Partito
della Rifondazione Comunista Proposta documento conclusivo (Bellotti e altri) A oltre un anno dall’esplosione della bolla finanziaria, la crisi internazionale è tutt’altro che terminata e solo ora si manifestano pienamente i suoi effetti sul piano sociale e occupazionale. I piani di intervento pubblico hanno trasformato una gigantesca massa di debito privato (banche, fondi speculativi, aziende ecc.) in debiti pubblici; nei 20 paesi più ricchi il debito pubblico si avvia a superare il 100 per cento del Pil. Peraltro non è ancora escluso che emergano nuove crisi derivanti dai cattivi crediti tutt’ora accumulati. Questo implica una prospettiva di austerità permanente per tutta la prossima fase storica, anche a prescindere da quando e come si manifesterà la ripresa del ciclo. Il calo complessivo del Pil in questa crisi supera già largamente quello di tutte le crisi del periodo post bellico. Tutt’ora esiste in moltissimi settori industriali una gigantesca sovraccapacità produttiva, impianti e capitale che devono essere distrutti affinché l’economia possa ripartire. Non a caso i paesi del G-20 hanno unanimemente convenuto che non è possibile oggi ritirare i piani di sostegno pubblico, pena l’immediata ricaduta in una nuova crisi. Questo contesto rende velleitaria qualsiasi ipotesi di risposta keynesiana e socialdemocratica su scala globale, mentre laddove queste politiche possono essere applicate, come è il caso di alcuni paesi emergenti, a partire dalla Cina, non possono trainare una ripresa mondiale, tanto più in presenza di elementi di un nuovo protezionismo. Non a caso Obama incontra enormi difficoltà a far approvare la sua sia pure timida e parziale proposta di riforma del sistema sanitario. Allo stesso modo, l’attesa svolta nella politica internazionale è finora rimasta nel campo delle declamazioni propagandistiche, come dimostrano il golpe in Honduras e la situazione in Afghanistan e Palestina, solo per citare gli esempi più macroscopici. Il capitalismo italiano, privato della sua tradizionale arma della svalutazione competitiva e gravato da un debito pubblico che già prima della crisi era pari al 107% del Pil e che potrebbe balzare fino al 125-130%, non può che subire in modo particolare gli effetti di questa crisi; l’aggressione sistematica ai salari, ai diritti sindacali, al welfare, ai beni pubblici è in questo senso una strada obbligata a prescindere dalla composizione del governo in carica. Non si profila alcun ritorno al “sano” capitalismo produttivo contro il “cattivo” capitalismo speculativo finanziario, bensì un’epoca di declino industriale, decadenza sociale, accentuazione dei caratteri regressivi e parassitari tradizionali del capitalismo italiano con tutte le relative conseguenze sul piano democratico, civile e culturale. Emerge un conflitto radicale L’elemento da mettere al centro della nostra discussione è il riemergere di un conflitto operaio radicale, sia pure nella sua fase iniziale e su basi tutt’ora non di massa, di cui la lotta della Innse e soprattutto il suo esito vittorioso costituisce l’esempio ad oggi più significativo. Dobbiamo analizzare in modo non propagandistico questo conflitto. Gli elementi decisivi nel permettere un esito positivo, che non a caso è immediatamente rimbalzato in tutti gli altri punti di conflitto, sono stati: 1) La forte autorganizzazione della lotta, che dal primo all’ultimo momento ha visto il ruolo decisionale incontestato e centrale dei lavoratori direttamente impegnati nella mobilitazione; 2) L’idea della lotta come difesa della fabbrica, del lavoro come elemento unificante della compagine operaia, che ha potuto così raggiungere la determinazione e l’unità necessarie per reggere una vertenza di oltre 15 mesi e a coagulare attorno a sé una vasta solidarietà. 3) La presenza, anche grazie alla lunga tradizione di lotta, di quadri di fabbrica capaci di interpretare al meglio queste esigenze e questo spirito, al quale anche la Fiom si è positivamente affiancata, accettando di subordinare le proprie scelte al tavolo delle trattative alle istanze dei lavoratori in lotta. Solo se si capisce questo quadro si può dare una valutazione equilibrata dell’effetto di azioni eclatanti (la “salita” su un carroponte) e del loro impatto mediatico, che pure importanti non sono state altro che uno dei passaggi di questa lunga vicenda. “Fare come alla Innse”, parola d’ordine sempre più popolare e diffusa, significa quindi non semplicemente cercare il gesto eclatante, ma lavorare sistematicamente a fare emergere quegli stessi elementi di radicalità e di autorganizzazione che sono stati decisivi. Sul piano programmatico, questo implica rafforzare la centralità della parola d’ordine della salvaguardia degli stabilimenti e del tessuto produttivo, la quale ovviamente non sempre, e anzi solo in una minoranza dei casi, può manifestarsi nella forma di una nuova proprietà disposta a garantirla. Diventa centrale l’elaborazione di una proposta di nuovo polo pubblico industriale e produttivo come leva per scardinare le strategie di quelle imprese che in nome di delocalizzazioni, finanziarizzazione, conversione alla rendita immobiliare, ecc. si disimpegnano dalla produzione. Questa proposta, unita a quella già avanzata nei mesi scorsi dal partito, della nazionalizzazione delle banche, è peraltro l’unica che può dare una base credibile a qualsiasi prospettiva di autogestione senza che questa diventi semplice autosfruttamento dei lavoratori in forme societarie di tipo cooperativo. È questa la strada maestra per legare il conflitto in atto a una prospettiva politica alternativa e a un’ipotesi anticapitalista, come peraltro conferma l’esperienza del movimento delle fabbriche occupate in America Latina in questo decennio. Il congresso della Cgil e la lotta dei metalmeccanici La ripresa del protagonismo operaio così come del conflitto nella scuola, che ha tutte le potenzialità per innescare a partire dalla lotta dei precari un nuovo movimento di massa, è l’elemento su cui fare leva anche in vista dell’imminente congresso della Cgil. La Cgil attraversa una evidente crisi di strategia sindacale, che si manifesta con un vuoto enorme tra la scelta di non firmare l’accordo del 22 gennaio sul modello contrattuale e l’assenza completa di un percorso di lotta capace di reggere quella scelta e di trasferirla in coerente azione sindacale nelle aziende e nelle categorie. Un conflitto di questo livello non può concretizzarsi solo in mobilitazioni generali , tanto più se diluite nel tempo e a carattere prevalentemente dimostrativo, ma deve necessariamente dotarsi di piattaforme e metodi di lotta radicalmente diversi. Neppure il solo confronto congressuale, che pure ci deve vedere senza esitazioni a sostegno di una conferma della rottura di gennaio e di una azione con essa coerente, può dare risposte definitive a questa crisi di strategia; solo intrecciando questa battaglia con le lotte più radicali che si sviluppano nel paese è possibile prospettare l’emergere di quei quadri e di quella pratica sindacale necessarie a riaprire la prospettiva di un autentico sindacalismo di classe e democratico nel nostro paese. Il più importante banco di prova è il contratto dei metalmeccanici, che fin dal primo momento vede piattaforme separate tra Fiom e Fim-Uilm e una immediata rottura del tavolo di trattativa. Questa battaglia assume un carattere decisivo che può condizionare l’intera prospettiva della Cgil e non a caso si preannuncia la decisione del segretario della Fiom di farsi promotore di una posizione alternativa nel congresso. Sottrarsi a questo scontro decisivo risulterebbe incomprensibile da parte di qualsiasi elemento che ritenga di farsi portatore di una posizione di sinistra nella Cgil. Solo in questo intreccio, al cui centro devono sempre essere i lavoratori e le loro istanze, è possibile allargare una collaborazione feconda fra sindacalismo di base e i settori più combattivi della Cgil senza precipitare in una competizione sterile fra sigle e componenti, ma affidando ad esso la prospettiva di una nuova unità di classe, dal basso che rompa il patto neocorporativo già fatto proprio da Cisl, Uil e Ugl e che tutt’ora rischia di risucchiare il gruppo dirigente di maggioranza della stessa Cgil, come dimostra il recente incontro di Cernobbio fra Marcegaglia ed Epifani. Questi temi devono essere al centro della Conferenza dei lavoratori e delle lavoratrici, che assume un carattere centrale e urgente per attrezzare il partito ad essere presente con efficacia su tutti questi terreni. Governo e opposizioni L’attacco alla Cgil e al contratto nazionale è un punto centrale nella strategia del governo, che prosegue come un rullo compressore nel tentativo di sfondamento su questo terreno e contemporaneamente allargandolo su terreni quali le politiche repressive, il razzismo istituzionalizzato, le privatizzazioni, la demolizione di scuola e sanità pubbliche, l’attacco ai diritti democratici, il costante alimentare di culture regressive, omofobe, maschiliste, razziste. Nessuna delle attuali opposizioni parlamentari è disposta a fare proprio il conflitto sociale come fulcro di una strategia di resistenza e attacco a Berlusconi; il Pd considera sua missione prioritaria ricomporre una “unità sindacale” corporativa e burocratica in nome di una presunta “collaborazione” fra padroni e lavoratori per fronteggiare la crisi. Privata di ogni contenuto sociale, la battaglia democratica del Pd su temi quali la libertà di stampa e in generale i diritti democratici, si riduce a una pura diatriba interna ai poteri forti di questo paese. Non per questo sottovalutiamo l’offensiva reazionaria del governo, ma nel resistervi anche in collaborazione con altre forze, dobbiamo sempre tenere ben ferma la distinzione fra ciò che, ad esempio, può significare “libertà di stampa” per i grandi quotidiani “progressisti” e ciò che significa per i lavoratori e gli sfruttati di questo paese, quasi completamente privi di qualsiasi reale accesso alla libertà di espressione in ogni campo. Non è un caso se per anni abbiamo parlato, giustamente, di un “pensiero unico” fra destra e sinistra volto a sradicare qualsiasi prospettiva di trasformazione sociale; le diatribe fra Berlusconi e settori dei mezzi di informazione, per quanto importanti, non mutano certo oggi questa realtà di fondo. Per lo stesso motivo è illusorio affidare la prospettiva della fine del potere berlusconiano all’esplosione di qualche scandalo particolarmente ingestibile, o all’azione di quei settori della classe dominante, che per quanto parzialmente estranei a tale sistema di potere, sono ben coscienti della loro solidarietà di fondo col programma economico sociale del governo e con la sua azione antipopolare. Anche nell’ipotesi, che auspichiamo e alla quale lavoriamo, che un movimento di massa possa raggiungere forza e dimensioni tali da mettere in crisi il governo, in assenza di una forte sinistra di massa la risposta che inevitabilmente nascerebbe nell’attuale assetto politico sarebbe una qualche forma di unità nazionale o governo tecnico, che peraltro abbiamo già conosciuto in altre fasi di crisi e forte conflitto sociale. Tale prospettiva inevitabilmente coinvolgerebbe anche il Pd, che non avrebbe quindi alcun interesse ad allargare gli spazi istituzionali per qualsiasi forza che alla sua sinistra si sottraesse a tali alleanze. Resta del tutto fuori dal campo delle ipotesi realistiche l’idea di un accordo “sulle regole” (legislatura breve, patto di garanzia costituzionale, ecc.) che possa essere percorribile per il nostro partito: anche nell’eventualità di una crisi dell’attuale maggioranza, qualsiasi ipotesi di governo di transizione non potrebbe che comportare una pesante compromissione sul piano della politica economica e sociale verso la quale il nostro partito dovrebbe essere non solo estraneo, ma nettamente conflittuale. Le elezioni regionali e la Federazione della sinistra di alternativa Il Pd riconferma anche nel suo dibattito congressuale la sua struttrale estraneità a qualsiasi istanza di classe e di sinistra. L’abbandono della “vocazione maggioritaria” e il ritorno a una politica di alleanze, in primo luogo con l’Udc, non è altro che la presa d’atto della doppia sconfitta elettorale del 2008 e del 2009. L’impianto programmatico, la radice di classe delle scelte del Pd, rimangono incrollabilmente ancorate alla logica di un’alternanza borghese. Lavoriamo quindi fin da ora a preparare le condizioni programmatiche e l’intervento sociale per la costruzione di coalizioni di sinistra alternative ai due poli in vista delle elezioni regionali di primavera, ribaltando la deteriore tradizione che pone al primo punto del dibattito l’ottenimento della rappresentanza istituzionale, al secondo il suo legame con il mantenimento del nostro apparato e buona ultima l’eventuale coerenza o meno della nostra proposta elettorale con le battaglie sociali delle quali dichiariamo di farci portatori. Questo percorso serva anche a garantire al partito la piena sovranità sulle proprie scelte, di fatto già violata in alcuni passaggi della costruzione della proposta di Federazione della sinistra. Solo nella trasparenza delle scelte è infatti possibile lavorare a un’unità d’azione, anche sul terreno elettorale, che possa essere base per processi di riaggregazione a sinistra senza che questi cadano nella logica dell’autoconservazione dei gruppi dirigenti e del moderatismo politico. Nella sua forma attuale e in assenza di una radicale correzione, la Federazione non può che portare a una paralisi derivante dai veti incrociati fra le componenti interne del Prc in una relazione deteriore con le componenti delle altre forze della federazione stessa, generando fatalmente un profilo politico indistinto, una gestione antidemocratica e una conflittualità latente che ad un certo punto ne minerà le stesse basi. Nel medio termine lo stesso obiettivo dell’unità che viene posto alla base della costruzione della federazione ne risulterebbe negato. La strada che vogliamo perseguire è invece quella del rafforzamento politico, programmatico e organizzativo del nostro partito, del suo rilancio nel vivo del conflitto sociale nel quale possa emergere un nuovo modello di militanza e di quadro dirigente all’altezza della sfida impostaci dalla profondità e dal carattere strutturale di questa crisi. Claudio Bellotti, Andrea Davolo, Enrico Galici, Alessandro Giardiello, Mario Iavazzi, Lidia Luzzaro, Sonia Previato, Jacopo Renda, Dario Salvetti, Antonio Santorelli Respinto con 8 voti a favore |