Partito della Rifondazione Comunista
Comitato Politico Nazionale - 24 - 25 novembre 2001
Conclusioni di Fausto Bertinotti
Il congresso dovrebbe riuscire a situarsi nella vita politica del partito. Su questo punto, che trovo molto importante, continuo a sentire una fatica. Una fatica mia, in primo luogo, e di tutti. Perché se è del tutto comprensibile, come sapevano gli uomini della Bibbia, che c'è "un tempo e un tempo", noi rischiamo tuttavia una separazione. Non tanto quella fisiologica fra la discussione e l'azione, fra il riflettere e il fare, ma, invece, tra quello che a me sembra il corpo centrale della proposta politica che si avanza nelle tesi e l'azione politica che a sua volta può dare fattibilità o no a quella stessa proposta. Nelle tesi viene enunciata con grande forza una "cultura politica" che poggia su due elementi: il primo è la connessione tra presente e futuro, un concetto che oggi accentuiamo perché veniamo da una fase in cui è stato possibile separare il presente dal futuro anche nella storia cui apparteniamo. L'altro elemento è l'individuazione, con una radicalità che si espone molto all'accusa di parzialità - fino alla faziosità - della leva per avviare un nuovo processo politico. Questi due elementi fondano la cultura politica che attraversa le tesi proposte e nei confronti delle quali si è anche espresso un dissenso e un documento alternativo.
C'è dunque una duplice ispirazione che occorre far vivere nel congresso. Se questo non avviene il congresso diventa politicamente inerte, e noi non ce lo possiamo permettere. Si tratta quindi di operare un vero e proprio salto nella nostra azione.
Un nuovo caso italiano?
Viviamo un presente densissimo di contraddizioni, di conflitti, di prospettive politiche: dalla finanziaria, allo sciopero dei metalmeccanici, a cosa farà la CGIL, allo sviluppo del movimento dei Social Forum, all'esperienza dei disobbedienti, alle mille cose, insomma, che attraversano questa densissima realtà italiana.
Così densa da farci osare la civetteria di citare un "caso italiano", alla luce tuttavia di una constatazione della realtà e cioè che il movimento per la pace in Italia è il più significativo nella scena europea. Anche usando, quindi, una lente un po' approssimativa possiamo cogliere molti segnali significativi nella politica quotidiana. E possiamo dire che si riapre una prospettiva in cui é possibile mettere all'ordine del giorno il tema della trasformazione. Si può affermare che un'altro mondo é possibile e persino necessario.
La relazione fra la nuova situazione politica e sociale e la prospettiva della trasformazione è ora per noi decisiva.
Essa passa attraverso una ricerca intensa - come quella che le tesi propongono - che va dall'analisi della globalizzazione all'azione del partito, con una precipitazione di ben altra intensità rispetto a quella di cui siamo fino ad ora capaci, sul terreno del conflitto sociale e della crescita dei movimenti. Finora questa precipitazione non c'è stata. Basti pensare all'affanno con cui lavoriamo alla costruzione di una piattaforma alternativa e di un movimento alternativo sulla finanziaria.
La seconda questione è quella della leva per attivare il processo, cioè per accelerare il processo che abbiamo individuato: qual è la leva? Su cosa applichiamo prioritariamente il progetto del partito qui ed ora?
La leva del movimento
A me sembra che per rispondere a queste domande abbiamo di fronte a noi delle occasioni, una vera e propria agenda. Penso al fatto che questo mondo terremotato dalla coppia terrorismo-guerra, così incerto, così instabile, così drammaticamente a rischio di un'ulteriore espansione incontrollata del conflitto, profila un appuntamento - che non è solo di riflessione politica - delle forze dei movimenti antiglobalizzazione a fine gennaio e inizio febbraio a Porto Alegre. Un appuntamento che può determinare un altro scatto nella costruzione di questo movimento internazionale, della sua capacità di piattaforma, di costruire una piattaforma, relazioni internazionali e di movimento di fronte alla drammatica violenza della guerra e del terrorismo.
In Italia noi assistiamo ad una crescita del movimento rispetto alla quale c'è qualche nostra colpevole distrazione, oppure una sfasatura come avviene quando ne discutiamo tra noi come se quel movimento fosse fuori dalla porta, mentre invece siamo immersi nelle sue concrete esperienze. Quando discutiamo di movimento incredibilmente ci capita di dimenticare che noi in quel movimento ci siamo. E' una propensione alla schizofrenia francamente difficile da capire, se non appunto in un malinteso primato della politica. Non so vederci altro e proprio non capisco altrimenti come possa determinarsi questo atteggiamento. Noi abbiamo un movimento che ha smentito moltissime previsioni che circolavano. Lo davano per morto a Genova dopo la terribile repressione a cui é stato sottoposto e poi destinato a morire con l'affermarsi della guerra. Non è morto a Genova e non è morto di fronte alla guerra. E' cresciuto, invece, e guadagna posizioni sul piano culturale. Se a Parigi alla Sorbona viene presentato un film sui fatti di Genova e c'é una assemblea gremitissima, non é evidente che è stata smentita una previsione largamente diffusa secondo cui quel movimento non avrebbe avuto la forza di durare di fronte alla repressione e alla guerra? Questo movimento cresce, fa cultura, contagia. Se uscite di qui e andate al Tasso vi troverete di fronte giovani che occupano un liceo e fanno lo sciopero della fame. Vi ricordate quando noi facemmo lo sciopero della fame per una questione importante come quella delle liste civetta? Allora furono in molti con la puzza sotto il naso. Perché allora una forma di lotta come quella arriva in maniera così inedita a delle realtà giovanili che la usano per chiedere un incontro col Ministro? Perché questa crescita del movimento si incrocia con forme di lotta inusuali? Perché appunto c'è una cultura diffusa, fatta di molte cose, che si propaga, in cui cresce la capacità di costruire momenti di lotta, unitari e generali.
I metalmeccanici hanno fatto lo sciopero a luglio e molti di noi, compreso chi parla, espressero molte preoccupazioni sulla possibilità che continuasse quel movimento su una così inadeguata piattaforma di lotta. Lo sciopero e la manifestazione del 16 novembre, viceversa, confermano una rottura della tregua nella psicologia e nel comportamento dei lavoratori. Naturalmente reso possibile dalla determinazione politica della Fiom. Prima lo sciopero dei Cobas nella scuola aveva mostrato su un altro terreno la stessa propensione e la stessa capacità di efficacia. Oggi un sindacato, che purtroppo non cambia il suo impianto generale (e parlo non solo della Cisl e Uil ma anche della Cgil), tuttavia discute del possibile sciopero generale o di una manifestazione eventualmente fatta solo dalla Cgil. A dimostrazione che è rinata qualcosa che si chiama conflitto di classe. Il frutto di un contagio che si propaga, che produce altro contagio.
La nuova strategia del padronato
In questa condizione, anche per il crescere della crisi economica e delle tensioni di competizione internazionale, c'é in Italia uno schieramento padronale che avanza fermamente al governo la richiesta di fare fino in fondo la sua parte di governo di destra, in primo luogo sul terreno sociale. Con una insofferenza della Confindustria persino nei riguardi degli elementi banalmente realistici che hanno contrassegnato il comportamento della organizzazione padronale in tutti gli anni passati. Quel comportamento che accettava, magari, di attendere un po' per fare un accordo di concertazione e fare ingoiare quella pillola amara che altrimenti avrebbe scatenato un conflitto sociale. Questo investimento politico che ieri qualunque gruppo dirigente industriale avrebbe fatto, oggi non fa parte della strategia confindustriale. Adesso siamo invece di fronte ad un governo che chiede la delega su tutte le questioni del diritto e del mercato del lavoro, con una richiesta di potere che in altri tempi avrebbe sollevato lo sciopero generale del sindacato anche solo per una questione di metodo, di relazioni industriali. Di fronte a questa situazione c'è un sindacato disastrato. Badate a non prendere lucciole per lanterne su questo: la crescita del movimento, il riposizionamento oltre che dei Cobas, della Fiom e la tenuta della Cgil non ci faccia prendere abbagli.
Siamo di fronte ad condizione sociale disastrosa e tuttavia di fronte ad una sfida di queste dimensioni non c'è la decisione di uno sciopero generale. La Confindustria sollecita il governo ad andare fino in fondo, con chi, nel quadro istituzionale, é d'accordo senza tener conto dell'ampiezza del consenso sociale. Continua a sfidare il conflitto sociale convinta di poter vincere sul campo. Il governo ha qualche incertezza in più ma tiene la barra per andare in quella direzione. La vicenda dell'articolo 18 parla di questo. Il terreno è stato scelto propriamente: l'articolo 18 sta alla scala mobile come questi anni stanno agli anni '80. In quegli anni si compiva la ristrutturazione della composizione sociale di classe, oggi si vuol portare avanti la manomissione di qualsiasi diritto in modo da poterne impedire la ricomposizione.
Il governo, intanto, compie una grande operazione di destrutturazione dello stato sociale, una destrutturazione a cui io credo bisogna rispondere non tanto con la formula qui proposta da Ferrando di "via il governo" che tanto non verrebbe ascoltata, quanto con una opposizione sulla base di una piattaforma che sia in grado di incrinare il blocco sociale di riferimento e di riaprire in grande stile il conflitto. Questa opposizione è possibile e tuttavia richiede una nostra capacità di intervento superiore a quella che abbiamo.
L'inutilità della politica tradizionale
Penso che dovremmo saper vedere due cose. La prima è che la crisi della politica continua a lavorare. La crescita di questo movimento non l'ha interrotta. Sono stato a Palermo per la campagna elettorale. Ho visto una campagna elettorale senza precedenti, completamente occupata dal Polo. E' stato come se a livello nazionale tutti gli spazi televisivi fossero occupati da un partito solo. Vi sembra possibile che questa cosa accada senza colpo ferire? Lì c'è una imposizione e una autoesclusione. C'è da un lato la politica proprietaria e di ricchezza, che davvero configura una inedita democrazia di censo. E c'è la scomparsa del regime dell'alternanza. In questa condizione la riproposizione della politica tradizionale vale zero. O siamo in grado di riconnetterci con le drammatiche realtà della Sicilia, o siamo in grado di parlare allo Zen, di stare nei cantieri navali, di stare all'Università e da lì riprendere una lunga marcia attraverso la società e le istituzioni, oppure siamo totalmente spiazzati. In quei luoghi non esiste più la politica, che è sostituita da una democrazia di censo e da una organizzazione clientelare. La Sicilia è un caso? Io temo che lì ci sia la punta più estrema di una tendenza che rischia di espandersi.
Parliamo di noi. Abbiamo vissuto due giornate straordinarie: il 10 la manifestazione per la pace e l'11 la bella manifestazione a Firenze sulla finanziaria. Possiamo fare un bilancio e discutere quello che ne è seguito? E possiamo cercare di capire perché quel che è seguito è almeno inadeguato? C'è un rapporto tra questo seguito inadeguato e le culture politiche prevalenti, quelle cioè che dobbiamo mettere in discussione per dare una risposta ad una così drammatica crisi della politica e di spiazzamento delle politiche tradizionali? Io credo di si e credo che noi dovremo innestare sul congresso una operazione politica e sociale, che è la cartina di tornasole della nostra direzione di marcia. Dovremo alimentare una riflessione che produca un salto, uno scatto, una innovazione profonda.
Devo dire che percepisco gli inviti alla prudenza come disastrosi. Prudenza verso che? Ma che cosa difendiamo? Oggi, semmai, abbiamo il problema di osare, di innovare, sia perché siamo sfidati da eventi drammatici, sia perché siamo di fronte ad una opportunità. Oppure continuiamo pensare che ci va bene il cinque per cento e dobbiamo tenere un rapporto con una sinistra moderata anche se questa ogni volta ci schizza via? E noi ogni volta dobbiamo provare a tornarci, facendocela piacere? Dobbiamo continuare così? Io credo che bisogna invece fare un'operazione politica e sociale coraggiosa. Bisogna osare. Rischiando di sbagliare, rischiando di infrangersi, ma tentando una operazione, visto che se ne dà finalmente la possibilità. Lavorando chiaramente con i piedi per terra, favorendo il radicamento dei Social forum nei territori, facendo in modo che questi risultino delle organizzazione di conflitto sociale, fattore di inchiesta e di propulsione e non soltanto produzione di nuovi ceti politici, lavorando ad una crescita interna ed esterna.
E' il momento di strappare e di produrre delle rotture anche nella costruzione del sindacalismo confederale e extraconfederale, dentro un processo di costruzione del movimento, di radicamento di nuove forme, di costituzione di democrazia. Altrimenti compagni finisce il congresso della Cgil, noi misuriamo il 20%, plaudiamo alla nostra resistenza e all'indomani stiamo esattamente nelle stesse condizioni di prima. Sarà un problema di tutti il fatto che in molte parti d'Italia compagni di Rifondazione comunista votano il documento della maggioranza? Sono biechi traditori oppure hanno un senso di impotenza e, nel momento in cui vivono questa impotenza, e la Cgil si caratterizza per un certo dinamismo, sia pure imperfetto, scelgono di stare con Cofferati non avendo alternative? Non dico che fanno bene, dico che bisogna capire perché accade e non dobbiamo pensare che questa questione possa risolversi con il foglio d'ordine, ma lavorando alla costruzione di un'alternativa concreta, come i Cobas nella scuola e la Fiom nei metalmeccanici stanno concretamente facendo. Allo stesso modo la battaglia della sinistra Cgil deve anche affrontare il rischio delle rotture.
C'è un passaggio di fase che oggi ci propone una sinistra di alternativa in termini radicalmente diversi da come io stesso l'ho proposta molte volte. Perché sono avvenute delle novità su cui la nostra proposta politica deve fare un salto. E le novità sono a destra e a sinistra. Dopo il congresso di Pesaro abbiamo a che fare con un partito, quello dei Ds, che ha fatto una scelta organica neocentrista, indotta dal passaggio cruciale della guerra.
La maggioranza dei Ds ha scelto il governo della globalizzazione e della modernizzazione capitalistica. Su questa base ha espulso dalla sua politica non i portatori di proposte diverse, che anzi sono coccolati, ma le tesi che quelli portano. Viene espulsa ogni tesi di sinistra, senza proporre neanche lontanamente un dialogo o un compromesso, per impermeabilizzare questa formazione politica dai movimenti, dai conflitti, dai contagi, e collocarla organicamente al centro.
Su questa base si apre il disagio di una opposizione di sinistra che era entrata al congresso - possiamo dirlo - timidamente, con una piattaforma del tutto inadeguata e che invece, rispetto a questo confronto così duro, ha modellato un comportamento interessante, perché fondato sulla autonomia dentro i Ds e su un riformismo di altra natura rispetto a quello centrista e neocentrista della sua maggioranza.
Dall'altra parte siamo di fronte ad un movimento che cresce, non solo sul terreno dello sviluppo dei Social forum, ma anche sul terreno del conflitto sociale.
Rispetto a queste due novità e cioè da una parte lo spostamento organico al centro dei Ds, dall'altra la crescita di un movimento articolato che tuttavia esprime una pulsione antagonista, la nostra proposta della sinistra di alternativa può manifestarsi in due modi completamente diversi fra di loro.
La politica dei ceti o la politica dei movimenti?
Bisogna scegliere. Il Congresso deve scegliere. C'è una ipotesi che sta nella sfera della politica e che, di fronte a questi fenomeni dice: costruiamo una sinistra di alternativa come assemblaggio di sinistre politiche diverse e articolate. Facciamo allora un appello alla sinistra Ds ad uscire dal partito, ci mettiamo insieme, ascoltiamo Diliberto e Francescato, proponiamo una aggregazione o addirittura culliamo l'illusione di costruire, contro l'ipotesi neocentrista un nuovo partito socialdemocratico. Tutte ipotesi possibili, a cui io sono totalmente contrario. Oppure, invece, facciamo la mossa del cavallo e spiazziamo questa ripetitiva lettura della politica separata, quella politica che si riproduce essenzialmente nei ceti politici. E, assumendo anche la lezione del movimento, pensiamo ad una sinistra di alternativa che sia plurale per culture, per forme di organizzazione, per modelli procedurali, per ipotesi, dentro, tuttavia, un progetto comune.
Lo dico rozzamente: una sinistra in cui ci sia Rifondazione comunista, ma anche la Fiom, anche i Cobas, anche Lilliput e tutti i centri sociali e i social forum che vogliano starci. Pezzi che configurino un arcipelago di forze determinate dalla loro possibilità di costituirsi in soggetto politico.
Questa è la scelta che, secondo me, va compiuta per intercettare l'esodo che si produrrà ancora a sinistra anche se non nelle forme di smottamento classico, e per accompagnare l'ingresso nella politica attiva di una generazione che muove dalla rottura con l'ordine esistente e che si trova a dover fare i conti con una crisi della politica.
Penso al lavoro prezioso di inchiesta che viene fatto nel nostro partito. Ho visto anche i dati che sono stati forniti di questo lavoro di inchiesta dopo una consultazione prevalentemente espressa per via di comunicazione informatica. Mi sembrano davvero interessanti e vedo una corrispondenza fra questa inchiesta interna al partito e altre indagini esterne come quella che propone il Mulino, su cui mi piacerebbe che il partito discutesse.
In questa ricerca del Mulino colpisce non solo lo spostamento a sinistra delle nuove generazioni soprattutto nella scuola, ma anche il fatto che solamente il Partito della Rifondazione Comunista viene giudicato interessante da questa area di giovani. E questo non per il fatto che abbiamo "la giusta linea" ma per il fatto che siamo aperti al movimento.
Naturalmente ce ne possiamo anche fregare e dire "non ci interessa". Se invece ci interessa dobbiamo capire come collegarci con questa realtà. Se poi si legge, sempre nella stessa inchiesta, che in termini di voto, in quella che viene definita classe operaia (naturalmente la definizione è vaga e non chiara) c'è una propensione per il 16% ai Ds e per il 12% a Rifondazione comunista, contro un 28-29% a Forza Italia non si può non rimanere colpiti. Non è interessante? Vuol dire in qualche modo che c'è anche nell'insediamento classico, terreno strategicamente decisivo, in cui é avvenuta una drammatica distruzione della cultura di classe e di sinistra, una possibilità grande. Io credo che oggi se poniamo la nascita della sinistra di alternativa in modo originale, se impariamo la lezione del movimento sia possibile uno scatto. Facciamo due cose insieme: apriamo coraggiosamente Rifondazione comunista alla società e ricollochiamo una proposta politica di sinistra di alternativa di cui Rifondazione comunista sia una parte. E con ciò voglio bandire definitivamente ogni inutile discussione sul nome o l'aggettivo da cambiare, o l'ipotesi ancora più drammatica dello scioglimento. E vorrei mettere fine a questa assurda discussione non per istanza di conservazione ma per volontà di immettere nella costruzione della sinistra di alternativa una esperienza viva, accettando il confronto con altre esperienze vive, non artificiose, nella costruzione di un progetto e di una rappresentanza.
Una nuova fase del Prc
Penso, insomma, che noi dovremmo inaugurare con il Congresso una nuova fase nella vita del Partito della Rifondazione Comunista. Perché nuova fase? Perché è contemporaneamente possibile e necessaria.
Negli anni passati noi abbiamo resistito. E lo abbiamo fatto quando tutto si squagliava attorno a noi, non solo sul terreno politico-ideologico e culturale, ma anche sul terreno sociale. Questa resistenza è stata possibile perché non è stata solo resistenza. I compagni che mi conoscono sanno che ho litigato per decenni con amici, amiche e compagni cari sul valore della resistenza, convinto come sono, che senza la resistenza non c'è alcuna autonomia politica-sociale; che il problema è un "oltre" ma non si può pensare di fare "altro". Oltre sì, altro no.
Tutte invece le componenti illuministiche delle varie sinistre italiane hanno avuto sempre il vezzo di pensare alla resistenza come ad una cosa brutta, e non ricca come invece io credo. Ma questa "cosa ricca" è stata possibile per il fatto che questo partito non si è mai racchiuso dentro la sola resistenza. Ha tentato ogni volta la ricostruzione di una prospettiva, nei modi che erano possibili, cercando di opporsi alle difficoltà di un terreno che franava tutto attorno. Oggi, (e questo è il punto secondo me saliente in questo congresso e che credo dovrebbe divenire il cemento della maggioranza congressuale), è possibile la rinascita di una prospettiva di trasformazione dentro la quale una forza comunista possa crescere come parte di una sinistra alternativa che si propone di uscire dallo stato di minorità in cui la sconfitta l'ha costretta negli ultimi anni. E' possibile creare le condizioni in cui questa sinistra di alternativa possa competere per diventare forza maggioritaria. Non lo dico per sperperare delle parole, lo dico seriamente. La sfida, tenendo presenti i livelli in cui siamo e dove vogliamo arrivare, é oggi quella per la uscita dalla condizione di minorità. Su questo nucleo io credo che debba proporsi una maggioranza congressuale. Poi possiamo litigare su mille cose, ma questo è il punto cardine del ragionamento: noi proponiamo una uscita che metta a frutto l'accumulazione di resistenza. Proponiamo un salto verso la rifondazione del partito comunista dentro una sinistra di alternativa plurale che assume totalmente la lezione del movimento e la novità radicale prodotta dalla contestazione alla globalizzazione capitalistica nel mondo e in Italia.
Dentro questo orizzonte mi sento di affrontare delle obiezioni che sono venute su punti specifici. Una delle più brucianti per la nostra cultura, per quanto detta con molta signorilità, è stata quella sollevata da Saverio Ferrari quando ha affermato che "non esiste una proposta politica". E' stato un intervento che ho molto apprezzato sia per stile che per lo svolgimento di un ragionamento, ma sul quale ho un punto di dissenso rilevante. Così come dissento dall'affermazione di Casati, secondo cui nelle tesi proposte non è stato sviluppato il ragionamento sul partito di massa. Le due cose obiezioni hanno una connessione. Io non penso sia così e difendo le tesi perché penso che ci sia l'una e l'altra cosa. Nelle tesi c'è una diversa declinazione della proposta politica e dell'idea del partito di massa.
Se mi è permesso dire una cosa per alleggerire il dibattito aggiungo: l'una e l'altra sono la fuoriuscita dalle propensioni diciamo "neoclassiche" con cui la proposta politica e il partito di massa sono stati interpretati negli ultimi decenni in Italia. In nome di un ritorno al classico vale a dire proponendo lo spostamento del baricentro della politica.
Non si propone il passaggio dalla politica al sociale. Si propone di correggere una grande tradizione che, sulla base della sconfitta degli anni '20 (la sconfitta dell'ipotesi della rivoluzione su scala mondiale), ha accolto l'idea del consolidamento del sistema rivoluzionario in un paese e lo slittamento delle politiche sul terreno degli stati, delle organizzazioni, delle relazioni tra i soggetti rappresentativi. Penso invece che ritornare al Lenin della concezione della transizione e al Gramsci che ragionava sulla rivoluzione in occidente, individuando la centralità nella società, delle forze sociali, dei movimenti invece che dei partiti, degli stati e delle istituzioni, pur considerando assolutamente indispensabile la presenza in queste ultime sia il nuovo baricentro della politica. Con tutto il rispetto ai grandi che hanno inventato e gestito straordinarie costruzioni politiche, oggi c'è il problema di riportare il baricentro verso Lenin e Gramsci piuttosto che altri che non cito per evitare poemi e arrabbiature.
Il nostro "operaismo"
Questo è il punto che viene proposto. Quindi non l'eclisse della politica, ma invece una interpretazione della politica classica nel movimento rivoluzionario. Trovo, infatti, che ci sia una cosa pressoché indicibile nella nostra discussione e cioè che nelle tesi non è stato valorizzato il conflitto di classe. Qui davvero mi pare che ci troviamo di fronte a un paradosso, perché tutta la nostra storia politica recente e tutta la costruzione delle tesi può semmai essere criticata per una torsione iperclassista, tanto che qualcuno riusa la parolaccia "operaista". E la centralità di classe c'è nelle tesi per due fatti e due tendenze: una mondiale e una nazionale.
Noi abbiamo sempre individuato nella globalizzazione capitalista una radice di classe. Questo ci ha distinto sia dalle tesi apologetiche che da quelle continuiste. Siamo stati contro chi diceva "che meraviglia è la globalizzazione" e contro chi diceva "bah, pressappoco è come prima". Abbiamo invece dato l'interpretazione di una radicale novità che confermava il sistema capitalistico in una nuova fase, cercando, senza riuscirci, la soluzione del problema prodotto dalla crisi del modello fordista-taylorista.
Non è vero quello che dice Ferrando (e in questo ci confonde con dei nostri amici molto cari ma con cui abbiamo una differenza di opinione) che noi abbiamo pensato che la tendenza della globalizzazione fosse invincibile. Anzi, abbiamo sostenuto che esisteva l'accumulazione di un conflitto esterno (che riguardava cioè coloro che non venivano sussunti dentro la tendenza della globalizzazione) in grado di proporre prima o poi un forte elemento di crisi.
E' vero che quella analisi, che non ha mai concesso alla globalizzazione l'itinerario vincente, non ha saputo individuare per tempo le sue contraddizioni interne più intime e più dirompenti, che hanno poi portato a quella "seconda globalizzazione", che smentisce le promesse e anche alcune premesse della prima dando luogo ad un regime di instabilità e di incertezza.
Quest'ultimo è riconducibile - se non in maniera totalizzante, quantomeno in maniera significativa - alla dinamica del conflitto di classe, e anzi più propriamente alla questione dello sfruttamento e della riorganizzazione dello sfruttamento su scala planetaria.
Abbiamo sempre messo una attenzione rilevante alla scomposizione della compagine di classe su scala mondiale e dentro il perimetro dei paesi a capitalismo più maturo, tanto da proporre per il partito come obiettivo principale (si legge nelle tesi come in moltissimi altri documenti) quello della ricomposizione della classe operaia frantumata e divisa da questi processi, oltre che della connessione tra questa, i soggetti e le culture critiche che riemergono, in termini inediti, rispetto ai tradizionali blocchi sociali. A livello nazionale abbiamo individuato la radice di classe in quel modello industriale che si è affermato anche qui in contrasto con la tesi che diceva che il capitalismo italiano è straccione, senza però fare derivare l'idea opposta e cioè che il capitalismo italiano era capace di qualunque ordine di innovazione.
Abbiamo attribuito, invece, al capitalismo italiano una capacità straordinariamente competitiva, nella commistione e nella ricostruzione di rapporti tra capitale produttivo, capitale finanziario, collocazione internazionale e produzione di grandi aree (come quella del nord-est) e di uso della riorganizzazione del mezzogiorno in termini funzionali, in una macchina da guerra per la competizione tutt'altro che disprezzabile. Basta vedere il ruolo che occupa l'Italia fra i paesi principali del mondo secondo la gerarchia della divisione del lavoro e dei mercati.
Una radice di classe quindi, talmente profonda da pensare che questo modello industriale è competitivo proprio in base a basso costo del lavoro e all'alta flessibilità, cioè precisamente in base alla riduzione del lavoro salariato a variabile dipendente dell'impresa e della competizione. In termini di tendenze, e scuserete il carattere fastidiosamente scolastico, due tendenze restituiscono una centralità al conflitto di classe: una permanente e una stagionale.
Noi abbiamo sempre pensato che il capitalismo, (non questo capitalismo ma "il" capitalismo) fosse definibile come formazione economica e sociale sulla base dell'esistenza del lavoro salariato. Contemporaneamente abbiamo affermato la irriducibilità delle lavoratrici e dei lavoratori alla pura funzione di merce del lavoro. Di conseguenza abbiamo sostenuto la possibilità di innescare per questa via, prima o poi e nelle forme possibili, il conflitto di classe, anche in modo dirompente. Abbiamo fondato su questo punto, non su una analisi contingente ma su una certa interpretazione della legge del valore. Naturalmente siccome so bene che ci sono da decenni grandi discussioni e grandi scuole di pensiero su questo terreno, lo dico modestamente, ma lì stiamo.
La seconda tendenza é quella stagionale. Sul carattere del lavoro oggi rinvio alla lettura delle tesi dove questo punto è analizzato con grande rigore, precisione e forza. Si potrebbe quindi, semmai, dire che c'è un eccesso di analisi del conflitto di classe. Eccesso che io condivido.
Concludo su questo punto riaffermando la presenza nelle tesi di una ricostruzione della novità del carattere assolutamente fondativo del conflitto di classe e della categoria critica del lavoro salariato.
Il partito di massa di fronte alla globalizzazione
Ma anche l'obiezione sul partito di massa, così come é stata formulata, mi pare poco convincente. Perché noi abbiamo provato a ragionare sul partito di massa dentro uno schema prevalentemente tradizionale, anche osando passaggi difficili. Oggi tuttavia siamo in una condizione diversa. Con la rinascita del conflitto sociale e lo sviluppo del movimento no global siamo in una fase che non é di sola resistenza. Del resto se anche guardiamo al decennio precedente vediamo come la nostra resistenza sia stata costantemente fatta guardando fuori, al conflitto sociale, a quello che poteva crescere. E ci abbiamo investito. Abbiamo pensato sia pure con inadeguatezze di tutti i tipi che però il partito di massa fosse in larga misura l'esito di questa operazione, di una operazione sociale.
Oggi questo passaggio mi sembra possibile proprio per il mutamento della condizione esterna. Ed è per questo che io penso che la costruzione del partito di massa debba cominciare dal ragionamento sulla fase e sul ciclo che attraversiamo.
Noi abbiamo, al nostro interno, una discussione sulla fase e sul ciclo, che non è né accademica né storica. E' una guida per l'azione. Insisto: il punto fondamentale da cui muovere è l'analisi della globalizzazione, la crisi di civiltà, la crisi della politica. Ci troviamo di fronte ad un passaggio storico: la fine del '900, anche dell'ultima parte del '900, quella seguente alla vittoria contro il nazifascismo, quella cioè segnata in tutti i paesi del mondo da una caratteristica sovrordinatrice. Come replichiamo efficacemente alla critica politica dei comunisti italiani se non ricordando quell'elemento sovraordinatore? Se non lo facciamo no si capisce nulla della storia Cgil o di quella dei socialisti. In quell'elemento sovraordinatore pesante, venne a sua volta plasmato il conflitto di classe. Da lì nacque il welfare state europeo. E gli stessi avversari, la socialdemocrazia di Bad Godesberg, trassero il loro alimento dalla sfida con i comunisti senza la quale nessuna conquista della socialdemocrazia si sarebbe potuta realizzare.
Quell'elemento sovraordinatore è oggi drammaticamente e tragicamente derubricato. E il mondo appare attraversato da una nuova dialettica. Ma del resto anche in quel mondo sovraordinato c'era qualcos'altro. Nella lotta dei braccianti siciliani o in quella degli operai di Mirafiori c'era forse solo l'elemento sovraordinatore? Certo che no. C'era in larghissima parte la loro soggettività, la loro capacità costruttiva, il rapporto con un'elaborazione originale come quella del partito comunista, una storia, come quella della Cgil che ha avuto dirigenti come Di Vittorio che venivano da percorsi molto ricchi e singolari. Forse che quell' elemento sovraordinatore cancellava quelle caratteristiche di originalità e di soggettività, così importanti e forse anche capaci di parlare il linguaggio del futuro? No, non credo proprio.
Qual è oggi, nella politica di oggi, l'elemento sovraordinatore? E' a mio parere il conflitto tra globalizzazione e movimento anti-globalizzazione, al cui interno ci sono mille altre contraddizioni, certamente, ma con una tendenza precisa.
E' chiaro che la socialdemocrazia, va ridefinita esattamente come il comunismo. Non è che noi dobbiamo ridefinire il comunismo e loro riprendono l'arsenale socialdemocratico. Non è possibile semplicemente dire di voler ristabilire l'arsenale socialdemocratico. Dove sta quest'arsenale? Dov'è?
Quella che è avvenuto a Pesaro, al congresso DS, non c'entrava nulla con la socialdemocrazia. Dico nulla, non poco. A meno di prendere lucciole per lanterne, a meno di confondere il conflitto di classe con l'industrialismo. La socialdemocrazia è si plasma su un compromesso sociale democratico, su un partito di massa, su una realtà sociale di riferimento, su uno stato sociale, su un potere contrattuale dei lavoratori, su un referente sociale preciso, l'operaoi specializzato. Dove è tutto questo oggi? Non si vede. La necessità di ridefinire se stessi non tocca solo i comunisti, ma anche chi si afferma socialdemocratico.
La ri-fondazione delle storie che fanno riferimento al movimento operaio è determinata da uan nuova fase del capitalismo, da quella modernizzazione che ha prodotto il terrorismo e la guerra.
Si può parlare di imperialismo?
C'è poi tra di noi la discussione sull'imperialismo. Sono tra quei compagni che propongono di non sostituire la categoria dell'imperialismo con un'altra categoria. Ho usato e uso comunemente il termine "impero", "imperiale", perché indica una dimensione così lata da poter poter contenere tutto, da Cesare ai contemporanei. Ho smesso da un po' di tempo di usarla per non indurre al cattivo pensiero che fosse una categoria interpretativa generale e non propongo di sostituire "imperialismo" con "impero". Propongo di sostituire alla categoria autosufficiente di imperialismo una ricerca in campo aperto, per trovare una chiave interpretativa per approssimazioni successive sulla base del prevalere dell'analisi sull'interpretazione in questa fase. La sfida avvenga, quindi, sull'analisi. Posticipiamo la definizione di una chiave interpretativa. L'analisi deve tuttavia liberarsi da un ingombro, per rispondere a due domande: come si esce da questa crisi di civiltà? Come si sconfigge questa globalizzazione capitalista e cioè il capitalismo del nostro tempo?
Come sempre nella scienza, a maggior ragione nella politica, si tratta di scegliere il punto di vista con cui si vuole condurre questa ricerca. Il punto di partenza è la globalizzazione capitalistica. Uso il termine capitalistica perché il termine "neoliberale" o "neoliberista", che pure ho usato altre volte, rimanda ad una definizione congiunturale che dà luogo ad una possibile forma di governo della globalizzazione.
Claudio Grassi ha proposto qui a sostegno della tesi dell'imperialismo il mio, diciamo così, album di famiglia. E riconosco che le fotografie che ha presentato danno un parere diverso dal mio. Ne approfitto per riconoscere totalmente l'autorità e l'autorevolezza di queste compagne e compagni, che conosco bene da anni e a cui ne potrei aggiungere altri di livello internazionale ugualmente autorevoli, probabilmente i punti più alti del pensiero delle sinistre nel mondo. E' una autorevolezza che riconosco adesso che sono d'accordo come la riconoscevo quando ero d'accordo, e avrei piacere che facessimo tutti così. Così come spero che si riconosca l'autorevolezza di Marco Revelli anche se è più giovane e anche quando non siamo d'accordo con lui. Perché è comunque bravo. Parlo delle compagne e dei compagni del mio album di famiglia, quindi, con grande rispetto. La fotografia è quella, ma io rivendico un'autonomia di giudizio anche nei loro confronti, e, soprattutto, un'autonomia di giudizio del partito nell'interpretazione originale della realtà e dei processi sociali. Per parte mia mi auguro che il conflitto col padre e con la madre sia un elemento di crescita.
Quei compagni dicono che ci sono degli elementi descritti nella teoria dell'imperialismo che perdurano. Questo è assolutamente vero e a quelli citati se ne potrebbero aggiungere degli altri. Ma una teoria sistemica non regge per il solo fatto che molti dei suoi elementi stanno insieme. Bisogna dimostrare che nell'interpretazione di questa fase regge la teoria sistemica complessiva.
Mi pare difficile descrivere il mondo attuale come fa il "Manifesto dell'Internazionale Comunista al proletariato di tutto il mondo" il 6 marzo del 1919, riesponendo la teoria dell'imperialismo. "Nei decenni anteriori alla guerra - si legge - la libera concorrenza quale elemento regolatore della produzione e della distribuzione, era stata soppiantata nei principali settori dell'economia, dal sistema dei trust e dei monopoli. Gli eventi della guerra hanno strappato di mano alle alleanze economiche la funzione regolatrice per consegnarla direttamente e totalmente al potere militare e statale. Tutti i problemi fondamentali della vita economica del mondo non sono regolati dalla libera concorrenza né dalla combinazione dei trust, dei consorzi nazionali e internazionali, bensì dal potere militare che in tale questione interviene direttamente ai fini della propria ulteriore conservazione". Ma il punto cruciale viene dopo: "La statizzazione della vita economica alla quale il liberalismo economico tanto si opponeva è diventata un fatto generale e compiuto. La questione dunque è unicamente quella di sapere chi condurrà in futuro la produzione statalizzata, se lo stato imperialista o lo stato del proletariato vittorioso". Francamente oggi, non mi sembra così. Non mi sembra questa l'interpretazione tendenziale. Oggi è davvero eccessivo parlare di statizzazione dei poteri economici e di potere e di governo da parte degli apparati statali.
Non devo essere io a ricordare a dei compagni e a delle compagne, che hanno più affinità con queste culture di quanta ne abbia io, che ne "L'imperialismo fase suprema del capitalismo" uno dei più grandi teorici dell'imperialismo, cioè appunto Lenin, nel famosissimo punto 4 che è stato per decenni citato, dice che "l'essenza economica dell'imperialismo è il capitalismo morente". Vorrei proprio vedere chi può oggi sostenere questa tesi. E per suffragare questa tesi aggiunge sempre nel punto 4: "I monopoli sorgono dalla politica coloniale, la lotta per il territorio è fatta dal capitale finanziario attraverso lo stato." E ancora afferma che questo processo comincia dopo che nove decimi dell'Africa sono stati colonizzati e sono entrati in possesso dei monopoli attraverso lo Stato. Infine configura due elementi strategici cruciali: uno che riguarda lo Stato e uno che riguarda le politiche di classe, attraverso la politica redistributiva. Lo Stato dell'imperialismo, è per Lenin uno stato "rentier"; è quello che taglia le cedole. Riflettiamo: gli stati attuali non sono in grado neanche di fare la tobin tax! Il rapporto fra lo Stato e l'economia è totalmente cambiato! E' tanto cambiato che, gli Stati Uniti d'America ricorrono ad una linea interventista, ma continuano nelle privatizzazioni e nelle liberalizzazioni.
Secondo Lenin elemento organico all'imperialismo era la nascita delle aristocrazie locali che venivano premiate nella redistribuzione, non solo con il surplus dello sfruttamento interno, ma anche con l'uso delle risorse dei paesi occupati. Lo stato imperialista, diceva, poteva "corrompere gli operai" (sono parole di Lenin) con delle paghe alte. Sempre Lenin afferma che la lotta contro l'opportunismo (cioè contro l'atteggiamento di questi operai che beneficiano del surplus) è così importante che senza di essa la lotta all'imperialismo è "una frase vuota". La lotta all'opportunismo, insomma, e la lotta all'imperialismo sono la stessa cosa. Ora vi chiedo: in quale parte del mondo possiamo vedere una aristocrazia operaia. Non è vero, invece, che viviamo in un mondo in cui lo sfruttamento è trainato dalla possibilità politica del capitale di inseguire la forza lavoro dove si trova al suo più basso prezzo e al più infimo livello di diritti, ditemi se non siamo in un mondo in cui vediamo ogni giorno la distruzione del potere contrattuale dei lavoratori. Quasi un rovesciamento.
Questa globalizzazione produce un cambiamento rispetto al tema delle materie prime, che è un punto essenziale nell'imperialismo. Nella pratica imperialista si sfrutta ciò su cui si tengono i piedi, e per farlo si occupa il territorio. Ora invece, nell' accumulazione capitalistica che pure considera il petrolio come una risorsa strategica è avvenuto un passaggio dallo sfruttamento della materia inerte alla sfruttamento della materia prima vivente.
Penso quindi che ci troviamo di fronte ad una crisi di civiltà, in cui persino la violenza, elemento costitutivo della costruzione imperialistica, perde il suo carattere di monopolio statuale. E infatti il terrorismo è la manifestazione, in termini di soggettività organizzata, della cancellazione del monopolio statale della violenza e della nascita e costituzione della violenza come forma privata di organizzazione, che sfida anche la guerra. Naturalmente lo stato ha un peso rilevantissimo, come si vede nella vicenda americana.
Ma anche in questo caso gli Stati Uniti svolgono un ruolo di guida non nella occupazione di nuovi territori ma nella proposizione del loro modello sociale, della loro storia, della loro accumulazione di potere economico e militare e nella loro collocazione strategica..
Perché insisto su questo? Perché a questa analisi è legata l'azione politica. Si tratta di sapere se domani questa globalizzazione capitalista e il terremoto di terrorismo del terrorismo e della guerra che essa genera e di cui si alimenta, può essere sconfitto prevalentemente attraverso quelli che si chiamano conflitti interimperialisti, o contrastando questa globalizzazione attraverso lo sviluppo delle potenzialità del movimento no global, e della politica che si riorganizza in rapporto con esso.
Oggi (non so domani) la Cina e la Russia si stanno integrando con una velocità insospettabile, che neanche i più feroci critici di questi paesi immaginavano, nei meccanismi di globalizzazione mentre gli Stati Uniti d'America sono la potenza guida.
Questo vuol dire che non ci sono delle contraddizioni? No, anzi il contrario. Noi diciamo che le contraddizioni si sono accentuate. La nostra tesi differisce da quella di Negri (verso il quale pure ho il massimo rispetto). La sua è la tesi dell'esodo, vale a dire della globalizzazione dolce e della diluizione dei contrasti. E' una tesi secondo cui più che una crisi di civiltà si può determinare una condizione di non belligeranza, di una sorta di esodo delle popolazioni. La nostra tesi semmai è più vicina a quelle "catastrofiche", quelle che dicono che il sistema è ingovernabile, e che le contraddizioni sono esplosive. O ci mettiamo mano con un processo che mette all'ordine del giorno il cambiamento del modello sociale, nel mondo, in Europa e in Italia, oppure non possiamo farcela.
Non c'è quindi l'imperialismo che produce morte e distruzione oppure, un mondo tranquillo dove ci si muove, si va e si viene. C'è una condizione drammatica per l'umanità e per il conflitto di classe, tanto che si ripropone il dilemma "socialismo o barbarie". Ci sono contraddizioni interne ed esterne. Contraddizioni intercapitalistiche anche violente (e contraddizioni interne ed esterne sul versante fondamentale di classe e delle soggettività rifiutate e critiche nei confronti della globalizzazione, che possono dal luogo ad un conflitto progressivo o anche distruttivo.
La nascita del movimento no global costituisce un elemento di novità straordinaria. Comincia a vedersi quella che abbiamo chiamato una "latenza anticapitalista".
Perché comunisti
E' dentro questo quadro che va ripensato il ruolo dei comunisti. Ci viene chiesto, e vi prego di credere che sono in molti a dircelo in questi giorni, di cambiare il termine "comunista", invitandoci a costruire una forza "di sinistra" visto anche il disastro dei Ds. Sono contrarissimo a questa ipotesi non solo per ragioni di rispetto verso alcune storie personali a cui guardo con grande attenzione. Penso che la politica sia anche soggettività, sentimenti, emozioni. Non cambierei il termine "comunista" solo pensando a chi ha lavorato per fare le feste di Liberazione. Ma c'è anche una ragione politica. Non penso che la soluzione alla crisi del movimento operaio sia la socialdemocrazia. E per togliere il nome comunista al nostro partito bisognerebbe pensare che l'ipotesi socialdemocratica sia ancora valida. Invece non capisco che cosa guadagneremmo a cancellare un termine che indica un radicale cambiamento dell'ordine esistente, per sposare un'ipotesi che non regge la sfida dei tempi,
La socialdemocrazia, come tutti sanno, è un compromesso sociale democratico. Non esiste fuori da questo. I riformismi possono essere di vario genere: ci sono i riformismi borghesi e i riformismi del movimento operaio. I riformisti del movimento operaio volevano comunque il superamento della società capitalistica. Si dividevano dai rivoluzionari sui modi di arrivare alla società socialista. Tra Turati e i Ds di Pesaro non c'è alcuna relazione. Del resto in Italia non c'è mai stata una socialdemocrazia. Certamente questa non è stata rappresentata da Saragat. Ne si dica che la destra comunista era riformista, perché si tratta di una bugia clamorosa. Amendola ha difeso l'intervento sovietico in Afghanistan. Non era certo un socialdemocratico. Era comunista. Moderato, ma comunista. Neppure il partito socialista era socialdemocratico. Ho l'età per ricordare le polemiche violente di Nenni contro Bad Godesberg. Non sto parlando di Raniero Panzieri, ma di Nenni! Quando poi il partito socialista cambia, non diventa socialdemocratico, ma diventa neoliberale con l'operazione craxiana.
La globalizzazione, viceversa, riapre la sfida comunista, propone il processo rivoluzionario, cioè la fuoriuscita dall'ordine delle cose esistenti. Per questo, voglio ragionare sul ruolo e sulla soggettività politica dei comunisti. Ma i comunisti per esprimere una soggettività politica non minoritaria in occidente e in Europa, debbono costruire delle sinergie politiche con altri. E a mio parere non in termini di alleanza. Del resto nel Parlamento Europeo l'esperienza del Gue è già indicativa, solo con i comunisti non avremmo fatto il Gue. E a Porto Alegre, di comunisti c'eravamo solo noi. Chiediamoci perché. Possiamo scoprire che questo ha a che fare con l'impianto politico e culturale che stiamo cercando di sviluppare. C'è una lezione nell'essere comunisti che è feconda e su cui bisogna continuare a lavorare.
Anche il partito è un elemento da salvaguardare, ma il partito deve accettare la contaminazione. La difesa del partito passa oggi, se si vuole essere efficaci, per l'apertura e l'accettazione della convivenza con altre forme di organizzazione della politica non partitiche. Vedremo poi, nella sfida di lungo periodo, chi ha più filo da tessere. Questo è il punto: non basta ritenersi autosufficienti né nell'essere comunisti né nell'essere partito. Entrambe le cose chiedono, non solo l'apertura e l'innovazione, come partito e come comunisti e come partito comunista, ma chiedono di più: la co-partecipazione nel progetto politico con altre formazioni, aggregazioni, soggettività.
Se è vero che la sovranità politica e la rappresentanza passano per gli iscritti e il circolo, questi non bastano. Lo abbiamo imparato dalle storia dei riformisti e dei rivoluzionari. Senza le Leghe, senza le Camere del Lavoro, non avremmo avuto quella straordinaria costruzione che è stato il Partito Comunista Italiano. Anche i più radicalmente critici rispetto a quella esperienza su questo punto si levano tanto di cappello. Questa è la storia di cui dobbiamo tener conto. Persino il cambiamento del paradigma della soggettività politica per cui si difende il partito ma si accetta "l'altro", l' associazione, club, gruppo, movimento femminista, eccetera, è un modo per cominciare il cambiamento.
Ma bisogna continuare ad innovare. Non ho avuto particolare disagio nell'essere stato in minoranza ieri due volte, nella riunione del Comitato Politico. Ma ho un disagio per il partito che ha votato a maggioranza contro l'aumento della quota femminile nella delegazione al congresso. Mi si spieghi perché il Prc sulla questione delle donne ha una posizione più arretrata della Cgil che non accetta più del 60% di presenza maschile. E' una misura di garanzia e non ditemi che il Partito Comunista Francese è avanguardista o avventurista perché ha posto la regola del 50% di presenza femminile. C'è nel nostro partito una resistenza che non mi convince. L'accetto perché si è espressa in maggioranza ma non mi convince.
Vorrei dire un ultima cosa sul partito a cui tutti vogliamo bene. Questo partito, così com'è, insieme a straordinarie generosità, altruismi, dedizioni, (gente che proprio fa anche sacrifici economici drammatici, mettendo a rischio delle famiglie) abbia delle cose insopportabili. C'è un'iperbole personalistica che affiora in particolare ogni volta che c'è da fare un'elezione. So che dipende dalla contaminazione di un tempo e di una società, ma è inaccettabile. Quante volte c'è un conflitto politico perché questo o quello non è entrato in una direzione o in una segreteria? O non è stato eletto in un consiglio comunale o in una amministrazione? E quante volte in un circolo si fa una discussione che tutti trovano insopportabile? Tutti, quelli stessi che la fanno, non gli altri, ma loro stessi! Per quale ragione perdiamo il 25% di iscritti ogni anno? Con questa critica non sto attaccando né i circoli né le federazioni. Sto attaccando noi. Dobbiamo cercare di individuare le nostre pecche. A mio c'è un incompiuto processo di una cultura politica, c'è un'aggressività e una violenza tra compagne e compagni che non ha nulla a che fare con il nostro progetto politico. E' un meccanismo per cui se io dico che bisogna riformare mi si risponde che voglio sciogliere il partito. Se tu dici che sei contro l'imperialismo io dico che sei stalinista. Non si tratta di bon ton, ma dobbiamo discutere dei nostri comportamenti. I comportamenti sono politica come i sentimenti, come i progetti, come i programmi.
Questo comportamento inaccettabile è alimentato da un'organizzazione del lavoro che neanche una azienda fordista terrebbe più. Se nella selezione e nella formazione dei gruppi dirigenti si sostituisce alla cooptazione il centralismo democratico, la discrezionalità di chi essendo in maggioranza decide, non cresciamo, malgrado il consenso e l'interesse che stiamo raccogliendo.
C'è una propensione alla chiusura, per cui chi critica è considerato fastidioso. Se noi dovessimo sposarci non potremmo mai farlo perché a ciascuno di noi non ci va mai bene nessuno. Questo congresso deve aiutarci.
Anche sul congresso un'ultima battuta. Non possiamo dire come nel melodramma "partiam partiam" e non si parte mai. Un congresso non può avere questo affanno per cui non si comincia mai. Abbiamo deciso un percorso lungo e aperto. Ora quindi votiamo la proposta di tesi e su questa apriamo una consultazione nel nostro partito. Poi, la convocazione è già fissata per dicembre, terremo un altro Cpn, per licenziare definitivamente i documenti congressuali e avviare formalmente l'iter per il congresso nazionale. Nella nostra discussione sono anche emerse divergenze in seno alla maggioranza congressuale. Non dobbiamo nasconderle, anche per questo è bene oggi votare, perché ognuno deve saper chi è ad avere inviato il documento, fermo restando che qualunque espressione di voto oggi non pregiudica l'atteggiamento futuro in vista e durante il prossimo Comitato politico nazionale.
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