Contributo alla discussione
Non neutralizziamo
l’innovazione
Il soggetto politico della
trasformazione, il soggetto politico in trasformazione
Chiamiamola pure, per comodità,
conferenza d’organizzazione. In realtà, abbiamo un’esigenza
più radicale di fronte a noi: ripensare il soggetto politico
della trasformazione all’altezza del presente. Per ripensarlo
servono parole nuove, pratiche nuove. La discontinuità delle
parole nella continuità delle pratiche e lo scarto profondo tra
il processo di innovazione che abbiamo prodotto sul livello della cultura
politica e la sua traduzione nelle pratiche, nelle forme, nell’organizzazione,
rendono necessaria una ricerca rifondativi.
A partire da noi.
La nostra sfida in questi anni è stata la rifondazione del comunismo:
ora dobbiamo rifondare il partito, la forma-partito, le forme della
politica. Per essere soggetto politico della trasformazione non possiamo
non essere soggetto politico in trasformazione.
Le parole dell’innovazione, in questi anni, sono state lanciate
come meteore nel partito e come meteore spesso sono sparite. Ancora
una volta, nulla più della questione di genere è in grado
di svelare il rischio di neutralizzazione dell’innovazione: doppiezza
e dualismo abitano ancora questo partito, consentono ancora una radicale
scissione fra pratiche e parole, fra un resistente senso comune e le
elaborazioni ufficiali (la nonviolenza è, a tal proposito, esempio
estremamente significativo).
Questo gap -tra il dire e il fare- lungi dal riguardare solo il versante
di genere, è segnalatore di un gap strutturale più generale
del pensiero e della pratica politica che va ben oltre Rifondazione
ed investe tutti gli aspetti della politica. Non a caso l’assunzione
della differenza di genere come nodo ineludibile per un reale processo
di rifondazione, per una reale possibilità di trasformazione,
per superare la crisi della politica riconnettendo politica e vita,
si è affermata solo nelle tesi congressuali del partito, non
nel partito. Essa continua, nella migliore delle ipotesi, ad essere
nominata come una “cultura critica” assieme alle altre:
a noi piace nominarla, invece, come un movimento reale, che non si dà
senza soggettività delle donne, che non può ancora trasformare
senza conflitto, che chiama in causa la necessità di una nuova
modalità di relazione tra i generi, che interroga ciascuna e
ciascuno di noi.
Nessuna ignora la complessità della sfida rifondativa, né
quanto la crisi della politica che attraversa il nostro tempo non risparmi
certamente noi. Ma va detto che quell’approccio analitico promettente
che ha ispirato il nostro agire politico, si infrange continuamente
contro la realtà di un partito ancora prepotentemente a misura
maschile. Un partito in cui vediamo riprodursi, in certi casi ingigantirsi,
soprattutto nei territori, le stesse dinamiche dei rapporti sessuali
di potere che sono nella società. Nel quale tante delle nostre
elaborazioni e pratiche rischiano di essere ridotte a slogan vuoti buoni
magari per una sola stagione e poi disinvoltamente accantonate. Altre
ancora stravolte nel loro significato originario una volta assunte dal
maschile, cannibalizzate. E’ solo un esempio, ma emblematico,
la democrazia di genere -sulla cui importanza e sul cui senso politico
profondo abbiamo speso fiumi di parole- neutralizzata e ridotta a questione
di quote, o peggio ancora tradotta in pratica di cooptazione di donne
da parte dei gruppi di potere. Quante volte- nei corridoi- abbiamo sentito
dire “serve una donna”, per rendere presentabili sfilate
di maschi? Serve una donna “indifferentemente” dalla sua
cultura politica. Serve una donna perché nulla cambi?
La critica del potere: per
un’analisi delle relazioni fra noi
Quando pensi di dover prendere il potere per cambiare è molto
probabile che sia il potere ad averti cambiato. La critica del potere
è per noi anche rifiuto di ogni dinamica sostitutiva: l’inclusione,
doverosa, di compagne negli organismi dirigenti del partito non può
garantire -non ha garantito- un reale processo di trasformazione senza
che mutino le modalità di individuazione dei “gruppi dirigenti”
e di elaborazione delle decisioni. In questi anni i luoghi “statutari”
tradizionali della democrazia del partito si sono progressivamente svuotati.
Sia per la scelta condivisa di rompere ritualità e rigidità
nel rapporto con i movimenti, sia per l’incapacità di gestire
le differenze al nostro interno arrivando così ad una balcanizzazione
della discussione, ad una lottizzazione della gestione delle responsabilità
e del potere. L’appartenenza torna a prevalere sulla politica,
sulla possibilità che il partito sia un luogo collettivo di crescita
intellettuale e socializzazione della discussione. Si è sviluppata
una forma degenerata e quasi farsesca di “centralismi democratici”
che si confrontano, meglio, si “contano” nelle sedi di discussione,
rese sempre più sterili dalla logica degli schieramenti.
Un elemento che ancora più radicalmente ci interroga a partire
dalla critica del potere è la connessione fra personale e politico.
Il potere non è solo una posizione, un ruolo: la sua pervasività
passa attraverso le relazioni, anche in quelle fra compagne e compagni.
Le relazioni incarnate sono le uniche attraverso cui è possibile
misurare quanto la costruzione di un soggetto politico che si prefigge
di coniugare uguaglianza e libertà sia anche luogo della liberazione
per le singolarità qui ed ora. Occorre dunque ripensare la politica
attraverso i corpi.
Il movimento delle donne ha costruito politica sulle relazioni in quanto
luoghi di liberazione e trasformazione, non di potere. E’ invece
proprio attraverso l’informalità delle relazioni, quando
sono senza reciprocità né responsabilità, che passa
oggi un impoverimento e non una crescita della dimensione collettiva,
uno svuotamento dei luoghi della decisione. L’”informalità”
è naufragata in arbitrarietà lasciando spazio a logiche
claniche maschili di potere interne. L’imbarbarimento della politica
e delle relazioni sono le conseguenze nefaste immediate di tali pratiche,
e la diffidenza e ostilità nei confronti della parte femminile
–parte femminile come “genere politico”- nei luoghi
decisionali e di partecipazione, continuano ad essere elementi costitutivi
anche in presenza di una crescita numerica e politica di donne con ruoli
di responsabilità.
La crisi della democrazia riguarda anche noi.
Il comunismo non è
un’identità
Il comunismo non è un’identità né un’appartenza,
ma un processo di trasformazione molecolare che ci attraversa intrecciando
la costruzione di percorsi di liberazione alla esposizione, alla contaminazione
con l’altra e l’altro.
Ancora oggi, alle soglie della conferenza e nel pieno della costruzione
della sinistra europea, il partito sembra invece abitato dalla convivenza
di vecchie e nuove mitologie, vecchie e nuove identità, attraversato
da tendenze parallele e convergenti: quella all’autoconservazione
e quella al superamento di sé verso una “cosa nuova”,
definita solo per negazione.
Fare i conti con il Novecento è stata per noi femministe precondizione
dell’innovazione, sforzandoci di tenere la barra ferma sulle acquisizioni
più alte, le esperienze di lotta più avanzate che il secolo
scorso ci ha consegnato: il movimento operaio e il movimento delle donne.
Lettura di classe e lettura di genere erano e restano dunque due dispositivi
interpretativi necessari per cogliere la complessità del presente,
orientarvisi, illuminare possibili percorsi di liberazione umana, ancora
oggi.
Abbiamo avuto il coraggio di riattraversare criticamente il nostro passato
di comuniste e comunisti, facendo i conti innanzitutto con noi stesse/i,
partendo cioè da noi per comprendere i limiti di cultura politica
e di pratiche che abbiamo espresso: dall’idea della rivoluzione
come presa del potere allo statalismo, all’economicismo, al lavorismo,
ai nazionalismi, al militarismo dei corpi e delle menti, e ancora alla
scissione tra politica e società, personale e politico, teoria
e pratica, uguaglianza e differenza, soggetto e oggetto della trasformazione.
Abbiamo portato nel partito l’esperienza del movimento delle donne,
le nostre pratiche femministe, la disobbedienza, la pratica della relazione
e della contaminazione tra dentro e fuori, la nonviolenza come elaborazione
dei conflitti e attraversamento non buonista e non pacificato della
polarità amico/nemico, ma soprattutto quella rivoluzione copernicana
del partire da sé che è stata la leva potente.
E proprio a partire da questi percorsi di libertà femminile,
che per essere autenticamente tali devono rompere con le forme di dominio
maschile, poniamo il problema di una moderna ricerca laica. Una ricerca
a cui il nostro partito non può sottrarsi. La laicità
non è un contenuto, ma l’unico spazio in cui si possono
costruire percorsi di autodeterminazione, in cui si possono dare la
ricerca di una nuova etica pubblica e una rinnovata capacità
della politica di relazionarsi alle vite e ai corpi oltre la legge,
senza pretese normative e disciplinanti, per rimettere i corpi al centro
della politica. Oggi invece teocon e teodem tendono a voler ricollocare
il corpo nello spazio del sacro, cioè a volerlo sottrarre alla
politica. La portata alternativa del progetto di rifondazione non può
che misurarsi anche dalla capacità di resistenza alla sottrazione
da questa tendenza.
Uscire da sé senza
perdersi
Fluire e restare radicate, come diceva Virginia Woolf. Solo un radicale
riattraversamento critico della storia del comunismo ci permette di
restare radicate in quella storia e di fluire, di esporci alle relazioni,
al “fuori” senza perderci, senza alcuna “ansia di
scioglimento”. Essere fluidi senza affogare nella liquidità
postmoderna, senza cedere al rischio di una deriva culturalista che
giustapponga tutte le differenze eludendo il problema della trasformazione,
della contraddizione, del conflitto. E’ questa l’altra faccia
della nostra sfida: l’innovazione. Quella sfida ancora tutta davanti
a noi, di saper portare la critica fin dentro il cuore delle nostre
storie politiche e personali, mettersi in gioco, non provare nostalgie
per le “rigidità” e le certezze del passato ma la
curiosità di attraversare la “fluidità” del
presente senza disperdervisi. Senza affogare nella liquidità.
Per far questo però, per restare radicate/i, abbiamo bisogno
di rimettere al centro parole di senso per il nostro agire politico.
Parole come disobbedienza, contaminazione, radicalità. Parole
come innovazione e rifondazione, come autonomia, per provare ancora
una volta a declinarle, con forza maggiore oggi, nella complessa fase
politica che si è aperta.
Ma soprattutto abbiamo bisogno che le parole trovino una rispondenza
nelle pratiche.
Proposte per la sinistra
europea e la conferenza d’organizzazione.
Sentiamo una strettissima connessione fra l’esigenza di rifondare
il soggetto politico, di sottoporre a critica radicale la forma partito
e la costruzione della sinistra europea. La sinistra europea non può
darsi in alcun modo come mero coordinamento delle realtà già
esistenti su scala europea o come allargamento di Rifondazione comunista
in Italia. Desideriamo mettere a tema, ad esempio, la differenza a volte
notevolissima (come abbiamo potuto constatare ancora una volta con particolare
evidenza sulla questione di genere) tra le culture politiche dei partiti
della SE, non sempre attraversati, per usare un eufemismo, da percorsi
di innovazione. E ancora, porre l’accento sulle difficoltà
che comporterà la costruzione della SE in Italia. che non solo
appartengono, come è ovvio, al ceto politico, ma anche a un ceto
politico non attraversato dall’innovazione. Non ci sentiamo affatto
la sezione italiana della Sinistra Europea, ma il cuore e il motore
di un processo di innovazione che morirà se confinato “in
un solo paese” o in un solo partito.
Pensiamo di contribuire alla costruzione della Sinistra Europea attraverso
la costruzione di una rete femminista, di uno spazio di elaborazione
aperto e orizzontale. Una rete a cui si aderirà singolarmente,
per adesione individuale ad un progetto politico.
Ci sembra questo un modo per sciogliere le appartenenze (un soggetto
politico non può essere un mero contenitore) e al contempo rafforzare
quelle relazioni che in questi anni molte di noi hanno costruito, nella
pratica del dentro/fuori e del reciproco attraversamento, col movimento
delle donne.
La conferenza d’organizzazione è quindi una occasione importante
per riaprire la discussione su chi siamo, o meglio su che cosa siamo
diventati/e, su che cosa vogliamo essere. Da un punto di certezza partiamo
senza dubbio: rifondazione comunista non è diventata una impresa
di donne e uomini. Ancora non lo è, come sta a dimostrare la
necessità, giustamente sentita dal gruppo dirigente nazionale,
di “riequilibrare“ la presenza degli “attori”
con l’aggiunta doverosa di una parte femminile altrimenti non
compresa in una platea di dirigenti – segretari di circolo, di
federazione, eccetera- composta quasi esclusivamente da uomini.
Proponiamo questo documento
alla riflessione delle compagne e dei compagni come contributo alla
discussione.
Ci impegniamo a promuovere entro il mese di gennaio una assemblea larga
di donne che discuta della presenza femminile alla conferenza di organizzazione
e per sviluppare tra noi forme di autorganizzazione e di responsabilità
femminile condivisa.
Imma Barbarossa, Elettra
Deiana, Eleonora Forenza, Linda Santilli