Comitato Politico Nazionale
25 - 26 ottobre 2003
Presentato da Luigi Izzo, Anna Ceprano, Pasquale D’Angelo
Il documento respinto
La gravità della fase storica e politica che stiamo attraversando
ci impone una discussione assolutamente franca e propositiva, che coinvolga
tutti gli iscritti, tale da permetterci di uscire dalla crisi politica
e organizzativa che attraversa il partito per affrontare con un concreto
piano di lavoro i compiti gravosi che ci attendono al di fuori di esso,
nel Paese e tra le masse.
Lo stato di crisi del partito è la conseguenza della linea politica
fallimentare perseguita in questi anni e culminata nella deriva dell’ultimo
congresso nazionale, in cui si è sostanzialmente giunti alla consacrazione
di un Prc come partito d’opinione, che visti i risultati del referendum
e delle ultime tornate elettorali non paga.
Di fronte all’azzeramento dell’iniziativa e della partecipazione
del corpo vivo del partito e dei suoi organismi dirigenti occorre costruire
le condizioni affinché la base tutta possa discutere apertamente
e democraticamente del proprio futuro e della propria identità,
rilanciando dal basso, dal lavoro sui territori e sui luoghi di lavoro,
un reale protagonismo del Prc.
L’abbandono della militanza dei compagni in Rifondazione è
decisamente incoraggiato dal fatto che non si mette a regime un programma
politico coerente e chiaro che ne rimotivi l’attivismo politico:
nel lassismo e nella perdita di memoria, infatti, è più facile
far passare svolte storiche, quale è una “Bolognina di Rifondazione”.
La scelta di impiegare le poche forze del partito per la crescita del
cosiddetto “movimento dei movimenti” (movimento autoreferenziale),
ha portato non solo allo svuotamento dei circoli e alla paralisi della
proposta e, di conseguenza, dell’azione politica ma non ha pagato
neppure sul fronte elettorale in quanto le anime che hanno dato vita
alla breve stagione dei no-global prima e del movimento contro la guerra
dopo hanno premiato e votato la sinistra moderata e liberale (dai Verdi
ai Ds), e non Rifondazione, confermando di avere valori e punti di riferimento
diversi.
Siamo di fronte ad una operazione sterile ed istituzionalista che aprirà
uno spiraglio solo all’empasse politica di una parte considerevole
dell’Ulivo, che intende riciclarsi nella costruzione di questo
nuovo e allargato partito riformista, che ha bisogno di una sponda,
che noi gli stiamo offrendo, per costruire basi solide.
L’alleanza con l’Ulivo che si realizza nelle sale del potere,
lontano dai luoghi veri del conflitto sociale, servirà soprattutto
ai Ds e al centro moderato ma non porterà niente di buono ai lavoratori
o agli aspiranti tali.
Come si fa ad invocare la costruzione del movimento e di una sinistra
di alternativa e contemporaneamente a realizzare un accordo politico-programmatico
proprio con quei soggetti politici che sono ormai riconosciuti dagli
stessi lavoratori, dagli studenti, dai pensionati come il nemico di
classe.
Quali sono i contenuti e, dunque, la prospettiva che accomunano Rifondazione
con l’Ulivo di Prodi e D’Alema?
Con il riaffacciarsi di aperture e di identificazioni con le nuove forme
del panorama ulivista in costruzione, corriamo il rischio di fare solo
l’ala critica, oltretutto in concorrenza con il correntone ulivista.
E se vi si aggiungono le diluizioni già in corso rispetto alla
forma partito e alle dimensioni organizzative e di lotta, non risulterebbe
irrealistico per il Prc il rischio di rimanere invischiato in dimensioni
di “non ritorno” per la nostra identità alternativa,
per il carattere della diversità comunista e per la nostra stessa
autonomia.
La contraddizione del partito è evidente ed è piena di drammatiche
conseguenze, tanto quanto lo fu, a suo tempo, la scelta dell’organicità
al governo liberista, antipopolare e classista di Prodi, nel 1996.
L’Ulivo, infatti, oggi riconferma quella impostazione e quella
prospettiva strategica e ripropone gli assi portanti di quella stagione
politica che ha tartassato e impoverito il Paese, spostando anche parte
dell’elettorato di riferimento della sinistra a destra e che ha
permesso al successivo governo Berlusconi di agire incontrastato, indisturbato
per i suoi interessi personali e di classe.
Non a caso Fassino, nel suo comizio di chiusura alla Festa nazionale
dell’Unità, ha precisato che solo loro sono in grado di
portare a compimento quelle riforme che l’attuale governo non
è in grado di compiere e nel suo libro autobiografico, con buona
pace della scala mobile, assolve e santifica Craxi e il suo modello
“culturale”.
Chi, infatti, meglio del centrosinistra, quando ha governato, ha saputo
pacificare, sedare il conflitto sociale e di piazza e manovrare, “riformare”
indisturbato.
La storia non ci ha insegnato nulla, neppure che se non si argina si
ripete, tanto che già si prefigura da parte della Cgil un ritorno
all’unità sindacale con la Cisl di Pezzotta e del Patto
per l’Italia, in una prospettiva più lunga che per la battaglia
sulla riforma delle pensioni.
Fra l’altro, il Prc si muove nell’accelerazione della definizione
di un patto di sangue col centrosinistra ancora più sciagurato di quello
precedente.
Questa volta, non si tratta di un’alleanza tecnica ma di un vero
e proprio accordo politico-programmatico, di una condivisione, quindi,
di prospettiva che ripropone cosÏ l’illusione della possibilità
di fare le riforme da cui i comunisti dovrebbero liberare non solo gli
altri ma anche se stessi.
Si dovrebbe avere il coraggio di dire che in una fase di recessione
economica margini per riforme non ce ne sono, e che non bastano le esercitazioni
letterarie, di buoni propositi o di magnifica eloquenza per costruire
una alternativa di sistema: occorrono i lavoratori, la classe operaia
che in questi anni abbiamo perso di vista.
La strada che abbiamo imboccato, e che continuiamo a perseguire, non
è quella dell’alternativa a questo governo o ad ogni governo
del capitale ma quella dell’alternanza di un potere che è
sempre lo stesso, di una gestione subalterna agli interessi borghesi
contro quelli delle masse proletarie.
Abbiamo già dimenticato, evidentemente, che il governo Prodi
nel ’96 è stato l’artefice delle più grandi privatizzazioni
della storia del nostro Paese, introducendo cosÏ la pratica dello
Stato-azienda.
Abbiamo dimenticato che Prodi è stato il baluardo di Maastricht,
dove il primato della merce ha prevalso sul diritto degli uomini, soprattutto
sul diritto degli ultimi della terra e abbiamo pure dimenticato che
per realizzare l’Europa dei banchieri e del capitale abbiamo votato
anche noi la Finanziaria “lacrime e sangue”.
Abbiamo dimenticato che quel governo ha iniziato l’attacco allo
Statuto dei lavoratori ed ha varato il pacchetto Treu (che noi abbiamo
votato), che ha riportato indietro di trenta anni le conquiste dei lavoratori
e del movimento operaio, istituzionalizzando il lavoro nero, precario
e flessibile, riportando le gabbie salariali al Sud e spacciando il
tutto per modernizzazione del mercato del lavoro.
Abbiamo dimenticato la Turco-Napolitano (che noi abbiamo votato), una
legge xenofoba e razzista, che ha introdotto i flussi controllati di
migranti e i campi-lager.
Abbiamo dimenticato il successivo governo D’Alema e il Kosovo
e l’Afganistan; abbiamo dimenticato che il piano per le pensioni
del governo Berlusconi è il completamento della riforma Dini sulla
previdenza.
In particolare, abbiamo immediatamente rimosso, visto che i fatti sono
accaduti solo a giugno del 2003, che questo comitato di affari al quale
intendiamo unirci è quello che ci ha silurato nel voto al referendum
sull’estensione dell’art.18, che si è astenuto su una
battaglia fondamentale che passa sulla pelle dei lavoratori e che apre
la via all’espulsione del sindacato dai luoghi di lavoro, nega
la possibilità dei lavoratori di autorganizzarsi per tutelarsi.
A nulla vale l’abrogazione della L.30/03 o dell’848 bis,
se non si cancellano pure il pacchetto Treu, la 223/91 sulla mobilità,
la 142/01 sul socio lavoratore (dove l’art.18 è già
stato cancellato), e tutte le leggi pregresse sulla precarietà
nei rapporti di lavoro.
Non serve cancellare la Bossi-Fini se non si cancella la Turco-Napolitano
e tutte le leggi già esistenti sul problema dei migranti.
E’ oltremodo incredibile che il Prc usi le stesse espressioni
propagandistiche del ’96 per suffragare la necessità di
stringersi in questo funereo abbraccio, parlando di “nuovo modello
di sviluppo” o di “compromesso sociale dinamico” per
abbattere le destre.
La destra di Berlusconi-Bossi-Fini non si abbatte diventando la costola
di una destra altrettanto feroce perché vassalla dello stesso
potere economico.
Abbiamo dimenticato quanto sa essere repressivo il governo di centrosinistra:
Napoli 2001, una data per tutte.
Addirittura si dice che noi condizioneremo questa coalizione: sicuramente
come abbiamo condizionato il governo Prodi che ci aveva promesso una
Conferenza sul lavoro in cambio della nostra condiscendenza e della
rinuncia alla battaglia sulle 35 ore, e neppure quella ci ha dato.
E dire che noi abbiamo dato una bella dote in cambio: trenta anni di
lotte e di conquiste del movimento operaio.
Anche la riforma della Costituzione è nei pensieri dell’Ulivo,
con la scusa che va aggiornata; e il sistema elettorale che ancora sostiene,
nonostante l’evidente fallimento, è quello maggioritario
e presidenzialista.
E l’Ulivo revisionista lo abbiamo dimenticato quando Violante
per primo riabilita i “patrioti” della Repubblica di SalÚ,
infamando cosÏ il sangue dei partigiani morti per la libertà
e per un’Italia democratica.
La questione della partecipazione al governo dell’Ulivo è
dirimente poiché segna il confronto tra marxismo e riformismo,
confronto che il Prc ha risolto recidendo le proprie radici e liquidando
il tema identitario e il problema della rifondazione comunista.
Un partito comunista ha il dovere di porsi, avanti a qualunque altra
cosa, il problema delle condizioni di vita e di lavoro delle masse,
deve tenere conto innanzitutto delle conseguenze che ogni sua sciagurata
scelta avrà sul movimento dei lavoratori, deve riconoscere quanto
sia importante un punto di riferimento politico in un luogo di lavoro,
altrimenti le potenzialità sono deboli e la sconfitta sul fronte
delle rivendicazioni inevitabile.
E’ dalle elezioni politiche del 1994 che continuiamo a confrontarci
con il centrosinistra e ad ogni accordo è corrisposto una sconfitta
dei lavoratori: avanti di questo passo sarà sempre più difficile
riconquistarne la fiducia e ridare forza ai loro diritti.
E’ per questo che il Prc deve riconquistare un’autonomia
programmatica, in modo da potersi candidare all’egemonia, una
parola che è diventata una bestemmia in Rifondazione, egemonia
del movimento operaio per una vera alternativa di società e di
potere.
Ma la subalternità è diventata una componente essenziale
e una condizione naturale per il nostro partito: da una parte la subalternità
alla sinistra liberale e al centro moderato, dall’altra la subalternità
al movimento no global.
A forza di farci contaminare abbiamo perso la nostra identità
e il nostro radicamento, abbiamo distrutto quel poco di impalcatura
organizzativa che il partito ancora poteva vantare, tanto che oggi non
siamo stati in grado di svolgere la nostra tradizionale manifestazione
nazionale di settembre.
La vicenda dell’annullamento della manifestazione (deciso da chi?),
che il Cpn di giugno aveva fissato per il 27 settembre (la scelta di
questa data per la nostra Assemblea Nazionale non è causale), è
deprecabile nel metodo, in quanto si esautorano gli organismi del partito
e perché si mantiene viva la tradizione burocratica degli anni
più oscuri della nostra storia di comunisti e nel merito, perché
non si tiene minimamente conto della gravità della fase politica
attuale e della necessità di una manifestazione contro il governo
Berlusconi.
In una fase in cui la tensione politica delle cosiddette opposizioni
è praticamente nulla, in cui l’opposizione di piazza è
inesistente, annullare un appuntamento di lotta è pura follia,
soprattutto perché in questo Paese ormai non sono a rischio solo
i residui di quello che una volta era lo Stato sociale ma, addirittura,
la democrazia, visti i segni palesi di un rinnovato autoritarismo.
Questo è il rinnovamento del Prc: l’attuazione progressiva
e sistematica di una linea politica fallimentare, grazie alla quale
stiamo chiudendo i circoli, non siamo più radicati nei territori e nei
luoghi di lavoro, non cresciamo elettoralmente e non siamo neanche più
in grado di fare una manifestazione.
Occorre un programma che rappresenti i bisogni reali, concreti delle
masse oppresse di riferimento e occorre soprattutto a Rifondazione per
continuare a vivere e per ricominciare a crescere e a svolgere la funzione
politica per la quale è nata.
Al Prc, mai come in questa fase, occorre finalmente una scelta di classe
ma prima di tutto occorre mettere mano alla rifondazione di un vero
Partito Comunista.
Già si annuncia il tentativo di ingabbiare il dibattito nelle
conferenze organizzative, che serviranno solo a riposizionamenti interni,
per regolare vecchi e nuovi conti, sistemare uomini in posti strategici.
Occorre, invece, che il corpo del partito possa avere la consapevolezza
del percorso tracciato e la possibilità di scegliere.
Ecco perché è necessario organizzare iniziative, assemblee
ovunque, e riportare la discussione e il confronto in questo partito
e tal fine dobbiamo aprire una stagione di lavoro politico intenso dentro
e fuori il partito.
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