Partito
della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 19 e 20 aprile 2008
Relazione di Franco
Giordano
I motivi della sconfitta,
i luoghi da cui ripartire
Compagne e compagni,
credo sia giusto e utile disporsi, in questo organismo, ad una assunzione
collettiva di responsabilità. Propongo quindi che la segreteria
si presenti rimettendo il proprio mandato, con l'indizione del congresso
nazionale dal 10 al 13 luglio.
Dopo l'esito disastroso delle elezioni politiche, ho avanzato subito
la proposta di anticipare il congresso, perché a fronte della
catastrofe è necessario che a prendere la parola siano tutte
le compagne e tutti i compagni, in un percorso partecipato e democratico.
Non inventiamoci - lo dico con responsabilità e passione - soluzioni
che mirano a ostacolare questo processo prefigurando sin d'ora l'esito
del congresso. Non costruiamo un diaframma, ora, al dispiegarsi pieno
della democrazia congressuale. Insisto, la parola spetta a tutte le
compagne e a tutti i compagni. Il gruppo dirigente dimissionario deve
disporsi con umiltà all'ascolto. Ma deve anche saper evitare
che la discussione, necessariamente approfondita, forse aspra, abbia
effetti distruttivi. Che si risolva in un cupo processo di dissoluzione.
Significherebbe sommare catastrofe a catastrofe. Scontiamo già
un drammatico deficit di consenso: modalità di discussione distruttive,
ridotte a cieca conflittualità tra aree o correnti, tutte interne
a logiche autoreferenziali e rancorose, sarebbero esiziali. Non ci sarebbe
appello.
Tra noi non ci sono vincitori e vinti. A fronte di questa catastrofe
delineare una simile immagine sarebbe grottesco. Siamo stati sconfitti
tutti, qualunque fosse la posizione dalla quale, ciascuno di noi, si
è cimentato nella direzione politica di questi due anni: dal
partito ai gruppi parlamentari alle postazioni di governo. E' preciso
dovere di tutti noi, oggi, garantire, pur nella diversità delle
rispettive posizioni, la tenuta unitaria del partito: la cura verso
quanti, già da ora, intendono intraprendere con noi la dura traversata
del deserto che ci attende.
Per parte mia intendo, con scelta del tutto unilaterale, evitare ogni
forma di personalizzazione che ridurrebbe la nostra discussione a mera
futilità. Per quanto mi riguarda personalmente, in questi giorno
ho assistito con amarezza a una campagna, tutta giocata sugli organi
di stampa, che attribuiva a me e ad altri compagni l'intenzione di sciogliere
questo partito. E questa accusa è entrata in corto circuito con
le analisi della sconfitta subìta, è stata annoverata
tra le cause principali della disfatta. Sfido chiunque a trovare un
mio scritto, un mio intervento, una qualsiasi parola in questa direzione.
Non ve ne sono.
Penso che da questo Cpn debba arrivare subito l'indicazione di organizzare
in ogni territorio discussioni degli organismi dirigenti e dell'intero
partito a tutti i livelli, ma anche assemblee aperte, di massa, con
tutti coloro che si sono cimentati nell'esperienza politica della costruzione
di una sinistra unitaria. Perché fuori dal nostro perimetro c'è
la stessa angoscia, lo stesso sgomento misto a una volontà di
reazione. C'è persino in chi non ha creduto in noi, delegando
al Pd una sorta di consenso passivo in chiave antiberlusconiana oppure
affidando la sua criticità all'astensione.
E' proprio dalla bellissima assemblea di oggi a Firenze che dobbiamo
ripartire. Questa iniziativa ci chiede di scommettere sulla partecipazione
delle donne e degli uomini della sinistra unita. Dobbiamo attivarci
con tutta la nostra energia, da subito, per fare degli appuntamenti
del 25 aprile e del primo maggio l'occasione per una ripresa immediata
dell'iniziativa politica diffusa. Dobbiamo investire, con ogni mezzo
a nostra disposizione, sulla ripresa di una cultura democratica e antifascista,
sulle ragioni del conflitto sociale nella società contemporanea.
E' proprio su questi fronti che bisogna riannodare immediatamente i
fili di una possibile e necessaria risposta dal basso e di massa al
tentativo di sfondamento finale da parte di una cultura autoritaria
che si propone di espungere dalla scena politica del paese e persino
dalla sua storia tanto il conflitto quanto la sua rappresentazione.
Dobbiamo impegnarci al massimo, con convinzione e determinazione per
assicurare la vittoria di Francesco Rutelli nel ballottaggio di Roma.
Ora è chiaro che nella Capitale si gioca una partita decisiva
e di portata nazionale. Si tratta qui di capire se è ancora possibile
far vivere esperienze di vertenzialità diffusa, movimenti, forme
di partecipazione democratica. Non possiamo permettere il dilagare della
peggiore destra. Perché l'Italia che ci viene consegnata da queste
elezioni è un paese che ha subito una impressionante svolta a
destra, una sterzata inaudita, di dimensioni e portata mai viste dal
dopoguerra a oggi. A noi, lo so, può sembrare una banalità
il dirlo, eppure non è certo questo l'oggetto delle disamine
mediatiche, non è di questo che discutono e si preoccupano i
grandi giornali e i talk show, ed è, la loro, una distrazione
assai eloquente.
La destra di Berlusconi dispone dopo questo voto di una forza enorme,
e al suo interno si registra una crescita più che significativa
ed estremamente inquietante della Lega, con tutto il suo corredo di
culture regressive, xenofobe, antisolidariste, a tratti apertamente
reazionarie. Nella storia repubblicana non esiste alcuna analogia possibile,
né per le dimensioni della vittoria della destra, né per
lo squilibrio subìto dai rapporti di forza né, soprattutto,
per egemonia culturale. Dietro la retorica e la foglia di fico della
"semplificazione del sistema politico" si cela una realtà
minacciosa e drammatica. Il Pd ha impresso una brusca accelerazione
verso l'americanizzazione del sistema politico italiano. Sembra non
accorgersi del quadro disastroso che questa svolta ha partorito. Se
per noi è una catastrofe per loro è, nella migliore delle
ipotesi, un secco insuccesso. La forma concreta che l'americanizzazione
ha assunto, in Italia, altro non è che questo violento, massiccio,
traumatico spostamento a destra. Trovo persino incredibile che nessuno
segnali l'esistenza di un nesso evidente tra la cocente sconfitta della
sinistra e il trionfale risultato di Berlusconi e della Lega. Non è
così. La correlazione c'è, ed è strettissima. Se
si cancella la sinistra, sfonda la destra. Se cede la sinistra, resta
in campo solo il populismo della destra berlusconiana e della Lega.
Si è aperta una curiosa e singolare discussione su chi possa
rappresentare oggi le istanze di trasformazione sociale e di tutela
del mondo del lavoro proprie della sinistra nella sfera istituzionale.
Il Pd non può farlo. E' interno a un orizzonte strategico che
nega la trasformazione e rimuove il conflitto. La sua logica è
quella della razionalizzazione e del governo dell'esistente, non della
sua trasformazione. Ma non si può esportare in Italia - noi comunque
lavoreremo per contrastarlo - la logica propria del modello americano:
la costruzione cioè di modalità lobbistiche. Una concezione
utilitaristica della politica che separa gli interessi concreti dai
progetti di alternativa.
Oggi, al contrario esatto, contrastare seriamente la precarietà
significa mettere in discussione la forma concreta di produzione di
questo capitalismo. Intervenire sui salari significa fuoriuscire dal
quadro stretto della logica della competitività di prezzo. Rivendicare
i diritti civili è tutt'uno con il ricostruire una dimensione
laica della politica.
Per stare al tema sinteticamente e per semplificare, io vedo tre ragioni
all'origine della nostra sconfitta. Due, per così dire, "oggettive"
e una, che tutte le sovrasta e le sovraordina, invece "soggettiva".
Prima di tutto lo scarto tra le aspettative di cambiamento di cui ci
eravamo fatti portatori e i risultati profondamente deludenti dell'azione
di governo. Indipendentemente dal lavoro positivo svolto dai nostri
compagni nella delegazione di governo. Questo scarto è stato
avvertito come ancor più cocente perché venivamo da cinque
anni di opposizione al governo Berlusconi, da una stagione grande di
protagonismo dei movimenti e di diffusa conflittualità sociale
nel paese. Tanto più alte le attese maturate in quel ciclo, tanto
più violenta la delusione. La posta in gioco nelle elezioni del
2006 - lo vediamo oggi con massima chiarezza - non era solo la vittoria
contro Berlusconi: c'era una diffusa speranza di cambiamento generale
del paese, che all'atto pratico si è rovesciata nel suo opposto.
Faccio tre esempi eloquenti, tre grandi manifestazioni: quella di Vicenza
contro la base, il gay pride, l'immensa manifestazione contro il precariato
del 20 ottobre. Di tutte e tre quelle manifestazioni noi eravamo stati,
a diversi livelli, protagonisti. Dell'ultima, la più grande manifestazione
contro il precariato degli ultimi decenni, eravamo tra i principali
organizzatori. Ma quando abbiamo cercato di tradurre i temi di quelle
manifestazioni, le istanze sociali di cui ci eravamo fatti interpreti,
nell'azione di governo, ci siamo scontrati contro un muro di impermeabilità.
E ciò ha prodotto disincanto, delusione, disaffezione, passività,
astensionismo. Negata negli impegni della vigilia, si è prodotta
la solita politica dei due tempi - prima il risanamento, poi la redistribuzione
- salvo poi fermare le macchine al momento di passare dalla prima alla
seconda fase, dal risanamento e dai nuovi sacrifici alla redistribuzione
e alla restituzione, al risarcimento sociale.
Non è certo difficile, oggi, interpretare quel muro di impermeabilità,
alla luce della forma concreta che ha assunto il Pd nel corso della
campagna elettorale. E' sin troppo facile spiegarsi quella sorda resistenza,
dopo aver visto i temi e le candidature schierate da quel partito, dopo
aver registrato la presenza nei suoi ranghi di tutte le diverse anime
di Confindustria: un en plein che non era mai riuscito neppure alla
Democrazia cristiana. E' in questo contesto che nasce e prende corpo
il paradigma fondamentale del Pd. Ed è per questo che la ricostruzione
della sinistra non può che avvenire in un orizzonte strategico
nettamente distinto da quello in cui si muove il Partito democratico.
Io credo che questa dimensione, questa scesa in campo di tutte le aree
confindustriali, questa martellante insistenza degli organi di stampa
più vicini all'azienda sulla necessità di inaugurare forme
di intesa tra la destra e il Pd, persino a fronte della vittoria netta
di Berlusconi, si profili proprio perché emerge una crisi internazionale
di carattere non solo congiunturale: crisi finanziaria, di liquidità
generalizzata, il cui motore recessivo parte dall'America. All'interno
di questa crisi della globalizzazione possono tornare ad avere un ruolo
e una funzione, pur in forme diverse da quelle del passato, i governi
nazionali.
Ci troviamo così di fronte a un'alternativa secca: la crisi può
avere effetti devastanti, abbattendosi sui soggetti più deboli,
oppure può spingere verso la riapertura di uno spazio pubblico
in economia, verso la sottrazione al mercato dei beni comuni, verso
un mutamento del paradigma produttivo che comporti l'investimento su
alternative economiche e sul mutamento degli stili di vita. I nuovi
referenti sociali del Pd lavorano, all'interno di questa alternativa,
per privilegiare la competitività del sistema delle imprese e
per forzare brutalmente la mano con l'obiettivo di stravolgere strutturalmente
il segno delle relazioni sindacali, mettendo in mora il contratto nazionale
e persino modificando la natura stessa del movimento sindacale. Come
attestano le esplicite dichiarazioni di ieri di Montezemolo che, con
un gesto gravido di conseguenze sottrae al sindacato persino la legittimità
della rappresentanza. Dalla politica alla società. In questo
quadro di crisi della globalizzazione torna potentemente in campo la
proposta complessiva avanzata dal movimento No Global, mentre la Sinistra
appare non attrezzata culturalmente e socialmente per misurarsi con
una simile fase. E' infatti sconfitta sia quando si presenta nella forma
classica del partito, come nel caso del Pcf, sia quando invece tenta
esperimenti diversi, come Izquierda Unida in Spagna o la Sinistra Arcobaleno
in Italia.
Il secondo elemento "oggettivo" alle origini della nostra
sconfitta è stato l'utilizzo truffaldino, disonesto e persino
cinico della campagna sul voto utile da parte del Pd. La distanza tra
questo partito e la destra è sempre stata incolmabile, e i leader
del Pd ne erano perfettamente coscienti. E' stato messo in scena un
inesistente "testa a testa", il Pd ha così giocato
freddamente la carta della nostra distruzione solo per garantirsi quella
soglia minima di consensi, sotto la quale sarebbe entrato in crisi il
suo intero progetto. E' stata una politica furbesca, ma a mio parere
è stata anche una strategia miope. La batosta inflitta alla sinistra
non ha comportato la vittoria del Pd e neppure un sostanziale miglioramento
delle sue posizioni. I frutti della nostra sconfitta sono stati raccolti
dalla destra. La conseguenza dell'offensiva truffaldina sferrata contro
di noi è stato lo sfondamento pieno della destra. Per quindici
anni due fronti si sono mantenuti più o meno alla pari. Oggi
questo equilibrio è saltato, spostandosi decisamente a vantaggio
della destra. Forse, con pacatezza, si può discutere di ciò
almeno con alcuni dirigenti del Pd. Sulle conseguenze del "voto
utile" per le nostre sorti elettorali non è possibile alcun
dubbio. Basta mettere a confronto i risultati che abbiamo raggiunto,
nello stesso giorno, nelle stesse città, nelle elezioni politiche
e in quelle amministrative, dove pure, tradizionalmente, i nostri risultati
sono inferiori a quelli delle politiche. Siamo invece, in questo caso,
di fronte a un drastico rovesciamento. A Roma come a Massa, a Foggia
come in decine di comuni della Campania, solo per fare alcuni esempi,
il consenso nelle amministrative si rivela doppio, triplo, in qualche
caso addirittura quadruplo di quello nelle politiche. Dati che non richiedono
ulteriori commenti e che comunque non servono a lenire le nostre difficoltà
anche sul terreno delle amministrative.
Ma se queste sono, schematicamente, le ragioni "oggettive"
della sconfitta, il vero tema centrale per noi è il problema
"soggettivo", le nostre difficoltà, la nostra inadeguatezza.
E' questo il vero oggetto della nostra discussione. Perché tutto
il resto, le conseguenze del "voto utile" e persino quelle
della delusione provocata dal governo Prodi, sarebbero state assai meno
devastanti senza questa nostra difficoltà soggettiva. In questo
senso siamo stati davvero un fuscello nella tempesta e, come è
stato giustamente detto nella discussione sul voto, siamo stati «percepiti
come un residuo». Questa inadeguatezza, credo che derivi dall'intreccio
di due fattori: la difficoltà nel delineare una ipotesi credibile
di alternativa di società e, contestualmente, il nostro largamente
insufficiente radicamento sociale e territoriale. Un orizzonte di alternativa
di società, per essere credibile, non può essere semplicemente
evocato: deve essere vissuto, praticato. Deve essere partecipato e sentito,
a livello emotivo oltre che politico, come un qualcosa di vivo e collettivo.
Le modalità con cui siamo stati costretti a costruire in fretta
e furia la Sinistra Arcobaleno, incalzati dall'appuntamento elettorale,
scontando la disposizione strumentale e utilitaristica di alcune delle
forze che partecipavano con noi a quel progetto, ci hanno impedito di
lavorare su questo terreno. Hanno reso impossibile costruire qualcosa
che fosse sentito dagli elettori come un loro patrimonio, un loro progetto,
una loro casa comune. Io - ma la mia è solo un'opinione - penso
tuttavia che se fossimo andati da soli alle elezioni il risultato non
sarebbe stato dissimile. Al contrario, un maggior numero di competitori
si sarebbe rivolto a una stessa area, già esigua, sulla quale
la sirena del voto utile, di fronte a una ulteriore frammentazione,
avrebbe avuto un richiamo ancora più allettante.
La Sinistra Arcobaleno ha pagato un forte deficit di tenuta sociale
e di progettazione in termini di alternativa di società. A maggior
ragione io voglio qui ringraziare Fausto Bertinotti, che si è
messo con generosità e passione al servizio di un progetto di
cui certo non gli sfuggivano i limiti, nel tentativo coraggioso di supplire,
con la sua intelligenza politica, con la sua forza culturale e con la
sua passione di sempre, ai vuoti e alle carenze della Sinistra Arcobaleno.
Permettetemi di dire qui apertamente che ho trovato molto ingenerose,
molto ingiuste e molto sgradevoli, umanamente ancor più che politicamente,
le critiche che sono state rivolte a Fausto per aver accettato di rendersi
disponibile a un'impresa difficilissima. Permettetemi anche di esprimergli,
a titolo personale ma sono certo anche a nome di molti, moltissimi compagni,
in questa sala e fuori di qui, la più sincera gratitudine.
Quella ipotesi di alternativa di società che la Sinistra Arcobaleno
non è stata capace di esprimere credibilmente, noi dobbiamo continuare
instancabilmente a cercare di definirla. Non può che nascere,
lo sappiamo bene, dalla critica della globalizzazione e della sua crisi
attuale. Le vecchie forme di cultura identitaria sono mute di fronte
a questi scenari, e mute sono destinate a restare. Non è per
quella via che riusciremo a ricostruire un pensiero critico adeguato
ai tempi e a individuare un agire collettivo conseguente. E' per questo
che io penso dovremmo avere la massima cura di Rifondazione comunista
cura e valorizzarla. Rifondazione, non la sua caricatura. Rifondazione,
una comunità politica e umana che ha investito da sempre, attraversando
per questo difficoltà enormi, sull'innovazione, sulla ricerca,
sull'apertura che ci ha portati fino all'ultimo congresso. Abbiamo attraversato
tornanti stretti nel corso della nostra vicenda. Senza questa innovazione
ed apertura saremmo stati sbalzati fuori in questa o in quella curva.
Guai a cancellare questo percorso. Questo e non altro è Rifondazione
comunista. La proposta unitaria a sinistra, che noi non possiamo e non
dobbiamo abbandonare, nasce proprio da questa storia, è figlia
di questa cultura. Sono facce della stessa medaglia. E' in difesa di
questa storia politica, culturale e umana di Rifondazione comunista,
della sua identità basata proprio sul rinnovamento, che noi diciamo
no alla Costituente comunista, ipotesi che segnerebbe una tragica regressione
culturale e politica. Sarebbe uno scomposto e impaurito ritirarsi in
antichi fortilizi, solo per scoprire che quei fortilizi non esistono
più. Sono ormai solo fragili capanne. Malinconici simulacri.
Ma se mi si chiedesse qual è, alla radice della radice, il tema
dirimente, la causa prima della sconfitta, io risponderei che va rintracciata
nello sradicamento. Sradicamento dai luoghi di lavoro. Sradicamento
dal territorio. Sradicamento dai luoghi della sofferenza e del disagio
sociale. La nostra gente non ci ha visto come parte della loro vita,
non ci ha sentiti come partecipanti alla loro stessa quotidiana esperienza.
Ci ha vissuto come distanti. Altro da sé. E' in questo contesto
che non riesci più a contrastare gli orientamenti culturali più
regressivi. A questo limite il Pd tentato di sopperire trasmigrando
in una dimensione costituivamente separata, tutta mediatico-istituzionale.
Cerca di far leva su una dimensione fortemente spettacolarizzata della
comunicazione politica. Ma la tenuta anche di quel tentativo è
messa a dura prova dall'egemonia culturale e sociale della destra, e
i risultati elettorali ne fanno fede. Nei territori noi assistiamo alla
sistematica sostituzione del conflitto sociale verticale con conflitti
orizzontali: la guerra dei penultimi contro gli ultimi, le spinte xenofobe,
la crescente intolleranza verso ogni forma di diversità, il rapporto
contrappositivo con gli altri territori. E' qui la forza della Lega
che, come in un caleidoscopio, raccoglie i frammenti culturali più
diversi per riunificarli grazie al collante costituito dalla difesa
di un'identità territoriale declinata sempre e solo in modalità
contrappositive, nello scenario della competizione globale. Ed è
in questo quadro che vengono a mancare i soli anticorpi reali: le donne
e gli uomini organizzati, capaci di orientare, assistere, promuovere
e organizzare sia i conflitti che la costruzione di nuovi legami sociali.
Non c'è giorno, dalle elezioni in poi, in cui i giornali non
dedichino pagine e pagine alla perdita del voto operaio che, soprattutto
nel nord, defluisce dalla sinistra verso la Lega. Credo che la ragione
di questo slittamento vada individuata nella classica "divaricazione
tra condizione sociale e coscienza politica", in una fase segnata
a fondo dalla svalorizzazione del lavoro e dalla sua frantumazione nell'era
della precarietà. Al conflitto di classe si tende così
a sostituire una dimensione neocorporativa orizzontale, concertativa,
sempre nel metro della territorialità contrappositiva.
Per questo il nuovo radicamento sia nostro che del progetto unitario
a sinistra non può che passare per un lavoro capillare, diffuso
e paziente di ricostruzione, in forme inedite, di una presenza, di un
insediamento. Ricostruzione di legami sociali centrati sul solidarismo
invece che sulla contrapposizione, ricostruzione di forme inedite, ancora
tutte da inventare e sperimentare, di mutualità. I territori
sono stati privati, per nostra responsabilità, di anticorpi,
di trame democratiche organizzate e socializzate. Sono progressivamente
rimasti senza una nostra presenza organizzata, spogliati dall'idea di
una politica altra. I lavoratori e le lavoratrici sono rimasti soli
in fabbrica, e non ci hanno trovato nei territori, dove, soprattutto
a nord, hanno invece incontrato chi diffondeva a piene mani conflitti
orizzontali.
Se devo investire, in questo quadro, su un rilancio delle soggettività
sociali, immagino che lo si debba fare a partire da quattro ipotesi,
che coincidono con quattro forme critiche eminenti della globalizzazione:
- il conflitto sociale, nelle forme inedite in cui questo si presenta
oggi, a fronte di una organizzazione del comando tutta diversa da quelle
che eravamo abituati a conoscere e a contrastare nel Novecento, e che
quindi ci trova a tutt'oggi spiazzati, costretti a inseguire affannosamente
l'iniziativa del capitale invece che anticiparla individuandone i punti
deboli. La rincorsa della forza lavoro al suo prezzo più basso
travolge oggi tutti i diritti preesistenti: nessuno di essi è
al riparo. La precarietà è una condizione esistenziale
che modifica la tipologia umana: diventa quasi una modalità dell'essere.
La modernità è un ossessivo processo di cambiamento, quasi
una necessità compulsiva, l'impossibilità di qualunque
forma di consolidamento. Scrive Baumann che il gioco della vita si srotola
nel quotidiano e che il gioco della vita è di separarti dagli
altri se gli altri non ti servono più. L'esclusione è
posta come necessità;
- i movimenti sia territoriali che globali, incontrati nella doppia
dimensione che caratterizza la mobilitazione sociale nella globalizzazione,
quella altermondialista, e quella invece fortemente localizzata, legata
indissolubilmente al territorio di provenienza;
- le comunità che hanno saputo in questi anni riscoprire e ripristinare
un legame sociale uguale per quantità e contrario per qualità
a quello di modello contrappositivo che fa le fortune della Lega, altrettanto
radicate localmente e tuttavia solidariste, in grado di coniugare identità
non statiche e apertura alle contaminazioni, capaci di cementare vincoli
saldi e di ingaggiare conflitti strenui in una difesa non regressiva
del proprio territorio;
- la pratica della differenza e il pensiero sessuato, come rottura dell'approccio
indistinto e incapace di valorizzare le differenze che aveva caratterizzato
il pensiero critico del Novecento, persino nei suoi momenti più
alti.
Per tentare di raggiungere questi obiettivi, penso che dobbiamo partire
da Rifondazione comunista, dalla Rifondazione di cui ho parlato sinora,
ma all'interno di un processo costituente a sinistra al quale non possiamo
rinunciare se non vogliamo rassegnarci a una sostanziale superfluità.
L'ipotesi federativa, sperimentata con la Sinistra Arcobaleno, si è
rivelata impraticabile, incapace di raggiungere il cuore e la mente
della nostra gente, tanto dispendiosa in termini di energie quanto improduttiva
nei risultati concreti. Non credo sia un caso se oggi proprio chi più
rumorosamente l'aveva sostenuta, il Pdci, se ne sfila con poca eleganza
per dar vita a quella Costituente comunista sulla quale ho già
espresso il mio giudizio.
Ma neppure possiamo congelare la nostra elaborazione nell'alveo novecentesco,
e proprio questo significherebbe oggi tentare la scorciatoia del partito
unico. La sfida è ben altra: è quella della democrazia
reale, della partecipazione, della capacità di innovare forme
e pratiche della politica che sono sempre più esangui. Per me
la costituente è questo: uno spazio pubblico in cui tutte le
donne e gli uomini di sinistra possano intervenire con poteri decisionali;
il laboratorio collettivo in cui devono nascere un pensiero critico
e una forma dell'agire politico adeguati ai tempi. Nulla di più.
Nulla di meno. Se non ci riusciremo è bene dirsi sin d'ora che
non potremo rispondere alla crisi della politica, al vuoto di soggettività
e allo svuotamento sostanziale della democrazia. Quest'ultima minaccia
è oggi più che mai incombente: la scomparsa di ogni rappresentanza
politica del conflitto sociale rischia infatti molto fortemente di produrre
trasformazioni istituzionali di tipo autoritario e plebiscitario.
Permettetemi, per concludere, di dire qualcosa di più personale.
Di più intimo. In questi giorni io sento fortemente, in ogni
momento, tutto il dolore delle compagne e dei compagni. Vedo riflessa
nei loro visi, nei vostri visi, la mia stessa profonda sofferenza, e
so che è giusta, che non la si può e non la si deve evitare.
Sento anche tutto lo smarrimento intorno e dentro di me. Ma quello,
invece, non possiamo permettercelo. Non possiamo smarrirci, né
smarrire quello che abbiamo, quello da cui possiamo ripartire. Dobbiamo
tenerci stretto sia questo partito che il progetto di dar vita a una
più ampia e moderna sinistra. E per questo dobbiamo avviare un
grande processo di rinnovamento. Parlo della necessità di permettere
a tutta l'intelligenza politica, a tutta la fantasia, a tutta la passione
e a tutta l'energia che ci sono in questo partito, e che troppo spesso
non sappiamo usare, di emergere. Altra via per superare questa crisi
non ce n'è. E in mezzo a tanto sgomento, io sento anche una grande
voglia e un'altrettanto grande capacità di ricostruire e riprogettare.
Ma avverto anche, altrettanto imperiosa, la responsabilità che
abbiamo nei confronti di tutte le compagne e i compagni, non solo di
quelli che ci hanno votato, ma anche di quelli che non lo hanno fatto,
perché irretiti dalla bugia del voto utile o perché troppo
delusi dall'esperienza degli ultimi due anni, il cui dolore e il cui
senso di vuoto oggi non sono diversi né inferiori ai nostri.
Forse, nei loro confronti abbiamo anzi una responsabilità ancora
maggiore.
Questa responsabilità verso noi stessi e verso la nostra gente
ci impone oggi di mettere prima di tutto Rifondazione al riparo da ulteriori
catastrofi. Dobbiamo avere la capacità di confrontarci nella
maniera più diretta e trasparente, se necessario anche più
aspra, ma allo stesso tempo tenendoci per mano, o sottobraccio, come
in un corteo. Le sconfitte possono mettere in moto reazioni appassionate
di solidarietà e generosità, l'avete visto proprio oggi
a Firenze, ma possono anche innescare processi distruttivi, conflitti
che dal confronto politico sconfinano nel risentimento personale e nel
rancore. Rifondazione può sopravvivere alla sconfitta elettorale,
non sopravvivrebbe a una simile spirale di dissoluzione. Non lo permetterebbe
la nostra stessa gente. Viviamo un momento che richiede la massima forza
e insieme il massimo rispetto per la nostra stessa fragilità.
Non si facciano forzature in nome di logiche di parte.
Decida la politica. Qui si misurino ora in questo Cpn su documenti di
indirizzo politico le tesi diverse e su base proporzionale si elegga
un comitato di gestione straordinaria. Nessun membro della segreteria
nazionale ed i suoi invitati ne faccia parte. Si dia immediatamente
la parola alle compagne e ai compagni per il congresso.
Prima di imboccare il percorso che ci porterà al congresso chiedo
a tutti, e chiedo anche a me stesso, di fermarsi a riflettere su questa
strofa di un inedito di André Gide: «Se l'uomo impiegasse
il suo ingegno a proteggere il raro e il soave, il delicato e il fragile,
il volto del mondo potrebbe cambiare». Se impiegheremo il nostro
ingegno e la nostra energia per proteggere ciò che più
ha bisogno oggi di essere protetto, la nostra comunità e quella
più larga della sinistra, il volto di questo paese può
ancora sperare di cambiare. E' questa la nostra storia personale e collettiva,
è questo che la nostra comunità ci chiede.