattamente l’idea che noi abbiamo di comunismo:
siamo comunisti perché non vogliamo alienarci, isolarci, metterci
nell’angolo, accettare la residualità che tutti gli altri
vogliono imporci. E allora da questo congresso mi aspetto che il partito
affronti il tema del rafforzamento del partito comunista dentro la costruzione
della sinistra d’alternativa. Questa tensione strategica deve vivere
dentro il congresso, e può farlo, a condizione che si mettano a
fuoco tre questioni molto importanti.
La prima è la costruzione della sinistra come prosecuzione dell’offensiva
unitaria nei confronti delle altre forze della sinistra italiana, in maniera
non astratta ma concreta, a partire dai contenuti.
La seconda è la costruzione della Federazione della Sinistra come
soggetto politico a tutto tondo, come luogo dell’unità dei
due partiti comunisti: e il cartello elettorale è tutto l’opposto,
e oltre a non servire a molto, toglie entusiasmo ai compagni, non sedimenta
nulla neppure in termini di relazioni sociali.
Infine, la terza questione riguarda la costruzione di un rapporto con
le forze sociali equilibrato, a partire dal sindacato, che non sia urlato
e sguaiato.
Io condivido moltissime delle critiche che la Fiom rivolge all’accordo
tra Confindustria e sindacati, condivido il giudizio di fondo, ma nel
muovere critiche mai mi sognerei di fare balenare l’idea, nemmeno
per sbaglio, che una ipotetica scissione della Cgil sarebbe salvifica.
Come ha detto la Fiom, il suo segretario nazionale, l’unità
è un valore inestimabile.
Detto questo, penso che un’altra cosa non si possa fare: stabilire
chi ha diritto di parola e chi no, che cosa è lecito dire e cose
invece non è lecito dire, esercitando una censura preventiva al
dibattito interno.
Il modo peggiore per difendere le proprie posizioni è urlare, esagerare
nelle critiche, dare l’impressione di volere chiudere la discussione.
Proprio per questa logica io vorrei un congresso unitario ma senza censure,
strutturato a tesi, un congresso che finalmente non spacchi ma che consenta
di discutere e di confrontarsi liberamente, che consenta a tutti di dire
la propria opinione.
Un congresso già nella forma diverso da quello della Federazione
della Sinistra, dominato da un timore immotivato di discutere, decidere
e, se necessario, dove serve, anche di cambiare. |
^ |
Alba Paolini
A 20 anni dalla fondazione del partito, l’8°
congresso che ci apprestiamo a fare, fa il bilancio della sua storia,
ricca di avvenimenti e di travagli, segnata da devastanti scissioni. Rifondazione
Comunista è stata capace di attirare e contemporaneamente respingere
migliaia di persone. Ora siamo giunti alla conclusione che si rende necessario
un congresso unitario. Questo è reso possibile, anche dopo i risultati
elettorali delle amministrative e gli ancora più eccellenti risultati
referendari. Abbiamo l’esigenza di ricostruire una comunità,
prendendo esempio dalla capacità di esserlo per intere generazioni
dal PCI, che era e si concepiva partito di massa. Questo deve essere anche
il nostro obiettivo, per far questo è necessario cambiare modalità,
in tal senso saluto con convinzione l’avvio di un congresso unitario.
Indispensabile è anche la ristrutturazione organizzativa del partito.
Bisognerà inoltre approfondire la discussione del partito nei movimenti,
i quali ci riconoscono la nostra capacità di un proficuo rapporto
e la nostra affidabilità nella conduzione di battaglie storiche
come quella sull’acqua pubblica. Si tratta ora di costruire una
vera forza capace di rispondere alle esigenze dei lavoratori ed essere
alternativa alle destre. Il primo passo è rendere forte il Partito
della Rifondazione comunista. |
^ |
Gianluigi Pegolo
Condivido la relazione del segretario, come condivido
la necessità di un congresso unitario. Il nuovo clima che si è
prodotto nel partito ci sollecita a superare le divisioni. Inoltre, i
fatti politici, a me pare, aiutino a trovare una sintesi unitaria. Questo
naturalmente non è del tutto scontato ed è per questo motivo
che mi concentrerò su punti ancora in parte aperti sui quali occorre
un ulteriore approfondimento.
La prima questione attiene al giudizio sulla fase, premessa indispensabile
per aggiornare la linea politica. A me pare che l’elemento più
appariscente sia oggi rappresentato dalla distanza fra la domanda sociale
e l’offerta politica. In questo gap sta in realtà l’opportunità
che ci viene offerta come partito e sta a noi saperla cogliere. Con le
amministrative e poi con i referendum è emersa nel paese una volontà
di cambiamento che si traduce in uno spostamento a sinistra dell’elettorato
e nella crisi evidente di consenso delle forze di governo. Non m’interessa
qui entrare nel merito degli effetti che queste nuove dinamiche possono
produrre sul quadro politico. Quello che invece m’interessa approfondire
è la qualità nuova di questa spinta. Dai risultati delle
amministrative e dal successo dei referendum emergono, infatti, istanze
nuove che esprimono una domanda di maggiore radicalità, di maggiore
eticità e di protagonismo. Ma emerge anche qualcosa di nuovo sul
piano dei contenuti, giacché dal successo del referendum sull’acqua,
ma anche dall’accoglienza ricevuta da alcune proposte in occasione
delle amministrative è evidente che si sta estendendo la critica
al neo liberismo. Questi fatti dimostrano che esiste una domanda di alternatività
che per quanto ambigua (vedi le manifestazioni ricorrenti dell’antipolitica),
tuttavia costituisce un fatto di grande interesse. A questa domanda si
contrappone un’offerta da parte del centro sinistra del tutto inadeguata.
Si potrebbero elencare molte scelte discutibili: dalla guerra, all’equivocità
dell’appoggio al referendum sull’acqua, smentito di fatto
dalle dichiarazioni successive, alla diatriba che si è prodotta
sulla legge elettorale, alle posizioni espresse sulla manovra economica,
all’apertura di credito al terzo polo. Su tutto questo risalta oggi
la vicenda dell’accordo interconfederale che, di fatto, recepisce
la filosofia di Marchionne, al quale la stessa CGIL si piega, in evidente
consonanza con le posizioni prevalenti nel gruppo dirigente del PD. Quello
che si sta confezionando è quindi una risposta moderata al post
Berlusconi che fa piazza pulita per l’appunto di quella domanda
di alternatività che emerge nella società. Nel nostro congresso
questo dato deve emergere e costituire la cornice del nostro ragionamento.
Ogni tatticismo a tale riguardo con l’omissione della gravità
della situazione sarebbe un grave errore e, soprattutto, minerebbe la
credibilità del nostro ragionamento politico.
Una seconda questione riguarda la dimensione politica. Quello che non
è chiaro è quale sia il cuore della nostra proposta. A me
pare che ormai due nodi siano venuti al pettine. Il primo è l’inadeguatezza
della FdS. Tutti ormai la riconoscono, anche quelli che solo pochi mesi
fa erano i più accaniti sostenitori. Tale inadeguatezza deriva
dalla debolezza dei consensi elettorali, ma anche e soprattutto da una
paralisi dell’iniziativa che non discende tanto da difficoltà
organizzative, quanto da problemi di linea irrisolti che producono l’alternarsi
di posizioni diverse e quindi l’impossibilità di risposte
efficaci. Il caso delle valutazioni sul recente accordo interconfederale
è solo l’ultimo di una serie di episodi preoccupanti. Si
può far finta di niente, ma non sarebbe una scelta lungimirante.
A mio parere bisogna prendere atto che la federazione assolve un ruolo
come alleanza elettorale, ma non risolve il problema del soggetto politico.
Il secondo nodo riguarda il rapporto con le altre forze della sinistra.
Il richiamo all’unità è sempre positivo, ma non è
più eludibile un giudizio di merito. Quello cui stiamo assistendo
è una crescente internità di SEL al centro sinistra e una
ridislocazione in senso moderato dell’IdV. L’ultimo episodio
clamoroso è l’appoggio del gruppo dirigente di SEL al referendum
Veltroni per la reintroduzione del “mattarellum”. Anche qui
si può far finta di niente e riproporre astrattamente il tema dell’unità,
ma difficilmente l’evocazione si tradurrà in fatti concreti.
La questione di fondo allora che il congresso non può eludere è
quella del soggetto politico necessario per dare risposta alla domanda
sociale e in grado di contrastare il disegno neo moderato. In buona sostanza
la questione che si ripropone - ma questa volta con urgenza - è
la costruzione di una sinistra di alternativa dichiaratamente antiliberista
che non è oggi rappresentata dalla sola FDS né dalle principali
forze della sinistra. La stessa proposta della “costituente dei
beni comuni” è in questa prospettiva un fatto importante,
ma essa è declinata come iniziativa di movimento. Quello di cui
abbiamo bisogno è una proposta che punti alla costruzione di una
nuova e più larga soggettività politica e sociale, costruita
a partire da alcuni contenuti fondamentali, capace di nuove pratiche politiche.
In un’iniziativa cui ho partecipato di recente Bersani ha avanzato
la proposta di un “fronte politico-sociale antiliberista”:
mi pare un’utile approssimazione. Il congresso affronterà
questo tema o lo eluderà?
La terza questione di cui vorrei discutere è quella del “fronte
democratico”, perché ritengo che alcune chiarezze vadano
fatte. Se la nostra analisi di fase è giusta mi pare chiaro che
il centro sinistra resta permeato da quello che un tempo era stato definito”
liberismo temperato”. Resta l’interrogativo di quanto sia
temperato questo liberismo. In ogni caso mi pare del tutto evidente che
nel caso di un successo il nuovo governo avrebbe un profilo moderato difficilmente
compatibile con la nostra impostazione programmatica. Non mi pare che
tutti i compagni la pensino così. Personalmente credo che in nome
dell’unità non possa passare nel congresso una nuova proposta
politica che punta a un organico accordo di governo con il centro sinistra.
Questo significherebbe entrare in contraddizione con le nostre stesse
posizioni e con quelle dei movimenti. L’unica operazione possibile
è allora quella di un accordo con il solo centro sinistra, giustificabile
per ragioni di emergenza democratica. Il confronto sui programmi è
possibile, ma a condizione che si sappia che questo può al massimo
migliorare le convergenze che però saranno necessariamente circoscritte
e non tali da consentire la stipula di un accordo organico. Per queste
ragioni occorre chiarire il senso del termine “primarie di programma”.
Se si vuole alludere a un’operazione simmetrica a quella delle primarie
sul leader, bisogna stare molto attenti perché non può valere
il principio secondo il quale l’esito delle primarie è vincolante
per tutti. Questo significherebbe garantire un consenso a priori indipendentemente
dalle scelte. Il fronte democratico allora deve essere un passaggio derivante
dall’eccezionalità della situazione e fondato su alcuni limitati
elementi di convergenza. Né potrebbe essere cosa diversa alla luce
delle posizioni oggi in campo.
In conclusione, vorrei esprimermi sulla questione del partito. Considero
positivo che vi sia una convergenza sulla necessità dell’autonomia
del partito e l’importanza attribuita al tema dell’attualità
del comunismo. Ritengo, però, che il tema della rifondazione comunista
non possa restare in questo congresso su un piano squisitamente culturale,
ma deve essere la base di un rilancio organizzativo e di un rafforzamento
del radicamento sociale del partito. Ritengo, inoltre, che la costruzione/ricostruzione
di una soggettività comunista se non parte da questa aspirazione
all’innovazione nell’analisi e al rinnovamento delle pratiche
abbia assai scarse possibilità di realizzarsi ed è per questo
che giudico positivo che nel nostro dibattito la proposta delle scorciatoie
fusioniste sia tramontata e che il rapporto fra comunisti sia posto correttamente
sul piano del confronto di idee. Infine, condivido la necessità
del superamento delle correnti. Una necessità che non deriva solo
da alcuni guasti macroscopici, ma anche dall’esigenza di ripristinare
una dialettica molto più libera in cui sia possibile che le convergenze
si producano anche al di fuori degli steccati oggi posti dalle organizzazioni
interne. Ciò detto, questo processo va fatto seriamente, senza
ipocrisie, e soprattutto senza segreti intenti di penalizzare alcune aree
a beneficio di altre. Il superamento delle correnti, infatti, deve avvenire
attraverso una reale garanzia di agibilità politica per tutti e
in un confronto partecipato e trasparente, senza colpi di mano. |
^ |
Armando Petrini
Condivido la necessità e la proposta di un congresso
unitario, nei fatti e non solo a parole. Trovo perciò positiva
la sottolineatura di Ferrero nella sua relazione su questo punto, sia
sul versante dei contenuti di un possibile documento unitario, sia sul
versante dei modi attraverso i quali cercare di costruire quel documento.
La necessità di un congresso unitario deriva da due considerazioni
principali. Intanto, per come è messo il partito, per il suo grado
di coesione e di militanza, non reggeremmo un congresso di divisioni.
Questo credo (spero) sia chiaro a tutti. Semplicemente, temo che i compagni
(giustamente) non capirebbero e il congresso lo lascerebbero fare a noi.
In secondo luogo sono convinto che l’unità fra noi (fatte
salve le diversità fra le “aree” politico-culturali
del partito, diversità che vanno salvaguardate perché sono
una risorsa preziosa – a differenza delle “correnti”
che rappresentano invece una degenerazione delle aree) ; l’unità
fra noi –dicevo- è condizione indispensabile per affrontare
una fase, quale quella che stiamo attraversando, indubbiamente segnata
da aspetti positivi, o molto positivi, ma anche attraversata da forti
contraddizioni e da segnali non sempre ugualmente incoraggianti. Non ho
tempo per approfondire, ma sia i risultati delle elezioni amministrative,
sia quelli della tornata referendaria, se è vero che ‘aprono’
appunto a un’aria e un clima nuovi, è altrettanto vero che
lasciano aperto il problema della rappresentanza politica della richiesta
di cambiamento che emerge (basta pensare a ciò che è accaduto
a Milano dopo il voto, nel momento della formazione della Giunta, oppure
alle proposte in Parlamento dei partiti di “opposizione” sul
tema dell’acqua pubblica). Da ultima, la vicenda del brutto accordo
fra Sindacati e Confindustria indica un clima appunto fatto di luci e
ombre, di possibilità che si dischiudono ma anche di evidenti difficoltà.
Per ciò che ci riguarda la contraddizione, o se volete l’elemento
di complessità, con il quale dobbiamo misurarci noi come forza
politica, l’ha ben evidenziato Ferrero quando ha detto che noi dovremo
avere una posizione in grado di tenere insieme la nostra presenza nel
movimento NoTav con l’attenzione per il profilo nazionale della
coalizione di centrosinistra (alla definizione del quale dobbiamo dunque
partecipare). Io penso che non solo dovremo saper fare entrambe le cose
insieme, ma che l’una cosa debba qualificare l’altra. E cioè
che la nostra presenza nel movimento NoTav (intendendo questa presenza
come esempio della nostra “internità ai movimenti”,
come l’ha definita Ferrero) qualifichi il nostro modo di partecipare
alla discussione sul programma di una eventuale coalizione di centrosinistra,
così come la nostra attenzione al profilo di una coalizione di
centrosinistra qualifichi il nostro modo di partecipare al movimento contro
l’alta velocità Torino-Lione.
Credo che questi elementi di complessità della fase che stiamo
attraversando pretendano un gruppo dirigente responsabile, maturo, all’altezza
della sfida, e perciò capace di una sintesi unitaria.
Un congresso unitario dunque. Ma allo stesso tempo abbiamo anche bisogno
di un congresso che decida davvero alcune cose, che dia un segnale, che
imbocchi e faccia imboccare al partito una prospettiva con una certa chiarezza.
In questo senso il tema più importante e urgente mi pare sia la
Federazione della Sinistra, il suo profilo e il grado di investimento
che vogliamo il partito adotti nei suoi confronti.
La mia opinione è che la situazione così com’è
oggi non possa essere procrastinata. In questo senso condivido in pieno
l’intervento che mi ha preceduto di Gianni Fresu. Oggi, per ciò
che riguarda la FDS, ci troviamo sostanzialmente in mezzo al guado. E
in mezzo al guado ci stiamo da quasi due anni. E’ una situazione
che non ci possiamo più permettere: in questo modo infatti, quel
progetto –così importante, anche dal punto di vista strategico-
rischia di consumarsi; e, per di più, lo scarso investimento nella
FDS non è l’ultima delle cause della nostra quasi-invisibilità
sul piano del profilo pubblico della nostra proposta politica.
In secondo luogo la nostra incertezza sul progetto della Federazione acuisce
le difficoltà che inevitabilmente si pongono quando si mettono
insieme soggetti diversi. Non è vero infatti –come sostengono
alcuni compagni- che le diversità fra i componenti della FDS impediscono
un maggiore investimento nel progetto e la messa in campo di processi
riaggregativi al suo interno. E’ vero piuttosto il contrario, e
cioè che sarebbero proprio auspicabili spinte unitarie e un maggiore
investimento nella costruzione di un profilo politico comune ad aiutarci
a superare quelle diversità, ricomponendole a facendo sintesi.
Se è vero che l’umiltà e una virtù (e questo
dovrebbe spingerci a un congresso unitario), lo è anche il coraggio
(e questo dovrebbe spingerci a fare alcune scelte chiare). Io credo che
noi come PRC si debba avere il coraggio di investire risolutamente nella
Federazione della Sinistra, senza indugi, e lì giocarci una partita
per l’egemonia, senza sottrarci (ancora una volta per ingiustificato
timore) a prospettive di riaggregazione al suo interno. |
^ |
Vincenzo Pillai
Nel pomeriggio ho partecipato alla riunione nazionale
di comitati contro il nucleare e ho constatato come il senso fondamentale
della proposta che Ferrero ha fatto a questo CPN: lavorare per una costituente
dei beni comuni senza pensare a un partito che unifichi ciò che,
almeno allo stato attuale , non è unificabile sia largamente condivisa
dal movimento anche se ognuno c’è arrivato per strade proprie.
Penso quindi che avere come bussola la valorizzazione del risultato referendario
, i contenuti e le forme della mobilitazione di questi mesi , sia la scelta
giusta non solo per dare l’unico possibile sviluppo alla stessa
Federazione, ma anche per poter sostenere con coerenza che a noi ,davanti
a possibili elezioni ,non interessano primarie su nomi simbolo ma primarie
che portino milioni di italiani a pronunciarsi sui contenuti che abbiamo
già indicato come campagna politica d’autunno. Si tratta
quindi di rafforzare e qualificare la nostra presenza di comunisti nel
movimento, promuovendo in tutti la consapevolezza che si va rafforzando
un asse di centrosinistra moderato quale alternativa a Berlusconi ma non
alle politiche neoliberiste. L’esperienza sarda con il 60% di votanti
in un referendum solo consultivo e che richiedeva un quorum del solo 30%
è dimostrazione pratica di come si possa vincere se oltre a saper
osare ci si sa connettere anche con il sentire nazionale di un popolo.
Anche la fase congressuale può aiutarci in questa crescita se sapremo
gestirla con spirito unitario, se indipendentemente dal numero di documenti
su cui votare sapremo discutere con reciproco rispetto, con la valorizzazione
delle capacità, il rispetto della differenza di genere e senza
finzioni rivolte solo a fare cordate di potere, se sapremo riconoscere
e valorizzare specificità territoriali che possono dare un contributo
tanto migliore se messe nelle condizioni di organizzarsi con maggiore
sintonia rispetto alla storia e al sentire del territorio in cui operano. |
^ |
Dario Salvetti
In passato il governismo nel nostro partito è
stata una tragedia, oggi è una farsa. Non per questo farà
meno danni. E' un governismo farsesco che non ha il coraggio nemmeno di
dichiararsi apertamente, ma si accontenta di giocare di sponda con le
ambiguità del nostro dibattito. Ambiguità che per altro
la relazione del segretario Ferrero offre in abbondanza. Farsesco perché
ci invita a tenere aperte le porte per un Governo futuro, senza nemmeno
indicare quale e in che contesto. Come potrebbe essere altrimenti, in
una situazione in cui nessuno osa mettere in dubbio che qualsiasi sa il
prossimo Governo sarà di lacrime e sangue? Un governismo che ci
invita a fare “fronte democratico” con Pd e compagnia, quando
ogni qual volta nella società - da Pomigliano alla Val di Susa
- emerge l'esigenza di “Democracia real”, le componenti di
questo fronte democratico sono costantemente dalla parte opposta della
barricata. Un governismo che è il partito degli assessori, senza
ormai riuscire nemmeno ad ottenerli, come a Cagliari o Milano. E quando
li ottiene li perde secondo il vecchio adagio per cui il partito non esce
dalle giunte, ma le giunte spesso e volentieri escono dal partito. Ci
viene detto che non possiamo stare fuori dall'unità nazionale contro
Berlusconi, quando l'unità nazionale reale è già
in marcia nel paese: che cosa è del resto l'accordo del 28 giugno
– un accordo ai danni dei lavoratori con il plauso contemporaneo
di Bersani e Tremonti - se non una prova generale di unità nazionale?
L'elettoralismo soffoca il nostro dibattito. A proposito dell'accordo
del 28 giugno, si agita l'esigenza di non rompere con toni eccessivamente
settari con il gruppo dirigente della Cgil e l'area di Nicolosi. Tutto
il problema è concepito in termini di diplomazia politico-sindacale.
Non viene nemmeno in mente che noi abbiamo lavoratori iscritti a questo
partito – e altri ne potremmo avere – che sono motore e organizzatori
collettivi del conflitto nei proprio luoghi di lavoro. Non viene nemmeno
in mente che è a loro che dobbiamo una risposta e che questi compagni
hanno l'esigenza materiale di respingere l'accordo del 28 giugno, per
non vedere restringersi gli spazi di agibilità sindacale e politica
con cui ogni giorno intervengono nei propri luoghi di lavoro. Il partito
deve essere strumento di classe, non comitato elettorale. Questo è
il centro della posizione che porteremo al prossimo congresso. |
^ |
Gianluca Schiavon
La drammatizzazione della crisi economica chiede uno straordinario
impegno al Partito, alla Federazione della sinistra e alla sinistra
tutta. L’attacco ai debiti sovrani da parte dei fantomatici ‘mercati
finanziari’ squaderna ai nostri occhi un tema di resistenza: la
democrazia reale. Proprio la parola d’ordine del movimento degli
indignados democratia real ya! risulta essere la parola d’ordine
più efficacie contro il bipolarismo coatto, contro l’accordo
neo-corporativo firmato da CGIL, CISL, UIL, UGL con Confindustria e
contro la militarizzazione della Val di Susa. Partecipando a queste
mobilitazioni dobbiamo interrogarci sulla natura dei soggetti che vi
partecipano: si tratta di movimenti composti in larga parte di una ‘generazione
rabbiosa’ abituata a contrapporsi con forme di conflitto durissime
ma parziali, intermittenti, apparentemente non riconducibili al terreno
unitario della lotta di classe. La sfida per noi è quindi tanto
complessa perché questi movimenti se non trovano una risposta
politico-sociale complessiva possono far regredire la lotta a riot o
jacquerie. Il compito di fase è denunciare i guasti del neo-liberismo
del monopolio del capitale finanziario su quello produttivo e quindi
sul lavoro ma, al contempo, sistematizzare un insieme di proposte per
offrire un’alternativa politica e sociale accettabile.
La prima battaglia deve essere quella per il sistema elettorale proporzionale,
per il rilancio del ruolo delle assemblee elettive quindi contro questa
legge elettorale ipermaggioritaria anticostituzionale che ha portato
il sistema bipolare ad essere un premierato di fatto. Si tratta di affermare
con il proporzionale la dignità delle nostre proposte di governo:
espulse dall’agenda politica perché siamo una forza politica
extraparlamentare ma, soprattutto, perché siamo autonomi dal
centro-sinistra. Il PRC è quindi una forza di governo che si
confronterà con il resto del centro sinistra sui programmi e
per la quale la mancata partecipazione ad un Governo nazionale “non
è un auspicio ma una previsione” se purtroppo il PD sceglierà
una discontinuità a Berlusconi ma una continuità alle
politiche liberiste.
La seconda battaglia combina la proposta economica redistributiva, che
si contrappone alle manovre classiste e antipopolari di tutti i governi
europei, con la richiesta di democrazia sui luoghi di lavoro nei quali
i lavoratori possano votare gli accordi efficaci nei loro confronti.
La terza battaglia di democrazia scaturisce dalla vittoria referendaria
e si sostanzia nella possibilità da parte delle cittadine e dei
cittadini di partecipare alle decisioni sui beni comuni. Si tratta di
costruire territorio per territorio aggregazioni popolari che controllino
la gestione dell’acqua, dell’ambiente, dei rifiuti, della
mobilità, della cultura contrapponendo alla logica dei tagli
lineari quella della difesa dei diritti e denunciando anche gli sprechi
delle troppe società gestite in maniera clientelare.
Sono nel vivo di queste tre battaglie potrà avvenire il rilancio
del Partito, e della Federazione, grazie a un congresso unitario. Un
congresso aperto ai soggetti sociali che per questa via vogliano rilanciare
la sinistra cacciando Berlusconi.
|
^ |
Bruno Steri
Abbiamo davanti a noi l’opportunità di promuovere
un approccio unitario al nostro congresso: sarebbe da stolti non coglierla.
Dobbiamo operare in questa direzione. E non per un eccesso di buona volontà;
ma perché io penso vi siano le condizioni per elaborare e valorizzare
i termini di una proposta politica di Rifondazione Comunista e, per questa
via, della Federazione della Sinistra nel suo complesso.
Congresso unitario non vuol dire congresso ingessato: al contrario, deve
significare discussione vera e aperta al confronto. Del resto, sarebbe
paradossale che quanti comprensibilmente auspicano un dibattito che attraversi
i confini delle aree interne optino poi per dei lavori congressuali dove
tutto è già precostituito, dosato col bilancino e magari
deciso da poche persone nel chiuso di una stanza. Insomma, congresso unitario
non significa congresso finto. Credo che questo partito abbia in sé
la forza, possa attivare le risorse per pervenire ad una composizione
alta del dibattito congressuale: evitando in corso d’opera inutili
furbizie, predisponendo una traccia di documento comune che stimoli il
confronto, consentendo alle compagne e ai compagni di esprimersi liberamente:
correggendo, integrando e, ove lo ritengano utile, emendando.
Ritengo che noi possiamo e dobbiamo avanzare una proposta credibile per
la grande maggioranza del Paese. La formulazione non vuole essere affatto
rituale. Penso davvero che, nel contesto per molti versi drammatico in
cui ci troviamo ad operare, si profili tuttavia un’occasione per
noi unica: possiamo essere i promotori di una proposta politica complessiva
che non è solo equa – a difesa dei soggetti sociali colpiti
dalla crisi capitalistica – ma anche realistica ed efficace (contrariamente
a “lorsignori” che continuano imperterriti a proporre e adottare
misure socialmente inique e, oltre a ciò, manifestamente inefficaci).
Il compagno Locatelli ha esortato a non impegnarci in una mera “fisiologia
della crisi”, a cogliere piuttosto il potenziale di una ripresa
del dinamismo sociale, così come è andato manifestandosi
in questo ultimo scorcio di tempo. E’ un’esortazione che punta
a valorizzare i fermenti conflittuali di una società tutt’altro
che pacificata e a sintonizzarci sull’onda di una fase nuova (l’incredibile
esito referendario e le ricorrenti vertenze sociali che si aprono nel
nostro Paese sono lì a dimostrarlo). Si tratta di un’indicazione
certamente giusta; ma va a mio parere inserita in un quadro generale che
presenta elementi altamente contraddittori. C’è infatti un
Paese che non accenna a piegare la testa e che anzi reagisce con pesanti
e inequivocabili segnali al conformismo neoliberista; e d’altro
lato - come testimoniano anche oggi i titoli di testa di tutti i quotidiani,
con gli allarmati riferimenti alla fragilità dell’assetto
economico-finanziario nazionale – c’è il perdurare
della crisi capitalistica, che è lungi dal trovare vie d’uscita
e rispetto alla quale non è alle viste una compiuta alternativa
di sistema (un’alternativa politica radicale che sia disponibile
ora, concretamente pronta all’uso). In ciò sta la contraddittorietà
del contesto in cui operiamo.
Siamo un piccolo partito, anche se sappiamo che, al di là della
nostra forza organizzata, siamo presenti nei movimenti di massa che si
muovono attorno a noi. Ma la consapevolezza dei nostri limiti non può
esimerci dal collocare comunque la nostra proposta all’altezza richiesta
dall’urgenza della situazione. Mi spiego con una citazione. Nel
suo intervento alla Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori del
Pd, Massimo D’Alema ha inteso dare respiro e prospettiva ampia al
suo ragionamento: nel giro di due anni, si svolgeranno delicatissime elezioni
politiche in tre importanti Paesi europei, segnatamente in Italia, Francia
e Germania. Chi prevarrà – e, ovviamente, D’Alema fa
il tifo per le forze del centro-sinistra – detterà le regole
dell’Unione Europea, di cui i tre Paesi suddetti sono colonne portanti
(decisive e condizionanti). Perfino D’Alema – è tutto
dire – è colto dal sospetto che le attuali politiche continentali
non siano in grado di far uscire l’Unione dall’impasse in
cui continua a galleggiare: il quadro resta fosco, la coesione dell’impianto
europeo è a rischio e i cosiddetti “aiuti” ai Paesi
in difficoltà (nei fatti, prestiti onerosissimi in cambio di massacri
sociali) rischiano di stringere ancor più il cappio della deflazione
e, in definitiva, di far saltare il banco. Così, egli propone di
elaborare obiettivi comuni da spendere nelle rispettive campagne elettorali.
Non entro qui nel merito: mi limito a dire che, in particolare, D’Alema
ha di mira proposte di gestione del debito che consentano una qualche
ripartizione degli oneri a livello comunitario. Bene, su un punto egli
ha ragione: una proposta seria al nostro Paese non può che muovere
dal contesto in cui esso è inserito e dalla discussione dei vincoli
che tale contesto impone. Egli fa bene, dunque, a fare le sue proposte;
noi dobbiamo fare le nostre: proposte che siano all’altezza del
problema e che dovremmo cominciare a discutere subito, a partire dal seminario
della Sinistra Europea che prenderà il via qui in Italia, in Umbria,
dal prossimo 12 luglio. Sinistra Europea: se ci sei, batti un colpo!
Noi dobbiamo dire le cose che D’Alema non vuole o non può
dire. Egli ha ragionato attorno al problema del debito e a “come”
debba essere pagato. Noi dobbiamo aggiungere quel che proponiamo su “quanto”
pagare” e su “chi” deve pagare. E’ soprattutto
qui – dove premono quegli interessi di classe che il Pd non vuole
o non può sconvolgere - che la nostra voce deve essere forte e
chiara: ad esempio, per proporre un’imposizione patrimoniale nei
confronti del decile più ricco della popolazione (a sgravio della
parte restante) o per opporci all’ennesima stagione privatizzatrice
(in proposito, sento già le proteste di Bersani e Fassina, nei
confronti di chi non distinguerebbe tra “privatizzazioni”
e “liberalizzazioni”: come se il recente passato non avesse
insegnato nulla circa gli effetti disastrosi di tale impostazione sulla
nostra politica industriale e in ordine agli equivoci che presiedono alle
mitologie della “libera concorrenza”). Possiamo e dobbiamo
costruire la nostra proposta “dal basso”: in primo luogo,
perché c’è differenza tra il condurre trattative programmatiche
con altre forze politiche in assenza di movimenti di massa, ovvero condurre
quelle medesime trattative con il supporto di mobilitazioni sociali e
piazze piene di gente. Ma soprattutto perché c’è una
profonda connessione tra le ragioni dei comitati, quelli che ad esempio
hanno animato la campagna referendaria, e il cuore dell’alternativa
che noi proponiamo (la quale annovera tra i suoi punti essenziali la svolta
ambientale dell’economia e il no alle privatizzazioni).
Su tutto questo va lanciata la nostra sfida politica e programmatica.
Ma è precisamente alla luce di tale contesto che risulta assai
preoccupante la sostanza dell’accordo stretto tra Cgil, Cisl, Uil
e Confindustria. Non torno sui punti di caduta più pesanti che
anche qui sono stati richiamati (e che, d’altra parte, hanno già
indotto a prese di posizione nettamente critiche, da parte di dirigenti
Fiom, oltre che di autorevoli giuslavoristi e sociologi del lavoro, così
come di altrettanto autorevoli rappresentanti della sinistra politica).
Ribadisco solo la gravità che, a mio giudizio, riveste il sigillo
formale posto alla possibilità di deroga dal contratto collettivo
nazionale, peraltro di fatto già praticata, e, soprattutto, la
compressione della possibilità di espressione diretta dei lavoratori
in ordine al loro contratto di lavoro, con il preoccupante corollario
di un ruolo delle rsu elettive sottoposto a disdetta da parte della Uil
e formalmente affiancato a quello di rsa, organismi di nomina sindacale.
Su questo e nel rispetto dell’autonomia del sindacato, penso sia
necessario esercitare in tutte le sedi opportune la critica del nostro
partito. Aggiungo che la dialettica di posizioni e l’esercizio della
critica è il sale della politica (dunque anche della politica sindacale):
ciò vale quando la critica è sì aspra, ma precisa
e circostanziata. Non urlata. Crediamo di essere persone serie e sappiamo
qual è il peso e la posta delle questioni trattate. Non ci interessa
distruggere, ma costruire – stanti i rapporti di forza esistenti
– una strada possibile nell’interesse del mondo del lavoro.
E la Cgil, il più grande sindacato italiano, la sua unità,
costituiscono un patrimonio prezioso: l’esercizio della critica,
anche la più aspra, fa per noi tutt’uno con la suddetta consapevolezza.
In questi nostri impegni, che non sono dei più semplici e che attraverseranno
la riflessione del nostro congresso, permane decisivo il tema dell’unità:
quella della Federazione della Sinistra (difficile – come si evince
da resoconti che anche oggi hanno costellato il dibattito – ma necessaria
e da perseguire con ostinazione), quella della sinistra di alternativa
(con al centro l’attenzione specifica da mantenere nei confronti
dell’importante discussione che stanno conducendo le compagne e
i compagni di Sel), quella che ispira la stessa interlocuzione con il
Pd (per tenere aperta la prospettiva di un’alleanza democratica
contro le destre e il loro sciagurato governo). Il documento approvato
alla fine dello scorso Cpn costituisce, nel merito, un essenziale riferimento.
Chiudo con due rapide osservazioni, concernenti la parte dell’introduzione
in cui il segretario ha accennato al documento congressuale. In primo
luogo, Ferrero ha anticipato l’intenzione – condivisibile
– di porre in primo piano il valore fondante della democrazia reale,
di contro alla preoccupante involuzione degli odierni assetti politico-istituzionali.
In proposito, ritengo importante sottolineare il valore dell’esistenza
di organismi intermedi, incaricati di mediare la delicata relazione tra
i vertici (istituzionali, di partito) e la base di una società
complessa, affinando la qualità dei processi decisionali e, perciò
stesso, della democrazia medesima. Così da prevenire un fatale
fraintendimento: quando si fanno fuori o comunque deperiscono le suddette
istanze intermedie, quel che dietro l’angolo ci attende non è
la quintessenza della democrazia diretta ma il pieno (regressivo) del
plebiscitarismo, il rapporto enfatico del capo con il “suo”
popolo.
In secondo luogo, un paio di considerazioni a proposito della tematica
dei beni comuni. Benchè il lavoro possa essere inteso – entro
una classificazione tematica – come caso esemplare di “bene
comune” da tutelare e difendere, ritengo tuttavia che – nell’economia
di un documento congressuale – ad esso debba essere assegnata una
collocazione autonoma e privilegiata: ciò è richiesto dalla
vastità dei temi che tale titolo include nonché dall’importanza
di tali temi per l’azione e per il tipo di partito che intendiamo
consolidare. La seconda osservazione ha un carattere, per così
dire, storico-politico: non posso che dedicarvi qui uno schematico cenno.
Nel trattare dei beni comuni, si indulge talvolta in formulazioni sommarie
circa la pretesa di espungere, in tale contesto, il “valore di scambio”
dalla produzione e circolazione dei beni, in vista di un primato del “valore
d’uso”. Simili enunciazioni possono anche andare finchè
rimangono ad un impiego metaforico e propagandistico. Se, viceversa, le
si intende alla stregua di vere e proprie generalizzazioni teoriche, direi
che ci si immette su una strada a dir poco sdrucciolevole: ricordo soltanto
che precisamente una tale pretesa – quella di voler troppo frettolosamente
affermare il primato del valore d’uso dei beni, liquidando la legge
del valore, che in una società capitalistica regola lo scambio
di merci attraverso appunto il loro “valore di scambio” –
costituisce uno dei fattori che hanno a suo tempo scardinato la “razionalità”
della pianificazione socialista e, con essa, del “socialismo reale”
in quanto tale.
Mi fermo qui, scusandomi ancora per la provvisorietà e schematicità
dell’ultima notazione. |
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Sandro Valentini
Un punto di dissenso non mette in discussione un Congresso
unitario. Anzi, lo arricchisce
Qualche giorno fa, in un editoriale su “Liberazione”, per
molti aspetti condivisibile, Russo Spena ha usato, per illustrare la proposta
politica del partito, gli stessi argomenti che Ferrero ha utilizzato nella
sua introduzione, ma per dare maggior forza alle sue considerazioni s’interrogava
cosa potessero pretendere di più alcuni compagni “governisti”.
Devo dare atto a Ferrero che non ha ripreso nella relazione tale maliziosa
interpretazione: ci sono quelli di “Falce martello” che non
intendono chiudere con il Pd nessun accordo e vi sono quelli come Valentini
che vogliono andare al governo a tutti i costi. Basta battere queste due
opposte tendenze minoritarie e oplà il Congresso è fatto!
Vorrei intanto ricordare a Russo Spena e a questo Cpn che sulla questione
del governo, nei due passaggi decisivi della storia del Prc, il sottoscritto
non è mai stato “governista”. Sul primo governo Prodi
mi schierai convinto con Bertinotti sulla rottura e contribuii –
allora ero Segretario regionale – credo non poco in un drammatico
Cpn alla messa in minoranza di Cossutta; al Congresso di Venezia, dove
fu sancita l’alleanza dell’Unione ero tra quelli invece che
volevano mettere i “paletti programmatici” all’accordo
politico e di governo. Altri invece, molti dei quali oggi si definiscono
“non governisti” si schierarono acriticamente sulla posizione
dell’accordo, magari rincorrendo ministeri, poltrone da parlamentari,
presidenze.
No questo modo di discutere lo respingo al mittente!
Il mio dissenso politico si concentra su un punto. Ferrero giustamente
afferma – condivido sostanzialmente questa analisi – che siamo
entrati, con il voto sulle amministrative e i referendum, in una nuova
fase politica, di transizione, non sappiamo quanto breve o lunga, però
di passaggio dalla seconda Repubblica a una riscrittura complessiva delle
regole democratiche e a una configurazione della stessa Repubblica. Non
mi pare poco. Ma se è così è allora la nostra proposta
politica mi pare del tutto inadeguata, insufficiente, non all’altezza
dei compiti di fase.
Ho colto e apprezzato le aperture di Ferrero. In questo Cpn non si parla
solo di costruire con il Pd un “fronte democratico”, ma di
incalzarlo su un vero e proprio confronto programmatico, addirittura tramite
“primarie di programma” . Ma è la premessa che non
convince, che non ci fa uscire dal minoritarismo, che non trasforma la
nostra proposta in una politica in grado di parlare a grandi masse popolari.
Vi è una domanda semplice semplice a cui occorre rispondere: perché
si continua a ribadire pregiudizialmente che non vi sono le condizioni
di un accordo di governo con il centro-sinistra prescindendo dall’esito
della verifica programmatica? Se il confronto programmatico è già
segnato in partenza allora voler chiedere il confronto è una “furberia
politicistica” senza respiro strategico, non credibile, che non
incide, non sposta di una virgola i rapporti di forza. E perché
il Pd dovrebbe mettersi a discutere di programmi con chi dichiara, prima
ancora di mettersi attorno a un tavolo, di non voler assolutamente chiudere
una intesa politica e di governo?
Vi è nel Paese un forte vento di rinnovamento e di cambiamento.
Il popolo di sinistra chiede in primo luogo unità. E solo proponendo
con determinazione questo valore strategico, senza distingui aprioristici,
si costruisce un accordo elettorale, programmatico (almeno su alcuni punti
significativi di natura sociale e sulle regole democratiche) e politico.
Considero l’esito del confronto tutt’altro che scontato. Non
sarà per nulla facile chiudere con il Pd un accordo di governo.
Ma deve essere il Pd a dire di no e a spiegare al popolo della sinistra
perché non vuole cancellare la legge 30, perché non vuole
introdurre la patrimoniale, perché vuole aggirare il referendum
sull’acqua con la gestione ai privati di questo essenziale bene
comune. Non capisco perché un partito come il nostro, che rivendica
una giusta completa autonomia dal centro-sinistra, sia alla fin fine tanto
subalterno al Pd da togliergli tutte le castagne dal fuoco. A conclusione
del confronto programmatico si valuterà quali condizioni politiche
e orientamenti sono maturati, fermo restando il comune obiettivo di cacciare
Berlusconi e garantire al Paese un governo diverso, possibilmente non
moderato, ma avanzato.
Ferrero sostiene che le condizioni di chiudere un accordo di governo con
il centro-sinistra non ci sono anche perché la coalizione, con
questa legge elettorale, non avrà la maggioranza assoluta dei seggi
al Senato. Il centro-sinistra sarà costretto, come a Milano e a
Cagliari, a trovare un’intesa con il centro di Casini a nostro danno.
È molto probabile ma non certo che le cose vadano in questo modo.
Ma se dovessero andare effettivamente così non vedo per quale ragione
dovremmo essere noi a regalare al Pd una soluzione centrista. Che paghi
un prezzo cacciandoci dalla maggioranza e rimangiandosi gli accordi programmatici
sottoscritti!
Si dice, inoltre, che il quadro politico europeo dominato dai conservatori,
non lascia spazi all’Unione Europea per politiche riformiste, pur
parziali. Ma anche il quadro politico europeo è in movimento. Facciamo
finta di non rammentarci che entro i prossimi tre anni due importanti
paesi europei, oltre l’Italia, andranno al voto: la Francia e la
Germania e che nella prima possa vincere una colazione di sinistra-centro
alla presidenziale e che in Germania si affermi invece un’alleanza
rosa-rossa-verde: Due elezioni dunque che potrebbero modificare profondamente
il quadro politico europeo.
Il mio è senz’altro un punto di dissenso che si accompagna
alla questione di una offensiva vera per realizzare l’unità
oggi possibile di tutte le forze alla sinistra del Pd. È evidente
che una unità d’azione tra Fds, Sel e Idv aumenta notevolmente
la forza di contrattazione programmatica della sinistra nella coalizione
spostando a sinistra il baricentro del centro-sinistra. Il tema chiama
in causa, come molti compagni hanno sottolineato, lo stato della Fds,
nata male, senza un coinvolgimento vero dei militanti, con un Congresso
svolto in modo verticistico. La Fds è oggi sostanzialmente un “cartello
elettorale” tra l’altro in molti territori con un tasso di
litigiosità elevato. Chiama in causa le responsabilità e
le scelte della segreteria per esempio sulla vicenda del Porta voce. Io
sono tra quelli che chiede un rilancio politico, culturale e organizzativo
della Fds come primo passo per un processo costituente unitario a sinistra,
che abbia come sbocco la costituzione di un nuovo soggetto plurale.
Sono questi temi importanti che credo siano al centro del dibattito congressuale.
Non mi pare che il mio dissenso si caratterizzi come posizione alternativa
a quella della segreteria. Ecco perché apprezzo la proposta di
Ferrero di un congresso unitario, a tesi o attraverso un documento in
cui su singole questioni, pur rilevanti, si possano essere punti di vista
diversi. Raccolgo pertanto la sfida di Ferrero di lavorare a un congresso
unitario, sarebbe da irresponsabili misurarci oggi su laceranti contrapposizioni.
Un Congresso che ricerchi l’unità però attraverso
un limpido e libero confronto e non avvolgendo il partito in una ingessatura
precostituita da pratiche correntizie. Abbiamo bisogno di un congresso
che rilanci il Prc come motore indispensabile della costruzione di processi
unitari a sinistra, processi unitari resi ancora più urgenti dalla
fase politica nuova apertasi, dalla necessità a cui siamo chiamati
di dirigere e governare la transizione.
Un’ultima questione in conclusione. Considero un pessimo accordo
quello sottoscritto da Cgil-Cisl-Uil con la Confindustria. Alle critiche
di merito sollevate da altri aggiungo una critica di metodo: un accordo
così importante, che incide pesantemente sui diritti sindacali
e sulla democrazia andava discusso in bel altro modo: coinvolgendo i lavoratori
e non deciso dall’alto. Detto ciò fatico molto a rendere
esplicite le mie critiche quando purtroppo, anche dentro il partito, e
Liberazione in questo ha svolto un ruolo decisamente negativo, montano
posizioni come quella di considerare il gruppo dirigente della Cgil dei
“traditori” o dei “servi della Confindustria”
o quando si lanciano avventurose parole d’ordine di uscire dalla
Cgil auspicando una rottura drammatica della Fiom. Vorrei discutere in
tutt’altro modo, in primo luogo tentando di capire le ragioni di
una Cgil oggi in grande difficoltà. Del resto lo stesso Landini
giustamente va ripetendo che la Fiom è la Cgil e che la battaglia
per contrastare e correggere le scelte confederali va condotta nella e
per la Cgil che resta, nonostante la canea antisindacale di questi giorni,
l’unica organizzazione di massa in Italia del mondo del lavoro.
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