Partito
della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale 22 - 23 febbraio 2008
Documento
respinto Bellotti e altri
La caduta del governo
Prodi e la fine dell'Unione hanno aperto una nuova fase politica che
richiede una svolta radicale nella prospettiva del nostro partito. La
necessità di tale svolta affonda le sue radici innanzitutto nella
sconfitta e nel fallimento dell'ipotesi di condizionamento da sinistra
del governo Prodi. Un'ipotesi che ha dimostrato lungo questi due anni
di non essere mai stata in grado di ottenere alcuna conquista significativa
che portasse ad un cambiamento reale nelle condizioni di vita dei lavoratori
e delle classi subalterne.
Dopo una lunga ed estenuante serie di conflitti, peraltro mai portati
fino alle estreme conseguenze (dall'Afghanistan a Vicenza, alla politica
economica e sociale), l'ultima parola è stata scritta con l'approvazione
del protocollo sul welfare, che ha segnato la definitiva sconfitta di
ogni ipotesi di condizionamento dell'Unione da parte della sinistra.
Sarebbe pertanto riduttivo e fuorviante attribuire il fallimento dell'Unione
alle manovre trasformiste delle forze centriste. La forza che ha determinato
le sorti dell'Unione e il suo profilo confindustriale non sono stati
i Dini o i Mastella, ma è stato innanzitutto il nascente Partito
democratico.
L'avvio della campagna elettorale conferma e rafforza questa analisi.
La riorganizzazione delle forze politiche ha il suo epicentro precisamente
nella costruzione del Pd come uno dei pilastri del nuovo quadro politico
al quale tutti i poteri forti di questo paese (e non solo) hanno lavorato
da anni.
La decisione di Veltroni di andare "libero" alle elezioni,
cioè innanzitutto di compiere una netta rottura a sinistra, non
può quindi essere letta solo in chiave tattica o elettorale.
È la conseguenza di una strategia che nasce dalle stesse fondamenta
ideologiche e di classe del Pd. Impedire che si manifesti qualsiasi
conflitto fra capitale e lavoro non significa eliminare il conflitto
di classe, significa fare sì che tale conflitto venga combattuto
solo dalla classe dominante: questa è la missione dichiarata
di Veltroni. Ridurre, cioè, la classe lavoratrice allo stato
di "classe in sé", atomizzata, frantumata, incapace
di riconoscere i propri interessi e di perseguirli attraverso la lotta
collettiva.
La sinistra e il Prc si trovano pertanto di fronte alla necessità
di definire una strategia complessiva che parta da questa nuova situazione.
Tutto ruota oggi attorno a questa discriminante fondamentale: indipendenza
di classe o subordinazione al Pd. Quelle forze che all'interno della
sinistra hanno insistito affinché Veltroni accettasse un'alleanza
in funzione anti-Berlusconi hanno dimostrato di essere organicamente
legate alla seconda di queste ipotesi, come peraltro esplicitamente
teorizzato e praticato in questi mesi, in primo luogo dal gruppo dirigente
di Sinistra democratica.
La nostra priorità in questa campagna elettorale è pertanto
quella di fare emergere con la massima chiarezza il Prc come forza non
solo autonoma, ma anche strategicamente alternativa e contrapposta al
Pd. Questo non significa che mettiamo sullo stesso piano il Pd e il
Pdl, poiché è chiaro che la lotta contro queste due forze
oggi maggioritarie non si conduce con gli stessi mezzi. La questione
vitale tuttavia è far penetrare il messaggio che il Prc rompe
il cordone ombelicale con il Partito democratico, che esiste una contrapposizione
di classe che ci divide e che di questa contrapposizione intendiamo
farci carico fino in fondo, con una battaglia di lungo periodo.
Questo implica innanzitutto un grande lavoro di ridefinizione programmatica,
che si metta alle spalle la fase precedente, dominata dalle formulazioni
volte ad essere rese accettabili e compatibili con l'impianto del centrosinistra.
Lotta alla precarietà, questione salariale, sicurezza sul lavoro,
diritti degli immigrati, delle donne, politica estera, politica economica
e sociale… su tutti questi terreni è necessario aprire
un dibattito approfondito nel partito e oltre, che rimuova le pesanti
incrostazioni "compatibiliste" che hanno progressivamente
svuotato di qualsiasi significato conflittuale le nostre parole d'ordine
in questi due anni.
In secondo luogo è necessario approfondire il solco tra la sinistra
e il Pd, ponendo in discussione il punto centrale delle alleanze locali.
Non è possibile condurre una coerente battaglia contro Veltroni
se contemporaneamente si governa assieme al Partito democratico nelle
regioni, se si sostegono candidati come Illy o Rutelli e si continua
a governare con il Pd in governi regionali come quello della Campania.
Non è un caso se nel momento stesso in cui Veltroni proclamava
l'autosufficienza del Pd rispetto alla sinistra, poneva tuttavia grande
cura nel ribadire che questo non vale a livello locale. I vertici del
Pd vogliono una sinistra schiacciata elettoralmente, relegata oggi a
opposizione nei loro calcoli ininfluente, ma pur sempre legata al Partito
democratico. I governi locali sono anche un terreno privilegiato per
la riproduzione di quell'istituzionalismo che in questi anni ha dilagato
nel partito creando le basi politiche e materiali per una linea governista
che ci ha condotti sull'orlo del precipizio.
Altro terreno fondamentale di conflitto con il Pd è quello sindacale.
Sono in campo proposte pericolosissime che puntano alla demolizione
dei contratti nazionali, a ulteriori svuotamenti della democrazia nei
luoghi di lavoro e nel sindacato, a una nuova fase concertativa paragonabile
a quella del 1992-93. Nonostante la caduta dell'Unione abbia temporaneamente
rallentato questo processo, è chiara l'intenzione di proseguire
nel percorso. Nella Cgil si sta recitando la replica di un copione già
visto mille volte, ultima quella sul protocollo del 23 luglio. Il nostro
partito si deve fare carico di una battaglia a tutto campo, investendo
il massimo delle forze, contro questa nuova controriforma che vuole
riportarci agli anni '50.
È necessaria quindi una forte mobilitazione su questi temi, che
non si faccia condizionare da false considerazioni diplomatiche nei
rapporti con gli apparati sindacali, ivi inclusi quei settori più
a sinistra, primo fra tutti il gruppo dirigente della Fiom. La firma
di un accordo negativo fra i metalmeccanici rischia di aprire un varco
al progetto di controriforma contrattuale: prolungamento della durata
del contratto da 24 a 30 mesi, accettazione di fatto della legge 30,
scambio orario-salario sono tutte pericolose crepe che favoriscono obiettivamente
l'offensiva avversaria su questo terreno. Per questo assume rilevanza
decisiva la battaglia di quei delegati che si sono impegnati a difendere
il No nell'imminente referendum nelle fabbriche. Una forte affermazione
del No è peraltro il migliore contributo che si può dare
per opporsi all'evidente tentativo di normalizzare la Fiom, che in questi
anni è stata considerata dal gruppo dirigente Cgil come il principale
ostacolo da rimuovere in vista di una nuova stagione concertativa.
Anche su questo punto decisivo la Sinistra arcobaleno è profondamente
divisa, data l'impostazione completamente subalterna del gruppo dirigente
di Sd che, come si vide in occasione del protocollo sul welfare, sottoscrive
pienamente la logica concertativa dei vertici sindacali. La divisione
che attraversa la Sinistra arcobaleno è stata confermata una
volta di più nel voto sull'indipendenza del Kosovo, frutto avvelenato
di quella guerra alla Jugoslavia che nel 1999 venne sostenuta da tre
delle quattro forze che oggi si ritrovano nell'arcobaleno.
La sfida di costruire una sinistra che dia reale rappresentanza e soprattutto
organizzazione alla classe lavoratrice passa quindi per un conflitto
all'interno della sinistra stessa, tra chi continua a proporre una sinistra
di governo, ancorata alla logica delle alleanze col Pd, e chi propone
una sinistra che si basi coerentemente e fino in fondo sulle aspirazioni
e le necessità degli sfruttati. Non una sinistra semplicemente
"autonoma" dal Pd, quindi, ma una sinistra alternativa e strategicamente
contrapposta al Pd stesso. Tra noi e Veltroni non c'è una divisione
di concezioni o di visioni, c'è una divisione di classe che dobbiamo
fare emergere in tutta la sua dirompenza.
Per questo la formula elettorale più adatta per affrontare non
solo le elezioni, ma l'insieme di questo dibattito decisivo, non è
quella della lista unica, ma è quella della coalizione, ossia
di un fronte fra diverse forze che decidendo di contrapporsi al Pd nelle
elezioni si presentano alleate ma con i propri simboli, programmi e
proposte politiche, non nascondono le proprie differenze profonde dietro
un'unità di facciata e vuota di contenuti, ma consegnano all'insieme
della militanza e del popolo della sinistra il dibattito sul futuro
della sinistra stessa nel nostro paese.
La lista unica ha sequestrato il dibattito impedendo qualsiasi reale
partecipazione dal basso alle scelte fondamentali (lista, simbolo, programma,
candidati) e consegnandolo a una ristrettissima cerchia dirigente che
si è mossa in modo platealmente autoreferenziale. Dobbiamo viceversa
batterci fino in fondo affinché la nostra base e l'insieme del
nostro popolo possano entrare da protagonisti in questo scontro dal
quale dipenderà la natura della sinistra in Italia nei prossimi
anni.
Dalla crisi di una linea sconfitta può e deve emergere una nuova
spinta, che emargini il "governismo senza governo" che ancora
si ripropone nel partito, che rimuova le macerie ingombranti dell'istituzionalismo
e dell'elettoralismo, che faccia appello alle migliori energie militanti,
al partito del 20 ottobre, al partito della conferenza operaia di Torino,
e che attinga a quelle forze per avviare un percorso di ricostruzione
nelle lotte e nell'opposizione di un Prc e di una sinistra ancorata
alle ragioni dei lavoratori e alla prospettiva anticapitalista.
Claudio Bellotti,
Alessandro Giardiello, Mario Iavazzi, Jacopo Renda