Comitato Politico Nazionale Relazione introduttiva di Fausto Bertinotti Care compagne e cari compagni, abbiamo una discussione complessa da fare nel nostro Comitato politico nazionale. Infatti abbiamo diversi problemi e dobbiamo trovare il filo che li unisce. Di fronte a noi vi è una sfida importante, quella di far crescere la nostra proposta politica. Dobbiamo, a questo fine, esaltare le migliori caratteristiche che sono emerse in quest'ultima fase di lavoro del nostro partito e nello stesso tempo riuscire ad eliminare quegli elementi di debolezza che pure ci sono e che ci impediscono di raggiungere pienamente i nostri obiettivi. In ogni caso il bilancio del nostro lavoro di questi mesi è importante e positivo. Ora entriamo in una fase impegnativa, dove è importante in primo luogo capire cosa cambia e che cosa resta rispetto alla fase precedente. La nostra nuova sfida La sfida che abbiamo di fronte può essere così sommariamente riassunta: «Come riusciamo a realizzare dei risultati che possono rappresentare un elemento di contraddizione rispetto alle tendenze prevalenti nel quadro sociale, economico e politico?». In altre parole, come facciamo ad introdurre dei cunei, dei granelli di sabbia nell'ingranaggio del neoliberismo e della guerra? Se non riusciamo a fare questo gli stessi movimenti vengono risucchiati dalla e nella logica dell'alternanza. Si
tratta di un problema strategico, infatti, dobbiamo individuare i nostri
giusti obiettivi. La nostra analisi sulla globalizzazione ha ricevuto
una conferma non sospetta: mi riferisco al giudizio che abbiamo dato sulla
progressiva e rapida cancellazione di ipotesi e di spazi riformistici.
Giorgio Ruffolo, che è stato indubbiamente uno dei teorici del
moderno e più avanzato riformismo, ha recentemente spiegato il
totale spiazzamento dell'ipotesi riformista. Ma dobbiamo prestare molta
attenzione, infatti questo spiazzamento riguarda anche noi. Infatti anche
per realizzare obiettivi parziali bisogna concorrere a cambiare i rapporti
generali. Vi è oggi una particolare ed inedita connessione tra
obiettivi generali e particolari. Quindi se le logiche della globalizzazione
stringono gli spazi di cambiamento anche parziali in un angolo, pure noi
ne siamo vittime. Lo abbiamo verificato in occasione della grande battaglia sul referendum per l'estensione della tutela reale dei licenziamenti nelle imprese minori e per la libertà del cittadino rispetto al passaggio di cavi e di strumentazioni elettriche responsabili di onde elettromagnetiche che mettono a grave repentaglio la salute delle popolazioni. Noi avevamo e nutrivamo un'ambizione allo stesso tempo alta e realistica, quella di poter vincere. Lo dimostra la nostra stessa severità di giudizio, una volta conosciuto l'esito definitivo. Essa derivava dal fatto che noi non consideravamo quella battaglia come una semplice occasione per acquistare degli spazi politici in più. Noi pensavamo ad una possibile espansione dei diritti sociali. Per questo, quando non l'abbiamo ottenuta, abbiamo riconosciuto di aver subito una vera e propria sconfitta. Come mai, domandiamoci, si è realizzato un così ampio scarto nell'opinione diffusa, anche tra di noi, tra l'esito atteso ed il risultato effettivo del referendum. Sarebbe sciocco nascondere che tutti pensavamo ad un risultato migliore, anche se non il raggiungimento pieno del quorum. Sia chiaro, dico questo ribadendo che, per parafrasare un'antica espressione, «è morto il referendum, viva il referendum». Infatti, il rapporto tra lavoro e diritti rimane il centro del problema. Abbiamo saputo in questa campagna riproporre il tema del lavoro, non solo attraverso pratiche tradizionali, come lo sciopero, ma anche in modo innovativo. Dobbiamo
riprovarci. Proprio per questo dobbiamo sapere le ragioni della nostra
sconfitta. E' stata assai diversa dalla sconfitta subita in occasione
del referendum sulla scala mobile nel 1984. Quella segnava la fine di
un ciclo delle grandi lotte dell'autunno caldo e si inseriva in una lotta
difensiva. Qui siamo in una fase diversa: la ricostruzione della criticità
e della pratica del conflitto. Vi sono delle ragioni specifiche di questa sconfitta, che risiedono essenzialmente in un'incapacità di egemonia. Non siamo riusciti, pur partendo da una lotta giusta - che alludeva a un problema generale di giustizia sociale - ad andare oltre. La geografia del voto è per così dire classica, addirittura rappresenta un'eredità. E' un voto diverso da quello delle amministrative, perché vi è una maggiore connotazione sociale. Ma tuttavia non vi è stata una capacità espansiva, a differenza della questione della guerra, dove è sceso in campo un amplissimo popolo della pace. Anche in quel caso il grande movimento non è riuscito a fermare concretamente l'inizio della fase bellica, ma indubbiamente ha segnato un approfondimento diffuso della coscienza pacifista. Ora
noi siamo chiamati a salvare il patrimonio del referendum. Ha indubbiamente
pesato su questo esito negativo la sconfitta che il movimento operaio
ha subito nei recenti decenni e l'oscuramento stesso del tema del lavoro.
In questo modo è difficile per tutti diventare protagonisti partendo
da un tema squisitamente sociale come questo. Tuttavia noi abbiamo seminato
bene, non solo perché abbiamo ottenuto dieci milioni e mezzo di
Sì, ma perché abbiamo raccolto attorno a questo obiettivo
un insieme di forze politiche che può essere importante per la
fase successiva. Nelle elezioni amministrative abbiamo verificato il manifestarsi di uno scontro tra il governo, e le forze che lo sostengono, e il resto del paese. Non si tratta di una vera e propria crisi, ma certamente di una evidente incrinatura. In questo quadro le forze di opposizione hanno assunto una maggiore credibilità. A questo risultato ha concorso in modo determinante la crescita dei movimenti ed in particolare quello sulla pace. Il nostro partito ha complessivamente "tenuto" in questa prova elettorale, registrando anche crescite significative a Roma e in Friuli Venezia Giulia, dove la prova elettorale assumeva di più le caratteristiche di un voto di opinione politica. Si
è registrata una difficoltà anche perché la logica
del sistema elettorale maggioritario ha "lavorato" nella mente
delle persone ed ha determinato nuovi atteggiamenti. In conseguenza di
ciò, dove siamo andati da soli - anche quando la responsabilità
era tutt'altro che nostra - abbiamo subito dei pesanti ridimensionamenti.
Riflettiamo a fondo, in modo analitico e differenziato, come conviene
fare, sulle cause di questi. Rispetto alle amministrative le previsioni
che facevamo si sono rivelate assai più vicine al risultato effettivo
che non nel caso del referendum. Tuttavia, restano delle domande che non
possono e non devono essere evitate. Che cosa frena un nostro salto quantitativo
anche sul terreno elettorale? Che cosa frena la costruzione della sinistra
alternativa? Propongo dei punti di riflessione. Primo. Noi
siamo chiamati ad un lavoro di indagine profonda dei nuovi caratteri della
questione sociale. Noi non ci troviamo come ai tempi del ciclo degli anni
Settanta e questa ipotesi non può riverificarsi. Allora eravamo
di fronte ad una lunghissima accumulazione di forze e di coscienze, ad
una ramificazione dei movimenti, ad una centralità dei luoghi di
lavoro e di studio, ad una costruzione di centri di contropotere all'interno
di una generale crescita economica e sociale del paese. Dobbiamo
ragionare sulla dinamica dei movimenti e non solo sulla loro natura. Insieme
alla sua forza dobbiamo vedere i limiti del movimento. Nello stesso tempo
non possiamo guardare a questi ultimi con gli stessi occhi con cui guardavamo
al movimento operaio tradizionale. Dobbiamo
riflettere sul sistema istituzionale. Quello dominato dall'alternanza
tende ad impedire la produzione di alternativa. Noi dobbiamo mettere l'accento
sui risultati che abbiamo ottenuto nella battaglia sociale come base per
la costruzione dell'alternativa. Nello stesso tempo questa va costruita
attraversando il sistema dell'alternanza, però mettendolo radicalmente
in discussione. Proprio per questo la dimensione europea della costruzione
di una forza della sinistra di alternativa, è assolutamente indispensabile. Dobbiamo
domandarci quale è lo stato del nostro partito. Su questo argomento
vi è stata nella scorsa Direzione una relazione di Francesco Ferrara
molto apprezzata. In sintesi posso dire che noi permaniamo dentro la crisi
della politica. In questo modo il rischio è che il "morto",
cioè il vecchio modo di pensare e di agire in politica, rischi
di mangiarsi il "vivo", cioè le esperienze innovative.
Vi è il pericolo che ci si limiti ad una risposta passiva a quanto
accade; che continui una separazione tra la politica e i movimenti, grazie
alla quale il sistema dell'alternanza resterebbe l'unico quadro politico
di riferimento. La
percezione da cui dobbiamo muovere è che questo quadro sia totalmente
instabile. Infatti, nel corso stesso della battaglia referendaria abbiamo
ottenuto uno spostamento di forze, e la scelta della Cgil e dell'Arci
di autonomizzazione cambia la base sociale dello stesso centrosinistra.
Proprio per questo l'avere perduto il referendum non lascia la situazione
né peggio né come prima, ma ci consegna importanti elementi
da inserire in una rete per avviare un diverso processo socio-politico.
Caratterialmente non sono affatto lontano dall'idea della "mossa
del cavallo", cioè di un'azione che spiazza completamente
l'avversario sul terreno politico. Ma in questa fase essa non è
possibile né necessaria; sarebbe un artifizio. Bisogna invece avviare
un processo profondo, dentro un nuovo quadro mondiale. A questo proposito, anche se ne parlo velocemente, non dobbiamo perdere di vista il ruolo della guerra nel nuovo quadro imperiale. Assistiamo alla organizzazione di società post-democratiche in tutto l’occidente. In Europa, il tema della Convenzione, in vista di una Costituzione europea, è assai rilevante. Lo dico un po’ frettolosamente, ma mi pare che vi sia da parte della maggioranza dei governi la ricerca di un’Europa a diversità semplicemente compatibile con gli Usa. Infatti se guardiamo a ciò che si legge direttamente o ciò che si sa indirettamente dei lavori della Convenzione; oppure se si guarda alla proposta di una sorta di Maastricht contro le pensioni ed il welfare state, o se si pensa alle posizioni espresse da Solana sulla difesa, si ha un quadro che profila un esito per noi disastroso della costruzione europea. Per
questo penso che dobbiamo mantenere un’asse radicale di critica
ai lavori della Convenzione, ed un punto di vista ben diverso sul tema
della difesa europea. L’Italia, in questo quadro, conserva una sua specificità. Vi è infatti un carattere particolare delle destre nel nostro paese, che puntano direttamente ad una americanizzazione della nostra società. Dobbiamo valutare bene l’aggressione in atto ai diritti nella società, alle comunicazioni di massa, ad un modello sociale da cui si vuole espungere per sempre il conflitto, al sistema di regole, ormai smantellato, nel mercato del lavoro. La questione delle pensioni assume oggi il valore di una tematica continentale, che ha come base il processo di precarizzazione generale di tutte le figure sociali. Siamo di fronte a una crisi del capitalismo italiano. Personalmente ho sempre guardato con fastidio alle vecchie teorie sull’arretratezza del capitalismo italiano, che servirono come giustificazione ideologica del patto tra i produttori. Ma ora siamo davvero ad un declino del capitalismo nazionale. L’esempio più clamoroso è il rischio di fallimento - siamo assolutamente d’accordo con la Fiom - che corre la Fiat. Il capitalismo italiano dà una risposta molto bassa al tema della competitività internazionale, basata sulla ricerca di un basso costo del lavoro e dello smantellamento dei diritti. Per così dire siamo di fronte ad una “nordestizzazione” del modello sociale, e il Sud rappresenta purtroppo un laboratorio per questo tentativo. Un altro esempio ci giunge dalla questione dell’immigrazione. Il recente dibattito alla Camera è stato a questo riguardo indicativo. La Lega ha operato un pieno recupero delle teorie delle nuove destre europee; ha puntato su un elemento squisitamente identitario; ha visto nell’immigrato il nuovo vettore di una sorta di neo-illuminismo, cioè dell’idea di una cittadinanza universale. A questo si è contrapposta la difesa delle culture autoctone. Si badi bene, ma questa è la base ideologica di una moderna guerra civile. Pisanu, per conto del governo, ha risposto in nome della razionalizzazione e della ristrutturazione capitalistica, in base alle quali i lavoratori extracomunitari sono indispensabili, purché non abbiano effettivi diritti di cittadinanza; esattamente come in America. Noi
dobbiamo battere la xenofobia, ma anche guardare con preoccupazione alla
convergenza delle tesi del centrosinistra nei confronti di quelle di Pisanu. Il governo pensava a una crescita del Pil del 3,5 per cento, ora siamo, sì e no, allo 0,3 per cento. Poiché la crescita economica effettiva è irrealistica, il governo pensa ad avviare una spesa pubblica devastante per il territorio. L’ultimo esempio ci viene dato dalla questione energetica: la mancanza di risposta alle esigenze dei consumi viene data da un’ipotesi di rilancio del nucleare e delle grandi centrali a carbone. Dobbiamo concepire il tema della precarietà come il paradigma centrale di una nuova costruzione sociale, allo stesso modo come la parcellizzazione lo fu nell’organizzazione fordista del lavoro. Il movimento stesso deve assumere la lotta alla precarietà come un elemento costitutivo di questa nuova fase, senza, naturalmente, venire meno alla battaglia per la pace. L’idea di un altro mondo possibile, deve costituire una guida per costruire nuovi modelli sociali e politici. L’altro giorno abbiamo incontrato un autorevole esponente palestinese. Mi ha colpito la sua argomentazione basata essenzialmente, sul collegamento tra la soluzione della questione nazionale con quella della questione democratica. In effetti questo collegamento è l’unica replica possibile al modello della guerra, del neoliberismo, della primazia nord-americana in Medio Oriente che attribuisce ad Israele un ruolo simile a quello europeo in quella parte del mondo. D’altro canto, per così dire dal basso, la critica radicale alla precarietà, deve produrre la definizione di nuovi modelli ad essa alternativi. La battaglia europea sulle pensioni Nella lotta contro la guerra abbiamo insistito per la convocazione di uno sciopero generale. Anche questo non avrebbe probabilmente impedito l’evento bellico, ma sarebbe stato determinante anche per il dopo. Allo stesso modo, ed è per questo che ne parlo, nel movimento sindacale si nota un grave handicap nella lotta in difesa delle pensioni. Ormai il problema viene posto dal neoliberismo a livello europeo, e a quel livello noi dobbiamo saper rispondere, altrimenti il movimento sindacale e politico e sociale di ogni singolo paese verrà abbattuto volta per volta. Per questo io credo che noi dobbiamo riflettere sulla necessità di incentrare la nostra tradizionale manifestazione nazionale a conclusione della festa nazionale di Liberazione a fine settembre sul tema delle pensioni, dando alla stessa una dimensione effettiva di presenza europea nei modi e nelle forme su cui torneremo a discutere. E’
importante la generalizzazione della dimensione territoriale locale del
movimento, in particolare, come già si è visto, sul tema
dell’acqua, dei servizi sociali, degli inceneritori, dell’energia,
della salute. Però dobbiamo riscontrare che il tema del lavoro
è ancora scisso dagli altri, e questo è un limite grave. La nostra interpretazione sulla natura e il comportamento del governo Berlusconi è indubbiamente diversa da quella del centrosinistra. Non si tratta di uno strano puntiglio. Il problema è che noi vogliamo connettere la questione sociale a quella democratica al fine di combattere tutta l’iniziativa del governo. Questo governo è cattivo non solo perché attacca la magistratura o si appropria dell’informazione. La ragione in questo non sarebbe comprensibile senza una chiave interpretativa di classe, che spiega come il modello della precarietà e della cancellazione della dignità del lavoro, si connette a quello della negazione della giustizia e delle libertà nel loro complesso. D’altro canto un operaio metalmeccanico che non può votare sul suo contratto come fa a lottare per una televisione pluralista e democratica? Mi rendo conto che dopo l’esito del referendum questo è ancora più difficile. Infatti dobbiamo domandarci ora come affrontiamo le devastazioni della legge 30 sul mercato del lavoro? Con quali obiettivi, con quali modalità di costruzione di movimento? E ancora, come si ricollega tutto questo al tema delle pensioni; bisogna evidentemente riaprire un rapporto tra i tempi di lavoro e i tempi di vita. Ma che nesso vi è tra questa questione e quella salariale? A questa domanda noi dobbiamo dare delle risposte. Il confronto con le forze di opposizione L’agenda politica è ora fissata dal governo: il nostro primo obiettivo è cambiarla. Il compito dell’opposizione va quindi ridefinito in relazione con i movimenti. Su ciò dobbiamo produrre uno sforzo eccezionale del nostro partito. Dobbiamo cioè proporre alle forze di opposizione un’agenda di temi e un insieme di punti programmatici. Si tratta di un’idea diversa del confronto da condurre con le forze politiche dell’opposizione che punta a raccogliere la richiesta di unità e di radicalità che proviene dal movimento. Ci dobbiamo proporre il compito di allargare l’attuale incrinatura tra governo e paese fino a giungere ad una vera e propria crisi. Vedo quindi tre obiettivi su questa strada.
* Primo, la crescita qualificata del movimento. In
sostanza si tratta di avviare un nuovo processo sociale e politico; dentro
questo sta il nostro confronto con il centrosinistra. Vi è quindi una differenza molto netta rispetto a quelle fasi nelle quali abbiamo costruito la desistenza o la rottura con le forze del centrosinistra. In entrambi i casi i soggetti politici eravamo allora il centrosinistra e noi. Ma oggi i movimenti hanno lavorato nel profondo. Naturalmente bisogna sapere anche che cosa non è avvenuto. Non è avvenuta la rottura del centrosinistra e la costruzione articolata e forte di una sinistra di alternativa. Non è avvenuto neppure però il tentativo di ricondurre il movimento sotto l’egida dell’Ulivo, liquidando Rifondazione comunista. Questo tentativo è stato tentato realmente e recentemente: se avesse avuto successo avrebbe liquidato l’antagonismo nella politica. E’ invece è accaduto il verificarsi dello scompaginamento e della disarticolazione del centrosinistra, nonché l’autonomizzazione della Cgil e dell’Arci. Vi sono però due rischi. Il primo: diventare la sinistra del centrosinistra. Il secondo: chiamarci fuori dalla politica, pensando che ormai l’alternanza ha vinto e dunque conviene ridurci a pratiche extraistituzionale. Entrambe queste strade sono errate e devastanti e non saprei indicare qual’è la peggiore. Dobbiamo allora pensare a un nostro protagonismo politico, anche per contribuire a superare le difficoltà interne al movimento. Il ruolo dei movimenti nel confronto Per tutte queste ragioni siamo per aprire subito un confronto con le forze dell’opposizione. E’ esattamente il contrario di una scelta politicista, infatti, se di questo si trattasse, essa sarebbe giocata negli ultimi mesi prima delle elezioni, sotto la spinta del popolo della sinistra che chiede l’unità. Noi invece vogliamo aprire un processo reale, per questo abbiamo aspettato l’esito delle elezioni amministrative e lo abbiamo prospettato prima della conclusione della campagna referendaria. I protagonisti di questo processo devono essere molteplici. Senza quest’ultimo la logica dell’alternanza conquista l’egemonia sui movimenti. Già se ne vedono i segni, soprattutto se guardiamo l’esperienza europea. Non possiamo perciò pensare ad una partita a due, la quale connotava le fasi precedenti. Infatti il nostro confronto non è un tentativo già visto, quando, almeno secondo qualcuno, vi era l’accettazione di una diversa natura dei movimenti rispetto alla politica, basata nel primo caso sulla radicalità e nel secondo sul realismo. Per superare questa fase ci può aiutare la lezione latinoamericana. Sia chiaro, non c’è nessun Lula alle porte in Italia, però è importante imparare quell’esperienza di un accumulo di forze, di istituzione di movimento, di esperienza sociale. Questo
è il problema che noi oggi poniamo alla sinistra d’alternativa.
Questo è il problema che poniamo alle forze di opposizione per
imporre un’agenda di temi e per stabilire un’intesa programmatica. Ce la possiamo fare? La domanda è fondata, ma proprio per questo è necessario il coinvolgimento di tutto il partito. Il partito senza la sua riforma non ce la può fare. Per questo ogni sforzo per costruire l’unità interna è necessaria. Non lo dico in assoluto, ma lo affermo rispetto all’obiettivo che dobbiamo raggiungere e lo dico anche per quanto riguarda la minoranza congressuale. Sulla riforma del partito ci vuole uno sforzo unitario. Ce la possiamo fare solo se non si cade nella vecchia contrapposizione tra il “vecchio” e il “nuovo”. Il punto è sapere se tutti noi partiamo da un’analisi comune: questa indica che vi è un deficit - e non un eccesso - di innovazione che va colmato da nuove forme di organizzazione che non sostituiscono quelle vecchie ma si accostano ad esse. La rete che il nostro partito deve costruire deve stare dentro il tessuto dei movimento e della società. Chiediamo quindi che la Direzione lavori alla costruzione di una mappa della innovazione (come ad esempio la costruzione delle case dei popoli e delle culture; di luoghi di organizzazione di socialità, di comunità, di assistenza, di tutela che interagiscano con l’organizzazione verticale delle decisioni). Questa costruzione deve avvenire con un rapporto reciproco tra la direzione e le federazioni. Propongo che si dia inizio ad una ricerca teorico-culturale sulla forma partito dal Novecento ad oggi. Tra tre-quattro mesi possiamo costruire un convegno davvero importante su questo tema, definendo fin da ora il gruppo che lavora a questa prospettiva. Tutti devono concorrere a questo sforzo. Gli agenti sono molti ma il partito e il giornale sono il binomio classico. Insieme siamo sopravvissuti, quando non era facile farlo, oggi siamo di fronte alla stessa sfida. Non dobbiamo fare un’operazione eclettica, ma il partito e il giornale sono entrambi luoghi per il salto qualitativo che ci attende. La riforma politica e la riforma organizzata vanno assieme |