Partito della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 9 - 10 luglio 2011

Interventi

Danilo Barreca

Il buon risultato delle amministrative e del referendum ci dice che possiamo guardare al futuro con maggiore ottimismo. Penso che rispetto alle rivolte del Nordafrica (Libia esclusa), si debba rafforzare il livello di relazione con quelle popolazioni. Va ribadito il nostro sostegno ai movimenti, a partire dalla vicenda No Tav e penso che alla costituente sui beni comuni di deve proporre da subito una mobilitazione per la raccolta delle firme sul referendum per abbattere la legge 30. Inoltre penso che sulla corruzione dilagante che attraversa il Paese il Partito dovrebbe assumere delle iniziative concrete. Giudico negativamente l’accordo siglato dalla Cgil il 28 giugno, penso che su questo tema bisogna costruire un momento di riflessione con i lavoratori. Su quanto accaduto in Calabria dico solo che nulla accade per caso, più volte ho denunciato la degenerazione di alcuni comportamenti, e per questo ho pagato un prezzo molto alto con il licenziamento al gruppo regione e con la mancata ricandidatura alle elezione provinciali nel collegio di Reggio-Sbarre, dove alle elezioni del 2006, con circa seicento preferenze, sfiorai l’elezione, in un territorio tradizionalmente di estrema destra. Questa vicenda mette in evidenza la decadenza della politica calabrese, dove il modello Reggio, sempre più sta diventando modello Calabria. Dobbiamo comprendere quello che è accaduto affinché non si ripeta mai più. Nessuno attraverso il potere economico deve condizionare la vita democratica di un partito. Dobbiamo guardare avanti e costruire un partito che sappia interpretare i bisogni dei tanti calabresi onesti per costruire una nuova stagione di riscatto. Per fare questo è utile uscire dal bipolarismo, quindi dobbiamo sostenere attivamente la raccolta firme a favore dei quesiti referendari per una legge elettorale proporzionale che superi il bipolarismo.

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Ugo Boghetta

Teniamo il congresso in una fase nuova: l'ascesa delle aspettative di massa del cambiamento, e dopo avere (quasi) vinto la battaglia per l'esistenza.
Serve un congresso unitario perché abbiamo bisogno di vero approfondimento, confronto, sintesi. L'obiettivo dovrebbe essere quello della ricostruzione di Rifondazione e della Rifondazione.
Per il dopo Berlusconi già emergono due ipotesi: una di sinistra (Napoli. Milano nella fase iniziale, i referendum), l'altra di centro, centro-sinistra con Confindustria, chiesa, accordo Cgil Cisl Uil. Non banalizziamo. Costoro stanno riflettendo più di noi sulla finanza, sul nanismo industriale italiano ed altro.
Noi dobbiamo agire questa sfida nei movimenti, anche quelli più spuri, nell'opinione pubblica popolare e democratica. L'obiettivo è costruire il fronte del popolo, la coscienza, il popolo, il polo dell'alternativa. Alcuni punti sono acquisiti e vanno concretizzati: i referendum (giustizia compresa). Altri mancano: la centralità del lavoro in tutti i suoi aspetti (in questo senso è negativo assai l'accordo sindacale), l'individuazione del nemico n. 1 nella finanza, un nuovo intervento pubblico in economia, la questione democratica che se correttamente declinata (proporzionale, rappresentanza lavoro, partecipazione cittadini) ha valenze antiliberiste. Un altro nodo è l'Europa. Direi: o cambia l'Europa o fuori dall'Europa. Questo significa per noi costruire un profilo culturale, politico programmatico non minoritario e non governista che risponda ad una linea di massa comprensibile ed al problema della scarsità di consenso elettorale ed organizzativo a fronte di quello su certi temi. Ed infine il congresso deve intrecciarsi fortemente con una rivisitazione del funzionamento della nostra organizzazione: segreteria nazionale, direzione, dipartimenti, Regionali, distanza fra centro e periferia, comportamenti negativi, gruppi dirigenti, web, Liberazione. Ciò al fine di evitare che tutto cambi e nulla cambi.

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Salvatore Bonadonna

Il limite maggiore che la sinistra di alternativa deve superare è la incapacità di superare la coazione a ripetere. È paradossale che mentre diciamo che la crisi ha un caratteri sistemico, che tutto è messo in discussione nei rapporti sociali, economici e culturali a livello nazionale ed internazionale, i parametri entro cui collochiamo le nostre azioni sono quelli che abbiamo sperimentato, nel bene e nel male, dentro la fase politica che sta arrivando a conclusione. Il ventennio della seconda repubblica si chiude dentro la crisi della globalizzazione alla quale l’Europa e ancor meno l’Italia sanno dare una risposta adeguata; il capitale finanziario sta imponendo le sue leggi agli stati e ai governi e la politica, invece di riprendere fino in fondo la sua funzione di scienza della trasformazione, appare sciogliersi, sfarinarsi.
La politica come esercizio dell’amministrazione dell’esistente ha mostrato il suo fallimento e, non a caso, si esaurisce ormai nelle faide di potere tra gruppi e persone che lo hanno esercitato avvalendosi di leggi elettorali “porcata”, di bipolarismo del pensiero unico, di maggioritario senza egemonia. L’esito dei referendum rappresenta in modo evidente che ritorna una domanda di politica ancorata a principi e valori forti, a visioni del mondo condivise, a democrazia partecipata che contesta la delega.
Per questo l’accordo interconfederale firmato anche per un grave cedimento della CGIL sul terreno della propria concezione della democrazia, oltre che una grave lesione ai diritti dei lavoratori, appare come l’estremo tentativo di una classe imprenditoriale senza idee e progetti, di salvare i propri profitti scaricando sui lavoratori il costo della competitività; per questo è necessario sostenere la FIOM e ogni azione volta a recuperare iniziativa e conflitto. Quando oltre quaranta anni fa, si propose la questione se dovessero essere le vecchie e gloriose Commissioni Interne o i consigli di fabbrica eletti su scheda bianca e le assemblee a validare le piattaforme e i contratti, nel confronto politico aspro, Bruno Trentin amava raccontare la storia della ranocchia e del ranocchio che si incontrano in uno stagno: il ranocchio corteggia la ranocchia e lei si schermisce dicendo “non sono una ranocchia ma una principessa trasformata dal sortilegio di una strega invidiosa e brutta; ma verrà un principe che con un bacio mi farà tornare principessa”; al che il ranocchio, inorgoglito: “neppure io sono un ranocchio, sono un metalmeccanico”, e quando la ranocchia chiede le ragioni della trasformazione, il ranocchio, disorientato, risponde “ ma, io non so! Ha fatto tutto il sindacato!!” Trentin concludeva dicendo che mai più si dovesse ripetere una cosa simile.
Accordo sindacale e referendum sono due facce contraddittorie della fase in cui siamo chiamati ad agire.
Bene dunque la organizzazione di un momento di studio sulla attualità del comunismo, come ha proposto Ferrero; suggerisco che più corretto ed opportuno sarebbe parlare di attualità del socialismo, come alternativa al capitalismo, dato che il richiamo al comunismo, storicamente determinato, non ha dato buoni esiti. Bene anche il seminario sul partito che sarebbe opportuno si rivolgesse anche alla crisi della politica, e delle sue forme, senza le cadute qualunquiste che sono, purtroppo, di moda.
Ferrero propone un Congresso unitario che non esponga il partito, già debole, a lacerazioni; d’accordo. Ma l’unità non è assenza di confronto ne può essere una sorta di congelamento dei gruppi dirigenti legati dal patto di gestione scaturito dopo la scissione vendoliana. Bisogna pur prendere atto che la proposta di costruire l’unità a sinistra attraverso la Federazione si è dimostrata inefficace, un cartello elettorale che non ha neppure funzionato come si pensava. Bisogna fare i conti con una crisi del PD che non riesce ad esprimere una ipotesi di alternativa alle politiche fallimentari e antipopolari con cui Berlusconi e Tremonti hanno gestito la crisi economica. Confrontarsi con SEL al cui interno si manifestano contrasti profondi su questioni fondamentali come l’accordo sindacale e i referendum per il ripristino del sistema proporzionale. Non è sufficiente ribadire la disponibilità al fronte democratico per mandare a casa Berlusconi e chiedere l’intesa con il PD con la garanzia di non partecipare ad un eventuale governo ma di sostenerlo per evitare il ritorno della destra. La situazione richiede il coraggio di sfidare la sinistra moderata su una proposta di alternativa di politica economica e sociale quale viene dai referendum sull’acqua; richiede di fare i conti con la riforma dello Stato sociale lungo una linea di uguaglianza e solidarietà, con la riforma della economia e della politica attraverso forme nuove di democrazia e di partecipazione e controllo dei lavoratori sull’impresa. E su questo terreno ricercare una robusta piattaforma di governo sulla quale impegnare tutta la disponibilità nostra e di quanti si cimentano nella costruzione dell’alternativa. Diversamente si rimane prigionieri del passato, si legittima la politica moderata ritagliando per se una ipotetica presenza parlamentare di testimonianza. Per questo la questione del governo è decisiva di una strategia non di una banale scelta “governista”.
Su questi terreni va sviluppato il confronto tra di noi e sarebbe auspicabile un congresso nel quale potessero confrontarsi, laddove si manifestassero, tesi diverse in maniera limpida e trasparente. Per questo le regole con le quali daremo vita al Congresso sono importanti: possono rappresentare la continuazione dell’esistente, fatto di patti di gestione del partito tra correnti o, viceversa, l’alimentazione di un soggetto politico che guarda alla costruzione della sinistra che serve oggi per l’alternativa di società e di governo. Questa sfida ridarebbe a Rifondazione un ruolo che difficilmente potrebbe essere ignorato od oscurato; si passerebbe dalla marginalità al protagonismo.

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Bianca Bracci Torsi

Credo che il risultato dei referendum ci dia qualche elemento di analisi in più e qualche indicazione di lavoro da sommare alla soddisfazione per una vittoria andata oltre le più ottimistiche previsioni. L’acqua è une bene comune per eccellenza, necessaria e preziosa per tutti come sanno gli abitanti di zone del nostro paese che ancora debbono misurarne l’uso, , ma il sì di massa alla sua gestione pubblica non segna anche la negazione dello sciagurato slogan “privato è bello” così caro al libero mercato? Il rifiuto delle centrali nucleari è senz’altro dovuto anche alla recente tragedia giapponese il cui incubo è prevalso anche sulle speranze di posti di lavoro. Ma è certo che è stata elevata a problema nazionale una lotta finora presente, pur con grande determinazione e costanza, nei territori direttamente coinvolti come la Sardegna. Infine il legittimo impedimento. Era il quesito meno pubblicizzato e meno legato alla vita quotidiana eppure il numero dei votanti e la percentuale dei sì è stata più o meno pari agli altri. Un effetto di traino, un successo dell’antipolitica dei grillini? E’ probabile il peso di entrambi questi elementi ma quel che emerge in modo chiaro è la caduta verticale del carisma di Berlusconi e l’aspirazione a una giustizia davvero “uguale per tutti”. Le risposte uguali a quesiti diversi ci danno un (finalmente positivo) elemento di analisi e una indicazione di lavoro. Tutti e tre stanno a dimostrare una secca condanna del liberismo e una scelta dei mezzi per uscirne, direi un principio di presa di coscienza che spetta anche a noi far crescere partendo dai conflitti territoriali e di lavoro troppo spesso ancora costretti nei limiti di categoria o di municipio, se vogliamo che questo successo non resti isolato ed esposto a tentativi già in atto di limitarlo o annullarlo (la libera scelta fra acqua pubblica o privatizzata del Pd, e la gravissima resa al nemico di classe della Cgil). Un impegno necessario per portare a un rapporto giusto con la politica e una nuova militanza lavoratori e cittadini democratici anche in vista della campagna che ci aspetta per una nuova legge elettorale che, insieme alla difesa della Costituzione, appare ancora a gran parte dell’elettorato qualcosa di “politicista” riservato agli addetti ai lavori e lontano dai problemi sempre più pesanti della realtà di ognuno. E questo ci richiama alla necessità di una maggiore e più preoccupata attenzione al riproporsi di un neofascismo appena mascherato che si esprime nelle aggressioni di strada, di scuola, di stadio come nelle proposte governative di abrogare il divieto costituzionale alla “ricostituzione del disciolto partito fascista, sotto qualsiasi forma”, alla revisione di libri di testo di parte antifascista, alla parificazione tra partigiani e reduci di Salò, oltre che nell’appoggio a interventi sulle condizioni di lavoro ed il ruolo del sindacato che ripropongono, con poche varianti, le corporazioni di Mussolini. Un nuovo movimento antifascista, essenzialmente composto di giovani e giovanissimi, esiste e sta crescendo e organizzandosi in reti e coordinamenti e vede presenti quasi dappertutto i giovani comunisti e gli iscritti all’Anpi ma la sua crescita e visibilità deve diventare una scelta di condivisione e di internità per tutto il Partito e per la Federazione della Sinistra.

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Alberto Burgio

Care compagne e cari compagni,
a me pare che la fase politica attuale si collochi dentro la polarità instabilità/stabilizzazione, reattività sociale/normalizzazione.
Pensiamo, per cominciare, alle insurrezioni nel nord Africa. Quale prospettiva possiamo immaginare dopo le rivolte (che peraltro continuano in Siria e in Egitto), mentre prosegue la guerra della Nato in Libia (finalizzata alla instaurazione di un protettorato anglo-francese), gli Stati Uniti si disimpegnano per concentrarsi sul Golfo e l’Asia centrale e l’Europa registra crescenti divisioni al suo interno?
Da una parte va riconosciuto il dato di fatto che le rivolte testimoniano l’emergere di un sottosuolo ribollente: le società possono essere sedate (con dosi più o meno massicce di violenza) ma non possono essere pacificate dentro la cornice della divisione internazionale delle risorse e delle funzioni di comando. Questo resta un dato strutturale, attivo sul lungo periodo. Ma, dall’altra parte, non può essere affatto esclusa l’ipotesi di un assorbimento dell’onda d’urto, cioè di una sostanziale restaurazione del precedente quadro politico. Mi pare vadano in questa direzione non solo le vicende egiziane e le dure repressioni in Siria, ma anche la situazione maturata in Giordania, Yemen e Bahrein e, sin dall’inizio, in Algeria.
Rispetto a questo quadro ambivalente c’è una analogia (non priva di ragioni nel contesto mondiale del comando capitalistico) con la situazione interna dei Paesi europei e del nostro Paese in particolare.
In Italia (per limitarci a una descrizione sommaria) il voto di maggio e di giugno ha registrato una forte presa di parola della società, della sua ampia e persino maggioritaria componente democratica e critica: una presa di parola tanto più significativa, se consideriamo il deficit di direzione politica del “popolo della sinistra”. Ma è sin troppo evidente, per contro, il tentativo – in particolare del Pd – di imbrigliare la domanda di liberazione posta dal Paese. Pensiamo alle valutazioni duramente ostili nei confronti delle lotte in Val di Susa; alla guerriglia sull’acqua (che non è quella della Puglia, come qui è stato sostenuto, ma quella aperta dagli amministratori delle cosiddette regioni rosse); alla vicenda dell’accordo interconfederale, caratterizzata da un marcato connotato politico; alla posizione anti-proporzionalista, infine, assunta sulla legge elettorale. Il tutto sullo sfondo dell’ostentata ricerca di un’intesa privilegiata con l’Udc.
Anche in questo caso si ripropone il classico gioco tra azione e reazione. Chiediamoci allora come si svilupperà questo gioco.
La sequenza dei voti tra maggio e giugno ha segnato un passaggio rilevantissimo, mostrando l’esistenza di una straordinaria potenzialità trasformativa del nostro Paese, che va ben al di là dei pur importanti contenuti dei referendum e della partita amministrativa e investe frontalmente lo stesso modello sociale e la sua gestione neoliberista. Detto questo, raccomanderei di evitare – tra noi – di precipitare per l’ennesima in previsioni del tipo “non si tornerà più indietro”, “nulla sarà più come prima”, previsioni a cui siamo stati abituati da una certa retorica politica e che proprio per il loro ripetersi diventano ridicole. La verità è che siamo nel guado, e in mezzo a correnti fortissime.
Il dato cruciale è l’instabilità generale che sovrasta l’intero quadro politico-economico e sociale del Paese. Una instabilità radicata nella struttura produttiva del Paese e che coinvolge gli stessi “poteri forti”, anche se il padronato italiano e la speculazione del grande capitale nazionale lucrerà anche su questa crisi del debito e sulle misure economiche che ne conseguiranno.
Siamo entrati in una fase di acutissima turbolenza, simile a quella dei primi anni Novanta e destinata ad accrescersi sino al 2014, il che significa che abbiamo dinanzi, con tutta probabilità, tre anni di devastante macelleria sociale a danno di un Paese già stremato. È molto significativo che tra centrodestra e centrosinistra la polemica sulla manovra Tremonti verta sulla tempistica (su chi sarà chiamato ad applicarla) piuttosto che sui contenuti, in buona sostanza assunti come ovvi.
Dicevo della turbolenza finanziaria e dell’urto che essa scaricò sulla condizione materiale delle classi lavoratrici all’inizio degli anni Novanta. Il guaio è che, rispetto a quel momento, oggi la sinistra è più debole, frammentata e arretrata, e lo stesso vale per il centrosinistra (il Pds manteneva con le sue radici legami ben più stretti di quanti non ne abbia oggi il Pd).
Se questo è vero, qual è l’indicazione che emerge in questo quadro?
A me pare che proprio questa situazione sfavorevole imponga la ricerca della più vasta unità possibile a sinistra, precisamente allo scopo di mettere a valore e incrementare il potenziale critico espresso nel voto dal Paese, e – a monte – dalle mobilitazioni della Fiom e del movimento No-Tav, dalle lotte per la scuola e l’università pubbliche, i beni comuni e i diritti civili e dalla battaglia delle donne contro il patriarcato. Le difficoltà con cui siamo costretti a fare i conti impongono la ricerca della massima unità, per così dire, “orizzontale” tra l’insieme delle forze critiche, politiche e di movimento, a cominciare dalla Fds, contro la quale sono state pronunciate in questo nostro dibattito parole a dir poco fuori luogo; e la massima possibile unità “verticale” tra le forze politiche della sinistra nelle sue diverse articolazioni.
Per quanto possa apparire paradossale (ma le contraddizioni sono nei fatti), dell’unità si ha tanto più bisogno quanto più essa è difficile. E la difficoltà connota la situazione presente come connotava la situazione in cui Rifondazione Comunista è nata vent’anni fa – tanto per chiarire che, nella sostanza, la fase è ancora quella, con buona pace delle estemporanee teorie che registrano “nuovi cicli” politici e storici ad ogni piè sospinto.
Se questo è vero, il nostro compito è ricercare sempre il difficile equilibrio tra la piena autonomia del partito e della Fds (autonomia nel giudizio e nella definizione della linea) e una tenace pratica unitaria, astenendoci da qualsiasi forzatura foriera di lacerazioni (come diversi compagni hanno giustamente osservato a proposito delle irricevibili espressioni – irricevibili perché insultanti – da taluno usate per criticare il pur pessimo accordo sulla contrattazione).
Il 2011 sta dentro la fase aperta dal 1989-91, che a sua volta rimanda alla cesura degli anni Settanta, cioè alla fine dei cosiddetti “Trenta gloriosi”. Dobbiamo avere ben chiaro che finché questa fase storica non si sarà esaurita, le condizioni generali saranno avverse alle nostre lotte, e dovremmo tenerne conto quando snoccioliamo i nostri pur sacrosanti obiettivi strategici. Le insorgenze che le società manifestano (in Italia come in Spagna e Grecia, come nel nord Africa, ma anche in Inghilterra, se pensiamo al movimento contro le leggi sull’università) dimostrano che la partita non è affatto chiusa. Ma una considerazione sobria della realtà ci induce ad aggiungere subito che essa è lunga e che oggi non la giochiamo in posizioni di forza.
Due parole, infine, sul Congresso.
Il tema dell’unità riguarda anche il partito, quindi condivido appieno l’auspicio che si riesca a fare un Congresso unitario. Ma sono molto d’accordo anche con quei compagni che ci ricordano che, se la prendiamo sul serio, anche l’unità tra noi è un obiettivo che va perseguito: è un fine, non un presupposto. L’unità è un obiettivo che va perseguito in spirito di verità e di onestà intellettuale, altrimenti si tratterà di una pura e semplice finzione, e il risultato del Congresso sarà inferiore alle esigenze e alle nostre stesse possibilità, e tale da non consentirci di fare un solo passo in avanti verso la soluzione dei problemi con i quali il partito deve fare i conti.
Questo, a mio giudizio, significa, in sintesi, due cose.
La prima è che abbiamo bisogno di un confronto vero, esigente, già nelle Commissioni, affinché l’unità sulla politica risulti dalla sintesi più alta delle diverse prospettive, che vanno seriamente assunte come una ricchezza.
Da qui segue la seconda considerazione, relativa alle aree o correnti che dir si voglia. Su questo tema suggerirei molto semplicemente di invertire l’ordine del discorso: le aree-correnti (non interessa qui porre questioni terminologiche) non preesistono alle nostre divergenze pratiche e politiche (e per divergenze pratiche intendo anche quelle prodotte dalle modalità di gestione del partito) ma ne conseguono, chiamando in causa scelte e pratiche del gruppo dirigente, in misura direttamente proporzionale alle responsabilità ricoperte. Anche in questo caso è questione in primo luogo di onestà intellettuale, perché in questo discorso una cosa credo non si possa assolutamente fare: brandire l’argomento dell’unità del partito usandolo come un’arma per la lotta interna.

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Maria Campese

Questa nostra discussione si colloca all’indomani di importanti appuntamenti, elettorale e referendario, che hanno avuto un esito non scontato.
Il risultato delle elezioni amministrative ci hanno consegnato un quadro in cui le forze del centrosinistra complessivamente avanzano e che vede una sostanziale tenuta del Partito Democratico, un arretramento dell’Italia dei Valori, il mancato decollo elettorale di SEL, un risultato di sopravvivenza della Federazione della Sinistra.
L’analisi del voto fa emergere che la FdS ottiene risultati migliori laddove va in alleanza, poiché il sistema maggioritario penalizza le liste che si presentano da sole o in alleanze poco credibili (ai fini dell’esito delle votazioni): insomma emerge che il voto utile condiziona fortemente il consenso.
Il tema quindi oggi è quello della modifica della legge elettorale, perché solo se si opera in direzione dello scardinamento del bipolarismo potremo affrancarci dal condizionamento di costruire le alleanze a prescindere e potremo caratterizzare la nostra proposta politica.
L’altra importante consultazione è stata quella dei referendum. Il risultato dei referendum è stato straordinario, anche grazie al protagonismo delle nostre compagne e dei nostri compagni. Siamo stati dal primo momento nel comitato promotore dell’acqua e abbiamo contribuito anche noi alla formulazione dei quesiti referendari, così come abbiamo sostenuto convintamente i referendum sul nucleare e sul legittimo impedimento. Oggi dobbiamo vigilare affinché si dia attuazione all’esito dei referendum, poiché c’è il rischio serio che si dia una interpretazione riduttiva della volontà espressa dalla consultazione: il PD, che aderisce ai referendum all’ultimo minuto utile, all’indomani del risultato, per bocca del suo segretario, dichiara che il risultato del referendum sull’acqua va interpretato come ritorno alla doppia opzione pubblico/privato.
In questo quadro, all’indomani di tali importanti risultati, il governo delle destre prepara una manovra finanziaria con pesanti tagli agli enti locali (9,6 miliardi in meno); la crisi avanza, aumenta la richiesta di assistenza ed il governo taglia. Le regioni, le province ed i comuni non saranno più in grado di dare ai propri cittadini i servizi minimi essenziali. E la situazione peggiorerà sempre più per il Mezzogiorno d’Italia con la piena attuazione del federalismo fiscale; del resto, misure sperequative fra Nord e Sud sono in campo già da tempo; un esempio su tutti: la distribuzione del fondo sanitario nazionale alle regioni viene da anni fatta con criteri tali da far stanziare E. 127 procapite ai cittadini del Nord e E. 40 procapite ai cittadini del Sud. Un dato che si commenta da solo.
Alla luce dei risultati elettorali e referendari e in considerazione della iniqua manovra finanziaria si è sviluppata la discussione sulle alleanze possibili per cacciare il governo delle destre. In tale discussione la FdS è assente: sia perché c’è la volontà di espellerci dal quadro politico, sia perché noi per primi ci siamo tirati fuori dall’ipotesi di possibili alleanze per un governo di centrosinistra.
Penso sia stato sbagliato tirarci fuori dal confronto politico: dovremo verificare, a partire dai contenuti programmatici, la possibilità di alleanze di governo.
Abbiamo lanciato l’ipotesi di un polo della sinistra. Chiedo: per fare cosa?
Se l’ipotesi è quella del confronto sui contenuti programmatici per verificare la fattibilità di un’alleanza l’aggregazione vedrà il coinvolgimento delle forze che non escludono a priori l’ipotesi del governo. Se altrimenti noi escludiamo qualsiasi coinvolgimento in alleanze per un governo del centrosinistra, allora il polo di sinistra dovremo costruirlo con Sinistra Critica ed il PdAC.
Alla luce del posizionamento nel terso polo dell’IDV, dovremo anche rivedere l’ipotesi di avere tale forza fra i soggetti privilegiati al confronto. Il nostro interlocutore privilegiato rimane SEL, ma possiamo noi continuare a dire di voler costruire l’unità a sinistra e contemporaneamente, ogni giorno, dalle pagine di Liberazione, attaccare Vendola ed il governo regionale pugliese? È veramente la Puglia la regione con il governo più arretrato fra quelli del centrosinistra? Non si fa un confronto fra le politiche messe in campo nelle regioni a presidenza PD e si criminalizza il governo pugliese. Su Liberazione ogni giorno si reitera la stessa, identica, dichiarazione del comitato pugliese per l’acqua, e si raccolgono attacchi di dirigenti di partito sulle questioni più svariate. Ma è, o non è, la regione Puglia l’unica ad aver trasformato l’ente Acquedotto Pugliese da spa in ente di interesse pubblico? Vogliamo dirlo o no. Il comitato pugliese per l’acqua lamenta che la legge approvata non è pienamente rispondente a quanto concordato in sede di stesura: da allora sono trascorsi anni-luce in termini di vincoli economico-finanziari.
Ma il dato più preoccupante che rilevo è che dirigenti nazionali del Partito possano provare soddisfazione se il governo pugliese soccombe al voto rispetto alla destra, su una questione demagogica, nell’unica regione che non usufruisce del premio di maggioranza.
Si ritiene forse che attaccare Vendola ci porti più consenso? No, indebolisce tutti.
Liberazione oggi porta avanti una linea politica che sembra dettata da Sinistra Critica e dal Pdac, su posizioni minoritarie, settarie, contro ogni ipotesi di governo.
Penso non ci sia rispondenza con la linea politica del Prc sancita nei documenti votati dagli organismi dirigenti, ma se la linea politica del Partito dovesse coincidere con quella portata avanti da Liberazione allora si dovrebbe uscire da tutti i governi locali, ai diversi livelli; e bisognerà costruire un polo della sinistra che si accontenta dell’0.8% di consenso, e che sta fuori dalla rappresentanza istituzionale.
Il congresso unitario che ci aspetta, proprio perché unitario, potrà, dovrà, costituire l’occasione per una discussione vera su questi nodi, una discussione non più rinviabile.

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Luca Cangemi

É necessario che il congresso sia un momento forte di protagonismo dei compagni e delle compagne del partito ma che sia in grado anche di parlare all’esterno. Quest’obiettivo richiede modalità adeguate in tutto il percorso (in particolare una discussione aperta alle soggettività con cui vogliamo interloquire, sin dai congressi dei circoli) ma soprattutto riguarda la qualità dell’analisi di fase e della proposta politica, la capacità di dire parole significative sul contesto complesso in cui questo nostro appuntamento si situa. Un contesto, sottoposto a tensioni e accelerazioni, che richiede, una costante capacità di lettura e intervento.
Il congresso “deve” essere unitario è stato detto da molti e molte- con argomentazioni che condivido- sulla fase politica, sullo stato del Partito, sull’orientamento che viene dai compagni e dalle compagne. Credo che sia giusto porre l’accento anche sul fatto che il congresso “può” essere unitario, perchè l’elaborazione della linea politica è stata largamente unitaria, come segnalano, ormai da tempo, i documenti votati dal comitato politico nazionale.
Davanti al congresso e all’azione del partito sta il tema dello sviluppo, dell’articolazione e dell’applicazione della linea politica. Così come vi è la questione del rapporto tra linea, culture politiche, gestione del partito. Sono terreni che l’esperienza di questi anni ci ha mostrato essere non privi di contraddizioni, che potranno essere superate con un impegno che guardi con uguale attenzione ai contenuti dei documenti e alla coerenza dei comportamenti.
In quest’ottica va affrontata anche la questione della federazione della sinistra. La tendenza a ridurla a mero cartello elettorale, che ritorna esplicitamente in alcuni interventi e implicitamente in diverse posizioni, non solo contraddice quanto abbiamo più volte affermato ma rischia di introdurre elementi regressivi difficilmente gestibili.

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Giovanna Capelli

E' il nostro momento,la fase non è chiusa e il PRC non è solo un corpo collettivo sfinito dalle ferite,malato di istituzionalismo,ma è anche un luogo vivo percorso dal filo rosso della costruzione del partito sociale, dalla partecipazione alle lotte,dalle campagne referendarie,dalla generosità di chi lo ha fatto vivere in questi anni difficili. I risultati elettorali non sono un caso.
Grande è la instabilità e caotica la trasformazione:Berlusconi cade al rallentatore ,il vecchio ordine non crolla e il nuovo fatica a nascere .Nella lunga transizione dentro alla crisi strutturale del capitalismo convivono molti progetti,ma si connettono già tutti quelli che hanno l'obiettivo di mantenere la subalternità all'ordine economico internazionale,che preparano per l'Europa la distruzione dello stato sociale e della democrazia. A questo orizzonte si inchinano centro-destra e centro sinistra .Se il quadro sovraordinatore è questo va precisato nella analisi della crisi non solo la qualità delle risposte alternative ,ma il peso oggettivo di questo vincolo.
Decisivo è il ruolo dei movimenti e il nostro essere dentro alle loro dinamiche; mentre cresce nei luoghi di lavoro l'evidenza dell'intreccio fra capitalismo e patriarcato (a Inzago la fabbrica Mavib licenzia solo le operaie, dopo due anni di cassa che ha escluso i maschi), a Siena si riunisce un movimento di donne organizzato dall'alto, con grandi strumenti mediatici. Un senso comune moderato fagocita la indignazione delle donne che hanno riempito le piazze il 13 febbraio. Manca la nostra iniziativa e la voce di un femminismo che non si accontenta della parità dentro la ingiustizia sociale. Propongo che le donne del PRC elaborino una proposta per costruire occasioni, relazioni e pratiche che colmino questo vuoto.

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Pino Commodari

Il PD tenta di ingabbiare i referendum dopo averli cavalcati, divenendo soggetto protagonista della ristrutturazione capitalista neoliberista in atto. Le scelte di politica economica e sociale del PD vanno in questa direzione. La firma della CGIL all’accordo del 28 giugno, la colloca tra chi sostiene questa ristrutturazione. L’accordo va giudicato negativamente perché, assieme alla linea politica del PD, tenta di comprimere la spinta alla partecipazione, al conflitto e al cambiamento che caratterizza questa fase, va contro i diritti dei lavoratori, costituisce un nuovo corporativismo, è antidemocratico e modifica in profondità la natura stessa del sindacato. Il tutto per costruire il dopo Berlusconi, senza mettere in discussione le politiche neoliberiste. La FdS deve esprimere un giudizio sull’accordo. La costituente dei beni comuni rafforza il percorso referendario. Dobbiamo connettere la battaglia per i beni comuni con quella per la democrazia e per il ritorno al proporzionale, contro la corruzione, la precarietà e la legge 30, la finanziaria, vera e propria macelleria sociale, che distrugge definitivamente lo stato sociale, riduce drasticamente i trasferimenti agli enti locali, sopprimendo i servizi. Il capitalismo finanziarizzato impone le sue scelte. Dopo aver provocato la crisi, propone di uscirne facendo pagare i costi ai lavoratori, ai precari e ai pensionati. L’Europa fa proprie queste scelte. In questo contesto diventa tragico per noi e per gli interessi che vogliamo rappresentare, pensare di far parte di un governo di centro sinistra. Dobbiamo contribuire a cacciare Berlusconi e a far nascere un nuovo governo, questa, ritengo, è la “costituente democratica”. Andare oltre rappresenterà un tragico errore e l’esperienza del governo Prodi non ha insegnato nulla e il congresso di Chianciano non è servito proprio a nessuna cosa. Su grandi temi come la guerra e la democrazia siamo in grande disaccordo. Bisogna costruire una forza autonoma dal PD, un polo della sinistra di alternativa. E’ fondamentale la nostra internità ai movimenti che va praticata e non declamata. E’ necessario un congresso unitario sulla politica e non su un unanimismo di facciata. Dobbiamo affrontare la ricostruzione dell’etica nel nostro partito, la vicenda della Calabria lo impone, le modalità di costruzione dei gruppi dirigenti, il rapporto tra eletti e partito. Bisogna trarre un bilancio sulla FdS, che non gode di ottima salute. E necessario ridefinire i rapporti con Sel, che ha tutt’altra prospettiva politica tutta interna alle compatibilità di sistema. Va messo al centro del nostro dibattito il tema della rifondazione comunista, del nesso stretto tra comunismo e libertà e dell’attualità del comunismo in questa fase di crisi del capitalismo.

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Alfredo Crupi

Il capitalismo finanziario impone a livello europeo e mondiale politiche monetariste e liberiste che aggravano la crisi e peggiorano le condizioni di vita delle masse popolari. In questo quadro europeo e nazionale, in cui le ricette neoliberiste sono fatte proprie anche dal centrosinistra, negli attuali rapporti di forza, dobbiamo tenerci lontani dall’assumere responsabilità di governo.
Il segretario ci ha presentato la crisi del governo Berlusconi come frutto del forte vento di cambiamento sociale, che la borghesia cerca di imbrigliare in una gestione morbida della transizione verso nuovi equilibri. Io credo che taluni poteri forti abbiano iniziato da tempo lo scontro con il governo, non più idoneo a tutelare i loro interessi, e hanno individuato punti di convergenza con altri importanti soggetti sociali fino a costruire un fronte comune, da essi egemonizzato. Vi è dunque una convergenza d’interessi di settori sociali molto diversi verso l’obiettivo dell’abbattimento del governo, ma ciò nonostante la sconfitta di Berlusconi appare possibile ma non certa, e la sinistra sociale e politica non è oggi in grado di provocare e gestire da sola il cambiamento. Questo rende possibile e necessario il confronto. Non possiamo partecipare al governo, non possiamo eludere la domanda sociale di cambiamento che chiede la cacciata di Berlusconi. Da qui la proposta del fronte per la democrazia, per la difesa della Costituzione. Ma questo significa difendere non un pezzo di carta ma i diritti dei lavoratori, la pace, lo stato sociale, la libertà d’informazione, ecc. E’ rispetto a questi temi reali che dobbiamo chiarire se la cacciata di Berlusconi può rappresentare un passo avanti, pur nel quadro difficile che viviamo. Se la risposta fosse negativa dovremmo assumere una linea di opposizione netta anche al centrosinistra. Se viceversa, come capisco dalla relazione, è timidamente positiva, allora ci sono i margini per l’apertura di un confronto programmatico, da intessere in relazione con i movimenti, in modo da rendere visibili e forti le nostre posizioni. Una sfida da sinistra sul programma possibile che sarebbe suicida lasciare in mano a SEL. Tuttavia suggerisco prudenza nell’uso dei termini: il segretario ha parlato di primarie sul programma, ma alle primarie può partecipare solo chi è già in coalizione e il loro risultato vincola anche chi perde. Meglio parlare di confronto sul programma.
Anche l’accordo interconfederale, grave dal punto di vista delle relazioni sindacali che disegna, si inserisce nel quadro di ricomposizione di un blocco sociale moderato funzionale a un accordo politico PD-terzo polo. Ma io credo che ci dobbiamo interrogare pure sul rapporto tra le diverse categorie, la differente capacità dei diversi segmenti del mondo del lavoro di reggere uno scontro sociale prolungato in condizioni di divisione e isolamento sindacale contro un governo arroccato e sordo al dialogo. Ciò significa che la nostra critica non deve dimenticare il ruolo centrale di opposizione sociale e politica che la CGIL ha finora avuto e deve tenere conto delle difficoltà reali del movimento sindacale.
Dobbiamo avanzare una proposta di uscita a sinistra dalla crisi all’altezza della fase, ma per renderla credibile dobbiamo realizzare maggiori livelli di unità a sinistra e rafforzare il ruolo della Federazione, che non può restare un mero cartello elettorale, perché così non è sostenibile sul lungo periodo, non è attrattiva.
Sono per un congresso vero che affronti i nodi politici e teorici essenziali, che sia unitario perché vi sono le condizioni per farlo e perché diversamente semineremmo sconcerto. Un congresso a tesi, in cui su un corpo largamente condiviso si possano introdurre riflessioni diverse senza per questo provocare rotture. Il superamento delle correnti si può gradualmente realizzare, tenendo conto della funzione positiva che le aree hanno pur svolto, costruendo un’elaborazione comune e una fiducia reciproca nella conduzione del partito e nell’applicazione delle scelte che si assumono.

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Gianni Fresu

Alla vigilia del nostro VIII Congresso, per quanto possa apparire poco logico, più che un problema di linea politica, su cui tutto sommato (tra tante sfumature) ci si può intendere, intravvedo una questione più stringente e preliminare, quella del soggetto deputato a incarnare e perseguire in maniera coerente e credibile quella linea. Da oramai tre anni continuiamo a dimenarci in mezzo al guado di un processo di transizione che pare infinito. Tra rallentamenti, fughe in avanti e ripiegamenti repentini, nei fatti, non siamo stati capaci di trasformare il Progetto della Federazione della Sinistra in un soggetto organico con organismi dirigenti e proposta politica sottoposta a verifica democratica. Abbiamo preferito una costante mediazione su tutto, alla ricerca dell’unanimismo, con il risultato di minarne la credibilità, la capacità attrattiva e, in ultima analisi, la tenuta elettorale. A partire dalla presentazione della lista comunista e anticapitalista alle ultime elezioni europee, il progetto della Federazione della Sinistra ha suscitato diverse speranze e molteplici aspettative. La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro. Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive, nel senso che a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale, la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile, capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Nonostante la presenza simultanea di questi fattori e le enormi potenzialità della fase, la Federazione stenta però a decollare e, a mio avviso, se non si imprime una severa sterzata, rischia di esaurirsi per autoconsunzione o implodere per deflagrazione interna. Il congresso della Federazione, in realtà poco più di un attivo nazionale dei quadri, è stata un’occasione mancata, perché la scelta di determinare organismi dirigenti pletorici, sulla base di quote predeterminate, senza vagliare il loro peso a tutti i livelli con congressi veri, ha impedito di risolvere il problema prioritario che la Federazione vive a livello nazionale e locale: la sovranità e l’effettiva capacità decisionale degli organismi federativi rispetto a quelli dei soggetti fondatori; la capacità di operare delle scelte politiche andando oltre la drammatica alternativa tra unanimismo e separazione che sistematicamente si presenta nei territori quando si tratta di far parte di un’alleanza o di una giunta, presentare liste, stabilire le modalità comuni di iniziativa politica e lotta sociale. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, allo stato attuale, la Federazione è poco più di un cartello elettorale, perennemente impastoiato in micro conflitti interni, nel quale tra i soggetti fondatori, in particolare i due partiti che dovrebbero costituire il fulcro dell’organizzazione, piuttosto che la reciproca lealtà e la solidarietà attiva e permanente prevalgono deteriori mire egemoniche e controegemoniche. Occorre una svolta urgente, e a mio avviso questo dovrebbe essere anzitutto il compito dell’VIII Congresso del PRC, per dar corso ad un effettivo processo di amalgama delle realtà che danno vita alla Federazione. In assenza di questa svolta, ma sarebbe una sciagura, meglio investire tutte le nostre energie sul rilancio della rifondazione comunista. Di certo non è più ammissibile che il criterio ispiratore della Federazione sia una sorta di pilatesca “mano invisibile”, in ragione della quale, dato che non possiamo fare di meglio, ci limitiamo a lasciare campo alle libere fluttuazioni tra i soggetti fondatori nell’assurda speranza che la competizione internatra PRC e PdCI possa essere tutto sommato positiva. Non credo che se ognuno persegue il suo utile soggettivo fa, inconsapevolmente o meno, il bene dell’insieme e anche qualora fosse fortunosamente così il bluff si sgonfierebbe immediatamente dopo, quando al momento elettorale subentrano le ordinarie e straordinarie incombenze dell’agire politico. Personalmente riterrei un grave errore un arretramento del processo federativo, dell’unità organica tra le forze che ne sono protagoniste, perché darebbe un’ulteriore conferma dei limiti della sinistra di classe nel nostro Paese, avviando un nuovo processo di scissione e frammentazione che nella drammaticità della situazione e nei risicati numeri che ci riguardano avrebbe connotati farseschi. Bisogna uscire dal guado, dare testa, corpo e gambe alla Federazione per consentirgli di vivere e misurarsi sul terreno della lotta politica nel cofronto con le altre forze democratiche e di sinistra. Ciò che non è più accettabile è il mantenimento di questo stato di cose dominato dall’inerzia e dalle ambiguità, oltre il quale intravvedo solo il progressivo svuotamento e l’impotenza sia della Federazione, sia dei suoi soggetti costitutivi. La Federazione nasce all’interno di un lungo processo dialettico nella sinistra, con l’ambizione di porre fine alle lacerazioni e al processo infinito di scissioni, più o meno significative. A questo processo dialettico manca il salto decisivo, il mutamento dalla mera quantità, puramente sommatoria, alla qualità nella natura dei rapporti federativi. Occorre il coraggio politico e la necessaria determinazione nella volontà per far compiere questo salto al nostro progetto politico.

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Ezio Locatelli

“Ho l’impressione, se usciamo da questa ristretta cerchia di discussione, che ci siano ancora troppi compagni/e attardati in una discussione involuta, priva di slancio a fronte della necessità che il partito nel suo insieme colga le potenzialità positive dei cambiamenti in atto. Cambiamenti che non sono semplicemente nei termini di un capovolgimento delle fortune politiche di una maggioranza di governo quanto nei termini dell’esaurimento di un ciclo sociale e di una radicale rimessa in discussione di molti valori portanti del pensiero dominante. Lo abbiamo visto in questi mesi di intensificazione del conflitto sociale e coll’ultimo referendum. I segnali sono di un rovesciamento di elementi di egemonia e di sintonia di cui per lungo tempo ha beneficiato la destra, penso ad esempio ai temi della sicurezza o dell’immigrazione extracomunitaria agitati in termini securitari. Oggi, dentro lo sconquasso della crisi, su temi come la precarietà, il lavoro, i beni comuni succede il contrario. Assistiamo ad un cambiamento di percezione, di immaginario collettivo che può ridare respiro e fiducia nella nostra capacità di agire, di portare avanti un discorso di cambiamento. Abbiamo questa possibilità ad alcune condizioni. Ne indico due. La prima è che non ci si chiuda nel campo delle formule ideologiche o politicistiche – unità dei comunisti, costituente della sinistra o quant’altro – in un momento in cui bisogna tornare a fare discorsi correlati all’esperienza vissuta, concreta certo avendo la capacità di saldare concretezza e ragioni di fondo di una alternativa di società. Anche per quanto riguarda il tema dell’unità della sinistra, stiamo attenti alle scorciatoie fatte a tavolino, il solo modo per trovare delle risposte e fare passi in avanti è nel conflitto sociale che attraversiamo. La seconda condizione è che in questa fase - che è si di ripresa sociale ma anche di forte critica nei confronti delle attuali forme di rappresentanza - noi dobbiamo lavorare di più ad una strategia di radicamento e di programma di lavoro nei territori come aspetto che caratterizza e differenzia il nostro agire politico. Chiedo: dopo averla lanciata quando parte la campagna sociale su “futuro, lavoro, società”? Diamo priorità a questo impegno senza nulla togliere all’importanza di lavorare ad una proposta politica. Su questo punto anche se mi sembra del tutto inverosimile guardare ad una prospettiva di governo – non ce ne sono le condizioni – dobbiamo trovare la maniera di incalzare non solo sull’idea del fronte democratico per battere Berlusconi, ma di misurarci sulle proposte di programma, sui contenuti”.

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Annalisa Magri

Un pezzo della storia di Rifondazione Comunista ha inizio a Genova nel 2001 e giunge attraverso un percorso che è stato tortuoso, a volte smarrito, poi ripreso, fino alla Val di Susa nel 2011. Più in generale possiamo dire che un pezzo importante della storia dei Comunisti ha inizio nel Luglio del 1960 con i massacri dei lavoratori (da Genova a Reggio Emilia), passa attraverso le lotte degli agrari e degli operai degli anni ’60 e ’70, attraversa gli accordi sindacali del ’93, si inceppa nella cosiddetta Legge Biagi e si scontra con l’accordo confederale del 28 giugno. Accordo che si configura come un arretramento rispetto alla breve stagione di avanzamento delle Amministrative e dei Referendum e che abbiamo salutato positivamente; ci auguriamo e lavoreremo affinché si costruiscano in questo Paese le condizioni per un concreto cambiamento che parta proprio dalla nostra “primavera elettorale”.
Nell’Italia del 2011 il capitalismo mostra ancora il suo volto più feroce, scaricando la sua crisi sistemica sui più deboli; il mondo 2011 è tutto fuorché pacificato come stanno a dimostrare i numerosi conflitti attualmente in atto e, di recente di nuovo rifinanziati, dal nostro Governo. Il divario tra i Nord e i Sud del mondo è oramai un solco profondissimo; le “avanzate” democrazie occidentali non riescono a “gestire” l’arrivo dei tanti e delle tante che lasciano i loro paesi a causa della guerra e della fame. Questo nei casi migliori, perché noi ci distinguiamo nella platea mondiale per razzismo e per intolleranza: il ministro La Russa ha ottenuto il rifinanziamento della missione afgana, ma in cambio deve sborsare alla Lega Nord più soldi per “gestire” i clandestini che arriveranno nel nostro Paese, per la serie tutto ha un prezzo... E restando fuori dai nostri confini nazionali, dobbiamo citare, almeno per titoli, la cosiddetta Primavera araba, sulla quale sarebbe bene fare un’analisi molto approfondita sulla sua natura, anche per capire come mai, quella primavera, ho solo parzialmente soleggiato qui da noi, portandoci i positivi risultati delle Amministrative e dei Referendum, ma che non ha prodotto, almeno per ora, un reale e radicale cambio di rotta politica. Comunque quella “nostra primavera” ha detto al nostro partito e alla Federazione: ci siete ancora – potete ancora lottare e per noi questo non era scontato.
Sta di fatto, però, che l’Italia nella quale il nostro partito agisce politicamente è l’Italia ancora governata da Berlusconi, senza una sostanziale opposizione parlamentare e senza, ancora, un’opposizione sociale, fuori dal Parlamento, che sia ben organizzata; tant’è che la sua maggioranza farlocca, gossippara, piduista ha comunque varato una manovra economica che scaricherà il suo peso sui più deboli al contrario proteggendo la casta, la cricca, l’Italia degli appalti e che dà il contentino a Confindustria. È l’Italia che ricorda Genova nel modo peggiore con le forze dell’ordine che sparano lacrimogeni ad altezza uomo contro una popolazione in lotta ma mai eccessiva e mai aggressiva. Sembra Genova, sembra Piazza Alimonda, sembra la scuola Diaz, invece è la Val di Susa, 10 anni dopo.
Siamo in guerra, e i soldati che tornano a casa nelle bare stanno lì a ricordarcelo; eppure, anche la più alta carica dello Stato, benedice interventi armati al di là del Mediterraneo, alla faccia della Costituzione!! Una Costituzione mortificata e minata costantemente da rigurgiti neo-fascisti. Nella città di ognuno di noi qui presente, saranno capitati attacchi neo-fascisti; d’altra parte cosa potremmo mai aspettarci di diverso, se proprio in Parlamento vengono presentate a scadenze regolari proposte di legge che legittimano l’equiparazione tra Partigiani e Repubblichini…
Solo per titoli ricordiamo poi, la situazione politica interna, ancora infangata dal conflitto di interessi di Berlusconi, ancora governata da un Parlamento che esce dalle segreterie dei partiti, con un’informazione che conosce uno dei periodi più oscuri della sua storia, con i piduisti che scorrazzano dalle istituzioni, agli affari, alla malavita. In tutto questo, purtroppo, la geografia dei partiti e dei loro progetti politici, invece di chiarirsi, si intorpidisce sempre di più: dov’è il PD? Dove andrà Di Pietro? Al centro? A sinistra? E Vendola? E SeL? Il movimento ondivago di questi soggetti, oltre a non far ben sperare per il futuro, mette in luce lo spessore dei loro progetti politici…comunque questi li si giudichi…
Noi avremo tanti difetti, e tra breve ne parleremo, ma senz’altro la gente sa dove siamo: la gente ci trova sotto la falce e il martello…(quasi sempre..).
Nell’Italia che per sommi capi abbiamo provato a descrivere, Rifondazione va verso la scadenza naturale del suo VIII Congresso nazionale.
Un congresso che vorremmo unitario, ma con questo che non si soffochi il confronto interno, schietto e leale.
Ci auguriamo di avere la capacità di innovare quelle componenti strutturali del partito oramai obsolete e datate che non rispondo più alle esigenze dei tanti e delle tante che vogliamo rappresentare; pur tuttavia ci auguriamo anche che si abbia la volontà di riprendere seriamente il filo della formazione, di tutti e di tutte, ma soprattutto dei tanti giovani, che non certo per demerito loro, non sono a conoscenza della grande storia del comunismo. Dobbiamo scoprire e riscoprire le nostre radici per non farci travolgere dalla realtà presente e dei suoi tanti inganni.
Vorremmo un cambio generazionale, ma attenzione, per noi questo NON significa rottamare nessuno: non ci piacciono queste scorciatoie truffaldine, poco rispettose tra compagni dello stesso partito e non significa nemmeno abbassare l’età media dei gruppi dirigenti, soluzioni troppo semplici, di poco respiro e solo di facciata. Si tratta, invece, di cambiare metodi, radicalmente: ce lo chiedono i compagni dai territori che sono stufi di vedere il partito eroso dalle pratiche che hanno regolato nel bene, e, soprattutto spesso, nel male, la vita interna del partito.
Un congresso unitario, con la possibilità di emendamenti, a nostro avviso può aiutare l’elaborazione del documento congressuale che deve contenere la traccia del percorso politico di Rifondazione per i prossimi anni. Non sarà semplice, ma il nostro dovrà essere un progetto politico di cambiamento con il quale andare dai lavoratori, dai giovani, dalle donne, dai pensionati, dai migranti, dai più deboli e, lì, parlare chiaro.
Il compito più difficile sarà quello di costruire un’idea, tracciare un percorso, che tutti insieme deve trovarci coinvolti ed impegnati.
Il richiamo al valore delle nostre radici è funzionale all’orizzonte possibile, ma alto, nel quale i compagni nei territori possano trovare nutrimento per il loro lavoro politico. È un’emergenza oggi, a nostro avviso, rimotivare i compagni ed è compito dei dirigenti non solo fornire loro gli strumenti operativi, ma anche restituire loro un sogno, un obiettivo alto, nobile, credibile, possibile, genetico; un sogno da poter richiamare nei momenti difficili dell’attività politica e per dare un senso complessivo del lavoro nei circoli e nelle federazioni. Un sogno, un obiettivo di cui ciascuno si senta in parte responsabile per realizzarlo insieme ai propri compagni al di là delle aree, delle fazioni, del proprio piccolo esercito…
Le aree: un pensiero va anche a loro, visto il ruolo che hanno avuto nel partito, ma che oramai, pur non volendole demonizzare nella loro antica origine e nel loro antico scopo, oggi purtroppo si sono incancrenite e sono diventate una vera metastasi che colpisce il partito fin nei circoli più piccoli.
Ci vuole una terapia d'urto, ciò non è più rimandabile e NON bastano buoni propositi ed intenzioni palliative. Gli iscritti, i nostri compagni nei territori, non ce la fanno più a vedere un partito che si consuma giorno dopo giorno e che è continuamente eroso da scissioni e abbandoni individuali.
È urgente che gruppo dirigente e base si confrontino schiettamente, ma che poi marcino, ciascuno investito della propria responsabilità, nella stessa direzione. I compagni sono stanchi e amareggiati da tanti dirigenti che si sono dispersi qua e là, magari alla ricerca della poltrona smarrita; siamo obbligati a mettere in campo un profondo rinnovamento dell’essere partito, pena la nostra scomparsa per sfinimento, consunzione, depressione.
Siamo sicuri che senza troppi “bilancini” di mezzo, ma valorizzando le idee, i compagni, le competenze, la passione, sarà facile ripartire e andare tutti verso un’unica direzione.

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Adriana Miniati

L’avvio del percorso congressuale comporta un bilancio politico di questi 3 anni, un’autocritica dei gruppi dirigenti, per soddisfare il presupposto enunciato di un Documento unitario, su cui concordo in linea di principio, ma che va sostanziato con quali sono gli elementi di unità da cui si parte e a cui si aspira. E’ cambiato il clima politico : dopo le elezioni amministrative e i referendum si sono manifestati comportamenti sociali nuovi con una interessante richiesta di partecipazione e una spinta antiliberista, dall’ origine non solo nazionale. La nostra posizione è stata premiata : esiste dunque uno spazio politico a sinistra per posizioni più radicali che noi abbiamo appena iniziato a intercettare. Ma nello scenario economico-sociale ci sono elementi negativi, dalla manovra del Governo, con effetti recessivi e con un’operazione di classe tesa a penalizzare il ceto medio-basso, e sul piano sociale la scelta della Cgil che ci ha fatto entrare in un quadro non più solo concertativo, ma neo-corporativo, e ha indebolito la democrazia interna e la rappresentanza, storici elementi di tenuta e di forza del movimento dei lavoratori. Ergo la crisi non sarà aggredita come si doveva se ci fosse stata in piedi un’opposizione sociale guidata dalla Cgil.Ciò influisce anche sulla prospettiva politica con un orizzonte più moderato su cui costruire il centro-sinistra. E permane una forte incertezza sullo sbocco poltico.Sarà di nuovo forte il ricorso al voto utile , per cui a noi converrà –più che il fronte democratico- un’emergenza democratica, senza coinvolgimento in eventuali governi. E per noi la migliore strategia è essere forti al nostro interno , consolidarci per gestire al meglio tutte le posizioni tattiche che saranno necessarie da posizioni di forza .Positiva la proposta della Costituente di Beni Comuni allargata al Lavoro e alla Democrazia. E l’attualità del comunismo centrale nel documento unitario. Sulla Fds, mai decollata e spesso causa di paralisi interna ed esterna, ( il cui massimo punto di paralisi si è mostrato con le posizioni sull’Accordo interconfederale) tutto il partito coglie un grave disagio, perché essa non è né sufficiente né adeguata, non la si può sciogliere, benché sarebbe auspicabile, ma va di certo superata in un soggetto più ampio legandola più ai movimenti e meno ai partiti , per raccogliere la mutata domanda di protagonismo critico di massa.

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Simone Oggionni

Intervengo sollecitato da alcuni interventi molto interessanti. Penso che il dato con cui ci dobbiamo confrontare prima di ogni altro è rappresentato dal protagonismo della nostra generazione e di tanti soggetti (comitati, collettivi, reti) che hanno tenuto alto, anche in queste ultime settimane, lo straordinario livello di mobilitazione dell’ultimo anno e mezzo. I comitati referendari, e il movimento cresciuto intorno ad essi, è la logica prosecuzione delle lotte degli studenti, degli operai a Pomigliano e Mirafiori, delle donne.
E l’elemento che caratterizza questo protagonismo è il rifiuto di delegare in bianco la rappresentanza e al contrario la volontà di agire direttamente. Noi, Rifondazione Comunista, siamo un partito, con una sua struttura, un suo profilo, una sua identità. Ed è bene che continuiamo ad esserlo. Però il rischio che vedo è che se non troviamo il coraggio di sintonizzarci sulla lunghezza d’onda di questi movimenti e delle domande che esprimono noi rischiamo di non servire più a molto.
Il congresso deve servire appunto a questo: a discutere di quali forme, di quale linguaggio, di quali strumenti noi dobbiamo dotarci per essere parte del cambiamento e non essere travolti da esso.
In una battuta, dobbiamo provare a coniugare il massimo dell’ortodossia (non derogare di una virgola rispetto al nostro essere comunisti, forza organizzata che organizza la trasformazione) con il massimo dell’innovazione e dell’apertura.
E questo riguarda esattamente l’idea che noi abbiamo di comunismo: siamo comunisti perché non vogliamo alienarci, isolarci, metterci nell’angolo, accettare la residualità che tutti gli altri vogliono imporci. E allora da questo congresso mi aspetto che il partito affronti il tema del rafforzamento del partito comunista dentro la costruzione della sinistra d’alternativa. Questa tensione strategica deve vivere dentro il congresso, e può farlo, a condizione che si mettano a fuoco tre questioni molto importanti.
La prima è la costruzione della sinistra come prosecuzione dell’offensiva unitaria nei confronti delle altre forze della sinistra italiana, in maniera non astratta ma concreta, a partire dai contenuti.
La seconda è la costruzione della Federazione della Sinistra come soggetto politico a tutto tondo, come luogo dell’unità dei due partiti comunisti: e il cartello elettorale è tutto l’opposto, e oltre a non servire a molto, toglie entusiasmo ai compagni, non sedimenta nulla neppure in termini di relazioni sociali.
Infine, la terza questione riguarda la costruzione di un rapporto con le forze sociali equilibrato, a partire dal sindacato, che non sia urlato e sguaiato.
Io condivido moltissime delle critiche che la Fiom rivolge all’accordo tra Confindustria e sindacati, condivido il giudizio di fondo, ma nel muovere critiche mai mi sognerei di fare balenare l’idea, nemmeno per sbaglio, che una ipotetica scissione della Cgil sarebbe salvifica. Come ha detto la Fiom, il suo segretario nazionale, l’unità è un valore inestimabile.
Detto questo, penso che un’altra cosa non si possa fare: stabilire chi ha diritto di parola e chi no, che cosa è lecito dire e cose invece non è lecito dire, esercitando una censura preventiva al dibattito interno.
Il modo peggiore per difendere le proprie posizioni è urlare, esagerare nelle critiche, dare l’impressione di volere chiudere la discussione.
Proprio per questa logica io vorrei un congresso unitario ma senza censure, strutturato a tesi, un congresso che finalmente non spacchi ma che consenta di discutere e di confrontarsi liberamente, che consenta a tutti di dire la propria opinione.
Un congresso già nella forma diverso da quello della Federazione della Sinistra, dominato da un timore immotivato di discutere, decidere e, se necessario, dove serve, anche di cambiare.

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Alba Paolini

A 20 anni dalla fondazione del partito, l’8° congresso che ci apprestiamo a fare, fa il bilancio della sua storia, ricca di avvenimenti e di travagli, segnata da devastanti scissioni. Rifondazione Comunista è stata capace di attirare e contemporaneamente respingere migliaia di persone. Ora siamo giunti alla conclusione che si rende necessario un congresso unitario. Questo è reso possibile, anche dopo i risultati elettorali delle amministrative e gli ancora più eccellenti risultati referendari. Abbiamo l’esigenza di ricostruire una comunità, prendendo esempio dalla capacità di esserlo per intere generazioni dal PCI, che era e si concepiva partito di massa. Questo deve essere anche il nostro obiettivo, per far questo è necessario cambiare modalità, in tal senso saluto con convinzione l’avvio di un congresso unitario. Indispensabile è anche la ristrutturazione organizzativa del partito. Bisognerà inoltre approfondire la discussione del partito nei movimenti, i quali ci riconoscono la nostra capacità di un proficuo rapporto e la nostra affidabilità nella conduzione di battaglie storiche come quella sull’acqua pubblica. Si tratta ora di costruire una vera forza capace di rispondere alle esigenze dei lavoratori ed essere alternativa alle destre. Il primo passo è rendere forte il Partito della Rifondazione comunista.

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Gianluigi Pegolo

Condivido la relazione del segretario, come condivido la necessità di un congresso unitario. Il nuovo clima che si è prodotto nel partito ci sollecita a superare le divisioni. Inoltre, i fatti politici, a me pare, aiutino a trovare una sintesi unitaria. Questo naturalmente non è del tutto scontato ed è per questo motivo che mi concentrerò su punti ancora in parte aperti sui quali occorre un ulteriore approfondimento.
La prima questione attiene al giudizio sulla fase, premessa indispensabile per aggiornare la linea politica. A me pare che l’elemento più appariscente sia oggi rappresentato dalla distanza fra la domanda sociale e l’offerta politica. In questo gap sta in realtà l’opportunità che ci viene offerta come partito e sta a noi saperla cogliere. Con le amministrative e poi con i referendum è emersa nel paese una volontà di cambiamento che si traduce in uno spostamento a sinistra dell’elettorato e nella crisi evidente di consenso delle forze di governo. Non m’interessa qui entrare nel merito degli effetti che queste nuove dinamiche possono produrre sul quadro politico. Quello che invece m’interessa approfondire è la qualità nuova di questa spinta. Dai risultati delle amministrative e dal successo dei referendum emergono, infatti, istanze nuove che esprimono una domanda di maggiore radicalità, di maggiore eticità e di protagonismo. Ma emerge anche qualcosa di nuovo sul piano dei contenuti, giacché dal successo del referendum sull’acqua, ma anche dall’accoglienza ricevuta da alcune proposte in occasione delle amministrative è evidente che si sta estendendo la critica al neo liberismo. Questi fatti dimostrano che esiste una domanda di alternatività che per quanto ambigua (vedi le manifestazioni ricorrenti dell’antipolitica), tuttavia costituisce un fatto di grande interesse. A questa domanda si contrappone un’offerta da parte del centro sinistra del tutto inadeguata. Si potrebbero elencare molte scelte discutibili: dalla guerra, all’equivocità dell’appoggio al referendum sull’acqua, smentito di fatto dalle dichiarazioni successive, alla diatriba che si è prodotta sulla legge elettorale, alle posizioni espresse sulla manovra economica, all’apertura di credito al terzo polo. Su tutto questo risalta oggi la vicenda dell’accordo interconfederale che, di fatto, recepisce la filosofia di Marchionne, al quale la stessa CGIL si piega, in evidente consonanza con le posizioni prevalenti nel gruppo dirigente del PD. Quello che si sta confezionando è quindi una risposta moderata al post Berlusconi che fa piazza pulita per l’appunto di quella domanda di alternatività che emerge nella società. Nel nostro congresso questo dato deve emergere e costituire la cornice del nostro ragionamento. Ogni tatticismo a tale riguardo con l’omissione della gravità della situazione sarebbe un grave errore e, soprattutto, minerebbe la credibilità del nostro ragionamento politico.
Una seconda questione riguarda la dimensione politica. Quello che non è chiaro è quale sia il cuore della nostra proposta. A me pare che ormai due nodi siano venuti al pettine. Il primo è l’inadeguatezza della FdS. Tutti ormai la riconoscono, anche quelli che solo pochi mesi fa erano i più accaniti sostenitori. Tale inadeguatezza deriva dalla debolezza dei consensi elettorali, ma anche e soprattutto da una paralisi dell’iniziativa che non discende tanto da difficoltà organizzative, quanto da problemi di linea irrisolti che producono l’alternarsi di posizioni diverse e quindi l’impossibilità di risposte efficaci. Il caso delle valutazioni sul recente accordo interconfederale è solo l’ultimo di una serie di episodi preoccupanti. Si può far finta di niente, ma non sarebbe una scelta lungimirante. A mio parere bisogna prendere atto che la federazione assolve un ruolo come alleanza elettorale, ma non risolve il problema del soggetto politico. Il secondo nodo riguarda il rapporto con le altre forze della sinistra. Il richiamo all’unità è sempre positivo, ma non è più eludibile un giudizio di merito. Quello cui stiamo assistendo è una crescente internità di SEL al centro sinistra e una ridislocazione in senso moderato dell’IdV. L’ultimo episodio clamoroso è l’appoggio del gruppo dirigente di SEL al referendum Veltroni per la reintroduzione del “mattarellum”. Anche qui si può far finta di niente e riproporre astrattamente il tema dell’unità, ma difficilmente l’evocazione si tradurrà in fatti concreti. La questione di fondo allora che il congresso non può eludere è quella del soggetto politico necessario per dare risposta alla domanda sociale e in grado di contrastare il disegno neo moderato. In buona sostanza la questione che si ripropone - ma questa volta con urgenza - è la costruzione di una sinistra di alternativa dichiaratamente antiliberista che non è oggi rappresentata dalla sola FDS né dalle principali forze della sinistra. La stessa proposta della “costituente dei beni comuni” è in questa prospettiva un fatto importante, ma essa è declinata come iniziativa di movimento. Quello di cui abbiamo bisogno è una proposta che punti alla costruzione di una nuova e più larga soggettività politica e sociale, costruita a partire da alcuni contenuti fondamentali, capace di nuove pratiche politiche. In un’iniziativa cui ho partecipato di recente Bersani ha avanzato la proposta di un “fronte politico-sociale antiliberista”: mi pare un’utile approssimazione. Il congresso affronterà questo tema o lo eluderà?
La terza questione di cui vorrei discutere è quella del “fronte democratico”, perché ritengo che alcune chiarezze vadano fatte. Se la nostra analisi di fase è giusta mi pare chiaro che il centro sinistra resta permeato da quello che un tempo era stato definito” liberismo temperato”. Resta l’interrogativo di quanto sia temperato questo liberismo. In ogni caso mi pare del tutto evidente che nel caso di un successo il nuovo governo avrebbe un profilo moderato difficilmente compatibile con la nostra impostazione programmatica. Non mi pare che tutti i compagni la pensino così. Personalmente credo che in nome dell’unità non possa passare nel congresso una nuova proposta politica che punta a un organico accordo di governo con il centro sinistra. Questo significherebbe entrare in contraddizione con le nostre stesse posizioni e con quelle dei movimenti. L’unica operazione possibile è allora quella di un accordo con il solo centro sinistra, giustificabile per ragioni di emergenza democratica. Il confronto sui programmi è possibile, ma a condizione che si sappia che questo può al massimo migliorare le convergenze che però saranno necessariamente circoscritte e non tali da consentire la stipula di un accordo organico. Per queste ragioni occorre chiarire il senso del termine “primarie di programma”. Se si vuole alludere a un’operazione simmetrica a quella delle primarie sul leader, bisogna stare molto attenti perché non può valere il principio secondo il quale l’esito delle primarie è vincolante per tutti. Questo significherebbe garantire un consenso a priori indipendentemente dalle scelte. Il fronte democratico allora deve essere un passaggio derivante dall’eccezionalità della situazione e fondato su alcuni limitati elementi di convergenza. Né potrebbe essere cosa diversa alla luce delle posizioni oggi in campo.
In conclusione, vorrei esprimermi sulla questione del partito. Considero positivo che vi sia una convergenza sulla necessità dell’autonomia del partito e l’importanza attribuita al tema dell’attualità del comunismo. Ritengo, però, che il tema della rifondazione comunista non possa restare in questo congresso su un piano squisitamente culturale, ma deve essere la base di un rilancio organizzativo e di un rafforzamento del radicamento sociale del partito. Ritengo, inoltre, che la costruzione/ricostruzione di una soggettività comunista se non parte da questa aspirazione all’innovazione nell’analisi e al rinnovamento delle pratiche abbia assai scarse possibilità di realizzarsi ed è per questo che giudico positivo che nel nostro dibattito la proposta delle scorciatoie fusioniste sia tramontata e che il rapporto fra comunisti sia posto correttamente sul piano del confronto di idee. Infine, condivido la necessità del superamento delle correnti. Una necessità che non deriva solo da alcuni guasti macroscopici, ma anche dall’esigenza di ripristinare una dialettica molto più libera in cui sia possibile che le convergenze si producano anche al di fuori degli steccati oggi posti dalle organizzazioni interne. Ciò detto, questo processo va fatto seriamente, senza ipocrisie, e soprattutto senza segreti intenti di penalizzare alcune aree a beneficio di altre. Il superamento delle correnti, infatti, deve avvenire attraverso una reale garanzia di agibilità politica per tutti e in un confronto partecipato e trasparente, senza colpi di mano.

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Armando Petrini

Condivido la necessità e la proposta di un congresso unitario, nei fatti e non solo a parole. Trovo perciò positiva la sottolineatura di Ferrero nella sua relazione su questo punto, sia sul versante dei contenuti di un possibile documento unitario, sia sul versante dei modi attraverso i quali cercare di costruire quel documento.
La necessità di un congresso unitario deriva da due considerazioni principali. Intanto, per come è messo il partito, per il suo grado di coesione e di militanza, non reggeremmo un congresso di divisioni. Questo credo (spero) sia chiaro a tutti. Semplicemente, temo che i compagni (giustamente) non capirebbero e il congresso lo lascerebbero fare a noi.
In secondo luogo sono convinto che l’unità fra noi (fatte salve le diversità fra le “aree” politico-culturali del partito, diversità che vanno salvaguardate perché sono una risorsa preziosa – a differenza delle “correnti” che rappresentano invece una degenerazione delle aree) ; l’unità fra noi –dicevo- è condizione indispensabile per affrontare una fase, quale quella che stiamo attraversando, indubbiamente segnata da aspetti positivi, o molto positivi, ma anche attraversata da forti contraddizioni e da segnali non sempre ugualmente incoraggianti. Non ho tempo per approfondire, ma sia i risultati delle elezioni amministrative, sia quelli della tornata referendaria, se è vero che ‘aprono’ appunto a un’aria e un clima nuovi, è altrettanto vero che lasciano aperto il problema della rappresentanza politica della richiesta di cambiamento che emerge (basta pensare a ciò che è accaduto a Milano dopo il voto, nel momento della formazione della Giunta, oppure alle proposte in Parlamento dei partiti di “opposizione” sul tema dell’acqua pubblica). Da ultima, la vicenda del brutto accordo fra Sindacati e Confindustria indica un clima appunto fatto di luci e ombre, di possibilità che si dischiudono ma anche di evidenti difficoltà. Per ciò che ci riguarda la contraddizione, o se volete l’elemento di complessità, con il quale dobbiamo misurarci noi come forza politica, l’ha ben evidenziato Ferrero quando ha detto che noi dovremo avere una posizione in grado di tenere insieme la nostra presenza nel movimento NoTav con l’attenzione per il profilo nazionale della coalizione di centrosinistra (alla definizione del quale dobbiamo dunque partecipare). Io penso che non solo dovremo saper fare entrambe le cose insieme, ma che l’una cosa debba qualificare l’altra. E cioè che la nostra presenza nel movimento NoTav (intendendo questa presenza come esempio della nostra “internità ai movimenti”, come l’ha definita Ferrero) qualifichi il nostro modo di partecipare alla discussione sul programma di una eventuale coalizione di centrosinistra, così come la nostra attenzione al profilo di una coalizione di centrosinistra qualifichi il nostro modo di partecipare al movimento contro l’alta velocità Torino-Lione.
Credo che questi elementi di complessità della fase che stiamo attraversando pretendano un gruppo dirigente responsabile, maturo, all’altezza della sfida, e perciò capace di una sintesi unitaria.
Un congresso unitario dunque. Ma allo stesso tempo abbiamo anche bisogno di un congresso che decida davvero alcune cose, che dia un segnale, che imbocchi e faccia imboccare al partito una prospettiva con una certa chiarezza. In questo senso il tema più importante e urgente mi pare sia la Federazione della Sinistra, il suo profilo e il grado di investimento che vogliamo il partito adotti nei suoi confronti.
La mia opinione è che la situazione così com’è oggi non possa essere procrastinata. In questo senso condivido in pieno l’intervento che mi ha preceduto di Gianni Fresu. Oggi, per ciò che riguarda la FDS, ci troviamo sostanzialmente in mezzo al guado. E in mezzo al guado ci stiamo da quasi due anni. E’ una situazione che non ci possiamo più permettere: in questo modo infatti, quel progetto –così importante, anche dal punto di vista strategico- rischia di consumarsi; e, per di più, lo scarso investimento nella FDS non è l’ultima delle cause della nostra quasi-invisibilità sul piano del profilo pubblico della nostra proposta politica.
In secondo luogo la nostra incertezza sul progetto della Federazione acuisce le difficoltà che inevitabilmente si pongono quando si mettono insieme soggetti diversi. Non è vero infatti –come sostengono alcuni compagni- che le diversità fra i componenti della FDS impediscono un maggiore investimento nel progetto e la messa in campo di processi riaggregativi al suo interno. E’ vero piuttosto il contrario, e cioè che sarebbero proprio auspicabili spinte unitarie e un maggiore investimento nella costruzione di un profilo politico comune ad aiutarci a superare quelle diversità, ricomponendole a facendo sintesi.
Se è vero che l’umiltà e una virtù (e questo dovrebbe spingerci a un congresso unitario), lo è anche il coraggio (e questo dovrebbe spingerci a fare alcune scelte chiare). Io credo che noi come PRC si debba avere il coraggio di investire risolutamente nella Federazione della Sinistra, senza indugi, e lì giocarci una partita per l’egemonia, senza sottrarci (ancora una volta per ingiustificato timore) a prospettive di riaggregazione al suo interno.

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Vincenzo Pillai

Nel pomeriggio ho partecipato alla riunione nazionale di comitati contro il nucleare e ho constatato come il senso fondamentale della proposta che Ferrero ha fatto a questo CPN: lavorare per una costituente dei beni comuni senza pensare a un partito che unifichi ciò che, almeno allo stato attuale , non è unificabile sia largamente condivisa dal movimento anche se ognuno c’è arrivato per strade proprie. Penso quindi che avere come bussola la valorizzazione del risultato referendario , i contenuti e le forme della mobilitazione di questi mesi , sia la scelta giusta non solo per dare l’unico possibile sviluppo alla stessa Federazione, ma anche per poter sostenere con coerenza che a noi ,davanti a possibili elezioni ,non interessano primarie su nomi simbolo ma primarie che portino milioni di italiani a pronunciarsi sui contenuti che abbiamo già indicato come campagna politica d’autunno. Si tratta quindi di rafforzare e qualificare la nostra presenza di comunisti nel movimento, promuovendo in tutti la consapevolezza che si va rafforzando un asse di centrosinistra moderato quale alternativa a Berlusconi ma non alle politiche neoliberiste. L’esperienza sarda con il 60% di votanti in un referendum solo consultivo e che richiedeva un quorum del solo 30% è dimostrazione pratica di come si possa vincere se oltre a saper osare ci si sa connettere anche con il sentire nazionale di un popolo.
Anche la fase congressuale può aiutarci in questa crescita se sapremo gestirla con spirito unitario, se indipendentemente dal numero di documenti su cui votare sapremo discutere con reciproco rispetto, con la valorizzazione delle capacità, il rispetto della differenza di genere e senza finzioni rivolte solo a fare cordate di potere, se sapremo riconoscere e valorizzare specificità territoriali che possono dare un contributo tanto migliore se messe nelle condizioni di organizzarsi con maggiore sintonia rispetto alla storia e al sentire del territorio in cui operano.

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Dario Salvetti

In passato il governismo nel nostro partito è stata una tragedia, oggi è una farsa. Non per questo farà meno danni. E' un governismo farsesco che non ha il coraggio nemmeno di dichiararsi apertamente, ma si accontenta di giocare di sponda con le ambiguità del nostro dibattito. Ambiguità che per altro la relazione del segretario Ferrero offre in abbondanza. Farsesco perché ci invita a tenere aperte le porte per un Governo futuro, senza nemmeno indicare quale e in che contesto. Come potrebbe essere altrimenti, in una situazione in cui nessuno osa mettere in dubbio che qualsiasi sa il prossimo Governo sarà di lacrime e sangue? Un governismo che ci invita a fare “fronte democratico” con Pd e compagnia, quando ogni qual volta nella società - da Pomigliano alla Val di Susa - emerge l'esigenza di “Democracia real”, le componenti di questo fronte democratico sono costantemente dalla parte opposta della barricata. Un governismo che è il partito degli assessori, senza ormai riuscire nemmeno ad ottenerli, come a Cagliari o Milano. E quando li ottiene li perde secondo il vecchio adagio per cui il partito non esce dalle giunte, ma le giunte spesso e volentieri escono dal partito. Ci viene detto che non possiamo stare fuori dall'unità nazionale contro Berlusconi, quando l'unità nazionale reale è già in marcia nel paese: che cosa è del resto l'accordo del 28 giugno – un accordo ai danni dei lavoratori con il plauso contemporaneo di Bersani e Tremonti - se non una prova generale di unità nazionale? L'elettoralismo soffoca il nostro dibattito. A proposito dell'accordo del 28 giugno, si agita l'esigenza di non rompere con toni eccessivamente settari con il gruppo dirigente della Cgil e l'area di Nicolosi. Tutto il problema è concepito in termini di diplomazia politico-sindacale. Non viene nemmeno in mente che noi abbiamo lavoratori iscritti a questo partito – e altri ne potremmo avere – che sono motore e organizzatori collettivi del conflitto nei proprio luoghi di lavoro. Non viene nemmeno in mente che è a loro che dobbiamo una risposta e che questi compagni hanno l'esigenza materiale di respingere l'accordo del 28 giugno, per non vedere restringersi gli spazi di agibilità sindacale e politica con cui ogni giorno intervengono nei propri luoghi di lavoro. Il partito deve essere strumento di classe, non comitato elettorale. Questo è il centro della posizione che porteremo al prossimo congresso.

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Gianluca Schiavon

La drammatizzazione della crisi economica chiede uno straordinario impegno al Partito, alla Federazione della sinistra e alla sinistra tutta. L’attacco ai debiti sovrani da parte dei fantomatici ‘mercati finanziari’ squaderna ai nostri occhi un tema di resistenza: la democrazia reale. Proprio la parola d’ordine del movimento degli indignados democratia real ya! risulta essere la parola d’ordine più efficacie contro il bipolarismo coatto, contro l’accordo neo-corporativo firmato da CGIL, CISL, UIL, UGL con Confindustria e contro la militarizzazione della Val di Susa. Partecipando a queste mobilitazioni dobbiamo interrogarci sulla natura dei soggetti che vi partecipano: si tratta di movimenti composti in larga parte di una ‘generazione rabbiosa’ abituata a contrapporsi con forme di conflitto durissime ma parziali, intermittenti, apparentemente non riconducibili al terreno unitario della lotta di classe. La sfida per noi è quindi tanto complessa perché questi movimenti se non trovano una risposta politico-sociale complessiva possono far regredire la lotta a riot o jacquerie. Il compito di fase è denunciare i guasti del neo-liberismo del monopolio del capitale finanziario su quello produttivo e quindi sul lavoro ma, al contempo, sistematizzare un insieme di proposte per offrire un’alternativa politica e sociale accettabile.
La prima battaglia deve essere quella per il sistema elettorale proporzionale, per il rilancio del ruolo delle assemblee elettive quindi contro questa legge elettorale ipermaggioritaria anticostituzionale che ha portato il sistema bipolare ad essere un premierato di fatto. Si tratta di affermare con il proporzionale la dignità delle nostre proposte di governo: espulse dall’agenda politica perché siamo una forza politica extraparlamentare ma, soprattutto, perché siamo autonomi dal centro-sinistra. Il PRC è quindi una forza di governo che si confronterà con il resto del centro sinistra sui programmi e per la quale la mancata partecipazione ad un Governo nazionale “non è un auspicio ma una previsione” se purtroppo il PD sceglierà una discontinuità a Berlusconi ma una continuità alle politiche liberiste.
La seconda battaglia combina la proposta economica redistributiva, che si contrappone alle manovre classiste e antipopolari di tutti i governi europei, con la richiesta di democrazia sui luoghi di lavoro nei quali i lavoratori possano votare gli accordi efficaci nei loro confronti.
La terza battaglia di democrazia scaturisce dalla vittoria referendaria e si sostanzia nella possibilità da parte delle cittadine e dei cittadini di partecipare alle decisioni sui beni comuni. Si tratta di costruire territorio per territorio aggregazioni popolari che controllino la gestione dell’acqua, dell’ambiente, dei rifiuti, della mobilità, della cultura contrapponendo alla logica dei tagli lineari quella della difesa dei diritti e denunciando anche gli sprechi delle troppe società gestite in maniera clientelare.
Sono nel vivo di queste tre battaglie potrà avvenire il rilancio del Partito, e della Federazione, grazie a un congresso unitario. Un congresso aperto ai soggetti sociali che per questa via vogliano rilanciare la sinistra cacciando Berlusconi.

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Bruno Steri

Abbiamo davanti a noi l’opportunità di promuovere un approccio unitario al nostro congresso: sarebbe da stolti non coglierla. Dobbiamo operare in questa direzione. E non per un eccesso di buona volontà; ma perché io penso vi siano le condizioni per elaborare e valorizzare i termini di una proposta politica di Rifondazione Comunista e, per questa via, della Federazione della Sinistra nel suo complesso.
Congresso unitario non vuol dire congresso ingessato: al contrario, deve significare discussione vera e aperta al confronto. Del resto, sarebbe paradossale che quanti comprensibilmente auspicano un dibattito che attraversi i confini delle aree interne optino poi per dei lavori congressuali dove tutto è già precostituito, dosato col bilancino e magari deciso da poche persone nel chiuso di una stanza. Insomma, congresso unitario non significa congresso finto. Credo che questo partito abbia in sé la forza, possa attivare le risorse per pervenire ad una composizione alta del dibattito congressuale: evitando in corso d’opera inutili furbizie, predisponendo una traccia di documento comune che stimoli il confronto, consentendo alle compagne e ai compagni di esprimersi liberamente: correggendo, integrando e, ove lo ritengano utile, emendando.
Ritengo che noi possiamo e dobbiamo avanzare una proposta credibile per la grande maggioranza del Paese. La formulazione non vuole essere affatto rituale. Penso davvero che, nel contesto per molti versi drammatico in cui ci troviamo ad operare, si profili tuttavia un’occasione per noi unica: possiamo essere i promotori di una proposta politica complessiva che non è solo equa – a difesa dei soggetti sociali colpiti dalla crisi capitalistica – ma anche realistica ed efficace (contrariamente a “lorsignori” che continuano imperterriti a proporre e adottare misure socialmente inique e, oltre a ciò, manifestamente inefficaci).
Il compagno Locatelli ha esortato a non impegnarci in una mera “fisiologia della crisi”, a cogliere piuttosto il potenziale di una ripresa del dinamismo sociale, così come è andato manifestandosi in questo ultimo scorcio di tempo. E’ un’esortazione che punta a valorizzare i fermenti conflittuali di una società tutt’altro che pacificata e a sintonizzarci sull’onda di una fase nuova (l’incredibile esito referendario e le ricorrenti vertenze sociali che si aprono nel nostro Paese sono lì a dimostrarlo). Si tratta di un’indicazione certamente giusta; ma va a mio parere inserita in un quadro generale che presenta elementi altamente contraddittori. C’è infatti un Paese che non accenna a piegare la testa e che anzi reagisce con pesanti e inequivocabili segnali al conformismo neoliberista; e d’altro lato - come testimoniano anche oggi i titoli di testa di tutti i quotidiani, con gli allarmati riferimenti alla fragilità dell’assetto economico-finanziario nazionale – c’è il perdurare della crisi capitalistica, che è lungi dal trovare vie d’uscita e rispetto alla quale non è alle viste una compiuta alternativa di sistema (un’alternativa politica radicale che sia disponibile ora, concretamente pronta all’uso). In ciò sta la contraddittorietà del contesto in cui operiamo.
Siamo un piccolo partito, anche se sappiamo che, al di là della nostra forza organizzata, siamo presenti nei movimenti di massa che si muovono attorno a noi. Ma la consapevolezza dei nostri limiti non può esimerci dal collocare comunque la nostra proposta all’altezza richiesta dall’urgenza della situazione. Mi spiego con una citazione. Nel suo intervento alla Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori del Pd, Massimo D’Alema ha inteso dare respiro e prospettiva ampia al suo ragionamento: nel giro di due anni, si svolgeranno delicatissime elezioni politiche in tre importanti Paesi europei, segnatamente in Italia, Francia e Germania. Chi prevarrà – e, ovviamente, D’Alema fa il tifo per le forze del centro-sinistra – detterà le regole dell’Unione Europea, di cui i tre Paesi suddetti sono colonne portanti (decisive e condizionanti). Perfino D’Alema – è tutto dire – è colto dal sospetto che le attuali politiche continentali non siano in grado di far uscire l’Unione dall’impasse in cui continua a galleggiare: il quadro resta fosco, la coesione dell’impianto europeo è a rischio e i cosiddetti “aiuti” ai Paesi in difficoltà (nei fatti, prestiti onerosissimi in cambio di massacri sociali) rischiano di stringere ancor più il cappio della deflazione e, in definitiva, di far saltare il banco. Così, egli propone di elaborare obiettivi comuni da spendere nelle rispettive campagne elettorali. Non entro qui nel merito: mi limito a dire che, in particolare, D’Alema ha di mira proposte di gestione del debito che consentano una qualche ripartizione degli oneri a livello comunitario. Bene, su un punto egli ha ragione: una proposta seria al nostro Paese non può che muovere dal contesto in cui esso è inserito e dalla discussione dei vincoli che tale contesto impone. Egli fa bene, dunque, a fare le sue proposte; noi dobbiamo fare le nostre: proposte che siano all’altezza del problema e che dovremmo cominciare a discutere subito, a partire dal seminario della Sinistra Europea che prenderà il via qui in Italia, in Umbria, dal prossimo 12 luglio. Sinistra Europea: se ci sei, batti un colpo!
Noi dobbiamo dire le cose che D’Alema non vuole o non può dire. Egli ha ragionato attorno al problema del debito e a “come” debba essere pagato. Noi dobbiamo aggiungere quel che proponiamo su “quanto” pagare” e su “chi” deve pagare. E’ soprattutto qui – dove premono quegli interessi di classe che il Pd non vuole o non può sconvolgere - che la nostra voce deve essere forte e chiara: ad esempio, per proporre un’imposizione patrimoniale nei confronti del decile più ricco della popolazione (a sgravio della parte restante) o per opporci all’ennesima stagione privatizzatrice (in proposito, sento già le proteste di Bersani e Fassina, nei confronti di chi non distinguerebbe tra “privatizzazioni” e “liberalizzazioni”: come se il recente passato non avesse insegnato nulla circa gli effetti disastrosi di tale impostazione sulla nostra politica industriale e in ordine agli equivoci che presiedono alle mitologie della “libera concorrenza”). Possiamo e dobbiamo costruire la nostra proposta “dal basso”: in primo luogo, perché c’è differenza tra il condurre trattative programmatiche con altre forze politiche in assenza di movimenti di massa, ovvero condurre quelle medesime trattative con il supporto di mobilitazioni sociali e piazze piene di gente. Ma soprattutto perché c’è una profonda connessione tra le ragioni dei comitati, quelli che ad esempio hanno animato la campagna referendaria, e il cuore dell’alternativa che noi proponiamo (la quale annovera tra i suoi punti essenziali la svolta ambientale dell’economia e il no alle privatizzazioni).
Su tutto questo va lanciata la nostra sfida politica e programmatica. Ma è precisamente alla luce di tale contesto che risulta assai preoccupante la sostanza dell’accordo stretto tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Non torno sui punti di caduta più pesanti che anche qui sono stati richiamati (e che, d’altra parte, hanno già indotto a prese di posizione nettamente critiche, da parte di dirigenti Fiom, oltre che di autorevoli giuslavoristi e sociologi del lavoro, così come di altrettanto autorevoli rappresentanti della sinistra politica). Ribadisco solo la gravità che, a mio giudizio, riveste il sigillo formale posto alla possibilità di deroga dal contratto collettivo nazionale, peraltro di fatto già praticata, e, soprattutto, la compressione della possibilità di espressione diretta dei lavoratori in ordine al loro contratto di lavoro, con il preoccupante corollario di un ruolo delle rsu elettive sottoposto a disdetta da parte della Uil e formalmente affiancato a quello di rsa, organismi di nomina sindacale. Su questo e nel rispetto dell’autonomia del sindacato, penso sia necessario esercitare in tutte le sedi opportune la critica del nostro partito. Aggiungo che la dialettica di posizioni e l’esercizio della critica è il sale della politica (dunque anche della politica sindacale): ciò vale quando la critica è sì aspra, ma precisa e circostanziata. Non urlata. Crediamo di essere persone serie e sappiamo qual è il peso e la posta delle questioni trattate. Non ci interessa distruggere, ma costruire – stanti i rapporti di forza esistenti – una strada possibile nell’interesse del mondo del lavoro. E la Cgil, il più grande sindacato italiano, la sua unità, costituiscono un patrimonio prezioso: l’esercizio della critica, anche la più aspra, fa per noi tutt’uno con la suddetta consapevolezza.
In questi nostri impegni, che non sono dei più semplici e che attraverseranno la riflessione del nostro congresso, permane decisivo il tema dell’unità: quella della Federazione della Sinistra (difficile – come si evince da resoconti che anche oggi hanno costellato il dibattito – ma necessaria e da perseguire con ostinazione), quella della sinistra di alternativa (con al centro l’attenzione specifica da mantenere nei confronti dell’importante discussione che stanno conducendo le compagne e i compagni di Sel), quella che ispira la stessa interlocuzione con il Pd (per tenere aperta la prospettiva di un’alleanza democratica contro le destre e il loro sciagurato governo). Il documento approvato alla fine dello scorso Cpn costituisce, nel merito, un essenziale riferimento.
Chiudo con due rapide osservazioni, concernenti la parte dell’introduzione in cui il segretario ha accennato al documento congressuale. In primo luogo, Ferrero ha anticipato l’intenzione – condivisibile – di porre in primo piano il valore fondante della democrazia reale, di contro alla preoccupante involuzione degli odierni assetti politico-istituzionali. In proposito, ritengo importante sottolineare il valore dell’esistenza di organismi intermedi, incaricati di mediare la delicata relazione tra i vertici (istituzionali, di partito) e la base di una società complessa, affinando la qualità dei processi decisionali e, perciò stesso, della democrazia medesima. Così da prevenire un fatale fraintendimento: quando si fanno fuori o comunque deperiscono le suddette istanze intermedie, quel che dietro l’angolo ci attende non è la quintessenza della democrazia diretta ma il pieno (regressivo) del plebiscitarismo, il rapporto enfatico del capo con il “suo” popolo.
In secondo luogo, un paio di considerazioni a proposito della tematica dei beni comuni. Benchè il lavoro possa essere inteso – entro una classificazione tematica – come caso esemplare di “bene comune” da tutelare e difendere, ritengo tuttavia che – nell’economia di un documento congressuale – ad esso debba essere assegnata una collocazione autonoma e privilegiata: ciò è richiesto dalla vastità dei temi che tale titolo include nonché dall’importanza di tali temi per l’azione e per il tipo di partito che intendiamo consolidare. La seconda osservazione ha un carattere, per così dire, storico-politico: non posso che dedicarvi qui uno schematico cenno. Nel trattare dei beni comuni, si indulge talvolta in formulazioni sommarie circa la pretesa di espungere, in tale contesto, il “valore di scambio” dalla produzione e circolazione dei beni, in vista di un primato del “valore d’uso”. Simili enunciazioni possono anche andare finchè rimangono ad un impiego metaforico e propagandistico. Se, viceversa, le si intende alla stregua di vere e proprie generalizzazioni teoriche, direi che ci si immette su una strada a dir poco sdrucciolevole: ricordo soltanto che precisamente una tale pretesa – quella di voler troppo frettolosamente affermare il primato del valore d’uso dei beni, liquidando la legge del valore, che in una società capitalistica regola lo scambio di merci attraverso appunto il loro “valore di scambio” – costituisce uno dei fattori che hanno a suo tempo scardinato la “razionalità” della pianificazione socialista e, con essa, del “socialismo reale” in quanto tale.
Mi fermo qui, scusandomi ancora per la provvisorietà e schematicità dell’ultima notazione.

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Sandro Valentini

Un punto di dissenso non mette in discussione un Congresso unitario. Anzi, lo arricchisce
Qualche giorno fa, in un editoriale su “Liberazione”, per molti aspetti condivisibile, Russo Spena ha usato, per illustrare la proposta politica del partito, gli stessi argomenti che Ferrero ha utilizzato nella sua introduzione, ma per dare maggior forza alle sue considerazioni s’interrogava cosa potessero pretendere di più alcuni compagni “governisti”. Devo dare atto a Ferrero che non ha ripreso nella relazione tale maliziosa interpretazione: ci sono quelli di “Falce martello” che non intendono chiudere con il Pd nessun accordo e vi sono quelli come Valentini che vogliono andare al governo a tutti i costi. Basta battere queste due opposte tendenze minoritarie e oplà il Congresso è fatto!
Vorrei intanto ricordare a Russo Spena e a questo Cpn che sulla questione del governo, nei due passaggi decisivi della storia del Prc, il sottoscritto non è mai stato “governista”. Sul primo governo Prodi mi schierai convinto con Bertinotti sulla rottura e contribuii – allora ero Segretario regionale – credo non poco in un drammatico Cpn alla messa in minoranza di Cossutta; al Congresso di Venezia, dove fu sancita l’alleanza dell’Unione ero tra quelli invece che volevano mettere i “paletti programmatici” all’accordo politico e di governo. Altri invece, molti dei quali oggi si definiscono “non governisti” si schierarono acriticamente sulla posizione dell’accordo, magari rincorrendo ministeri, poltrone da parlamentari, presidenze.
No questo modo di discutere lo respingo al mittente!
Il mio dissenso politico si concentra su un punto. Ferrero giustamente afferma – condivido sostanzialmente questa analisi – che siamo entrati, con il voto sulle amministrative e i referendum, in una nuova fase politica, di transizione, non sappiamo quanto breve o lunga, però di passaggio dalla seconda Repubblica a una riscrittura complessiva delle regole democratiche e a una configurazione della stessa Repubblica. Non mi pare poco. Ma se è così è allora la nostra proposta politica mi pare del tutto inadeguata, insufficiente, non all’altezza dei compiti di fase.
Ho colto e apprezzato le aperture di Ferrero. In questo Cpn non si parla solo di costruire con il Pd un “fronte democratico”, ma di incalzarlo su un vero e proprio confronto programmatico, addirittura tramite “primarie di programma” . Ma è la premessa che non convince, che non ci fa uscire dal minoritarismo, che non trasforma la nostra proposta in una politica in grado di parlare a grandi masse popolari. Vi è una domanda semplice semplice a cui occorre rispondere: perché si continua a ribadire pregiudizialmente che non vi sono le condizioni di un accordo di governo con il centro-sinistra prescindendo dall’esito della verifica programmatica? Se il confronto programmatico è già segnato in partenza allora voler chiedere il confronto è una “furberia politicistica” senza respiro strategico, non credibile, che non incide, non sposta di una virgola i rapporti di forza. E perché il Pd dovrebbe mettersi a discutere di programmi con chi dichiara, prima ancora di mettersi attorno a un tavolo, di non voler assolutamente chiudere una intesa politica e di governo?
Vi è nel Paese un forte vento di rinnovamento e di cambiamento. Il popolo di sinistra chiede in primo luogo unità. E solo proponendo con determinazione questo valore strategico, senza distingui aprioristici, si costruisce un accordo elettorale, programmatico (almeno su alcuni punti significativi di natura sociale e sulle regole democratiche) e politico. Considero l’esito del confronto tutt’altro che scontato. Non sarà per nulla facile chiudere con il Pd un accordo di governo. Ma deve essere il Pd a dire di no e a spiegare al popolo della sinistra perché non vuole cancellare la legge 30, perché non vuole introdurre la patrimoniale, perché vuole aggirare il referendum sull’acqua con la gestione ai privati di questo essenziale bene comune. Non capisco perché un partito come il nostro, che rivendica una giusta completa autonomia dal centro-sinistra, sia alla fin fine tanto subalterno al Pd da togliergli tutte le castagne dal fuoco. A conclusione del confronto programmatico si valuterà quali condizioni politiche e orientamenti sono maturati, fermo restando il comune obiettivo di cacciare Berlusconi e garantire al Paese un governo diverso, possibilmente non moderato, ma avanzato.
Ferrero sostiene che le condizioni di chiudere un accordo di governo con il centro-sinistra non ci sono anche perché la coalizione, con questa legge elettorale, non avrà la maggioranza assoluta dei seggi al Senato. Il centro-sinistra sarà costretto, come a Milano e a Cagliari, a trovare un’intesa con il centro di Casini a nostro danno. È molto probabile ma non certo che le cose vadano in questo modo. Ma se dovessero andare effettivamente così non vedo per quale ragione dovremmo essere noi a regalare al Pd una soluzione centrista. Che paghi un prezzo cacciandoci dalla maggioranza e rimangiandosi gli accordi programmatici sottoscritti!
Si dice, inoltre, che il quadro politico europeo dominato dai conservatori, non lascia spazi all’Unione Europea per politiche riformiste, pur parziali. Ma anche il quadro politico europeo è in movimento. Facciamo finta di non rammentarci che entro i prossimi tre anni due importanti paesi europei, oltre l’Italia, andranno al voto: la Francia e la Germania e che nella prima possa vincere una colazione di sinistra-centro alla presidenziale e che in Germania si affermi invece un’alleanza rosa-rossa-verde: Due elezioni dunque che potrebbero modificare profondamente il quadro politico europeo.
Il mio è senz’altro un punto di dissenso che si accompagna alla questione di una offensiva vera per realizzare l’unità oggi possibile di tutte le forze alla sinistra del Pd. È evidente che una unità d’azione tra Fds, Sel e Idv aumenta notevolmente la forza di contrattazione programmatica della sinistra nella coalizione spostando a sinistra il baricentro del centro-sinistra. Il tema chiama in causa, come molti compagni hanno sottolineato, lo stato della Fds, nata male, senza un coinvolgimento vero dei militanti, con un Congresso svolto in modo verticistico. La Fds è oggi sostanzialmente un “cartello elettorale” tra l’altro in molti territori con un tasso di litigiosità elevato. Chiama in causa le responsabilità e le scelte della segreteria per esempio sulla vicenda del Porta voce. Io sono tra quelli che chiede un rilancio politico, culturale e organizzativo della Fds come primo passo per un processo costituente unitario a sinistra, che abbia come sbocco la costituzione di un nuovo soggetto plurale.
Sono questi temi importanti che credo siano al centro del dibattito congressuale. Non mi pare che il mio dissenso si caratterizzi come posizione alternativa a quella della segreteria. Ecco perché apprezzo la proposta di Ferrero di un congresso unitario, a tesi o attraverso un documento in cui su singole questioni, pur rilevanti, si possano essere punti di vista diversi. Raccolgo pertanto la sfida di Ferrero di lavorare a un congresso unitario, sarebbe da irresponsabili misurarci oggi su laceranti contrapposizioni. Un Congresso che ricerchi l’unità però attraverso un limpido e libero confronto e non avvolgendo il partito in una ingessatura precostituita da pratiche correntizie. Abbiamo bisogno di un congresso che rilanci il Prc come motore indispensabile della costruzione di processi unitari a sinistra, processi unitari resi ancora più urgenti dalla fase politica nuova apertasi, dalla necessità a cui siamo chiamati di dirigere e governare la transizione.
Un’ultima questione in conclusione. Considero un pessimo accordo quello sottoscritto da Cgil-Cisl-Uil con la Confindustria. Alle critiche di merito sollevate da altri aggiungo una critica di metodo: un accordo così importante, che incide pesantemente sui diritti sindacali e sulla democrazia andava discusso in bel altro modo: coinvolgendo i lavoratori e non deciso dall’alto. Detto ciò fatico molto a rendere esplicite le mie critiche quando purtroppo, anche dentro il partito, e Liberazione in questo ha svolto un ruolo decisamente negativo, montano posizioni come quella di considerare il gruppo dirigente della Cgil dei “traditori” o dei “servi della Confindustria” o quando si lanciano avventurose parole d’ordine di uscire dalla Cgil auspicando una rottura drammatica della Fiom. Vorrei discutere in tutt’altro modo, in primo luogo tentando di capire le ragioni di una Cgil oggi in grande difficoltà. Del resto lo stesso Landini giustamente va ripetendo che la Fiom è la Cgil e che la battaglia per contrastare e correggere le scelte confederali va condotta nella e per la Cgil che resta, nonostante la canea antisindacale di questi giorni, l’unica organizzazione di massa in Italia del mondo del lavoro.

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