SINTESI APERTURA FAUSTO BERTINOTTI Care compagne e cari compagni, in queste elezioni abbiamo ottenuto un risultato importante e così esso è sentito all’interno del nostro partito. Questo risultato viene purtroppo ottenuto in un quadro segnato dalla vittoria delle destre. La nostra soddisfazione non deriva dalla sottovalutazione del pericolo delle destre. Non deriva da una indifferenza rispetto alla sofferenza che il risultato elettorale ha prodotto all’interno del popolo della sinistra. Né, tantomeno, si tratta di una considerazione mossa da patriottismo di partito. Si tratta invece di un punto di analisi politica su cui chiediamo che ci si confronti. Il nostro risultato significa che è possibile, oltre che necessario, fare esistere una sinistra anticapitalista anche all’interno delle istituzioni. Ha significato affermare la possibilità di un progetto politico autonomo. Noi non abbiamo mai separato l’esigenza di una presenza nelle istituzioni da quella di una valorizzazione dei movimenti e dall’affermazione di forme di democrazia diretta. Abbiamo sostenuto con successo la sfida per la costruzione dell’alternativa. In questo senso il nostro risultato è importante per noi, per la sinistra alternativa, ma anche per le sinistre che oggi sono divise da diverse opzioni strategiche. Per questo noi concepiamo il confronto e il dibattito tra le sinistre come l’apertura di una sfida egemonica al loro interno. Noi incaselliamo il nostro risultato in una sorta di bacheca, anzi lo rimettiamo in gioco, perché questo può riaprire positivamente il destino delle sinistre dopo la sconfitta. E’ stato premiato il nostro lavoro politico. Non solo quello che ha cercato di spostare a sinistra l’asse del centrosinistra e della sinistra moderata, ma anche il lavoro che muoveva dall’analisi della società e della crisi attuale della politica. Proprio per questo noi abbiamo proposto un’altra politica. Per tutte queste ragioni mi sento prima di tutto in dovere di ringraziare le compagne e i compagni per l’impegno così generosamente profuso. In questa campagna elettorale, come poi dirò abbiamo anche registrato limiti ed errori, ma soprattutto abbiamo saputo attivare una nuova partecipazione democratica. Siamo riusciti a raccogliere adesioni che allargano il campo delle forze interessate ad un’interlocuzione con noi. Nel mondo della cultura si è manifestato in modo evidente un interesse accresciuto e anche qualitativamente nuovo per le nostre posizioni e la nostra presenza, e questo apre un nuovo fronte di iniziativa . Il risultato per noi è stato positivo anche dal punto di vista della realizzazione della rappresentanza parlamentare. Come ogni risultato questo non è univoco. Vi sono quindi problemi che non intendo tacere. In alcuni aspetti registriamo un arretramento nella nostra capacità di apertura nei confronti della società e dei movimenti (come si registra nel caso della mancata elezione di un candidato come Vittorio Agnoletto); al nostro interno si sono verificati limiti nella capacità di comporre una delegazione parlamentare così come l’avevamo pensata e decisa (vedi la mancata elezione del compagno Fausto Sorini); nel contempo ci si presentano dei problemi difficili di scelta delle opzioni di cui si dovrà occupare la nostra Direzione nazionale. Però. Malgrado tutto questo che non neghiamo, ce l’abbiamo fatta! Abbiamo ottenuto una consistente e significativa rappresentanza nelle istituzioni, sia alla Camera che al Senato (e lo sarebbe molto di più senza l’imbroglio delle liste civetta). In sostanza possiamo dire che la lotta per la sopravvivenza del nostro partito e del suo progetto ha raggiunto un obiettivo irreversibile.
Abbiamo condotto una battaglia elettorale estremamente difficile. La destra ha prodotto in modo minaccioso un’accumulazione di forza che deriva principalmente dalla crisi del centrosinistra. Ma le destre hanno anche prodotto un’operazione che addirittura si propone come un modello per tutta l’Europa. Questa consiste in un mix tra neoliberismo e neopopulismo. Su questa base le destre hanno lavorato per la costruzione di un blocco sociale di riferimento, cominciando a realizzare un processo di riunificazione della borghesia imprenditoriale lungo un unico asse politico, quello delle destre. Di fronte a questi processi noi abbiamo posto un problema: come si fa a battere le destre? A questa domanda abbiamo ottenuto solo risposte deludenti. Il centrosinistra ha replicato con argomenti di "buon senso", ma privi di logica e di efficacia politiche.
Stiamo verificando una eclisse della democrazia e una profonda crisi della politica. La questione della difesa della democrazia è stato uno degli assi portanti della nostra battaglia elettorale. La democrazia oggi è costretta in una tenaglia dall’alto e dal basso. Dall’alto, come dice Dahrendorf, perché essa è erosa dai processi di globalizzazione. Dal basso perché si realizzano, come nel nostro paese, gravi crisi nelle regole della determinazione della rappresentanza democratica (si pensi appunto alla vicenda delle liste civetta). La crisi della politica è ulteriormente alimentata dal tentativo di trasformarla in "tifo", ossia in una adesione da una bandiera priva di motivazione sociale e ideale. Su questo piano si viene affermando un’idea proprietaria della politica, per cui chi è contro qualcosa deve essere a disposizione senza altra condizione della forza più grossa che si oppone a quel qualcosa. Quando, per giustificare la propria sconfitta, si ricerca semplicemente un capro espiatorio, vuol dire che si lavora per la crisi della politica e della democrazia. Nei nostri confronti, ad esempio, è stata attuata una aggressione alimentata da una reazione di un ceto politico e intellettuale che si sentiva minacciato nella propria esistenza dalla nostra proposta. Questa reazione è stata la spia di una condizione di regime. Nella stretta finale della campagna elettorale abbiamo assistito ad un’ulteriore accelerazione della modificazione della costituzione materiale del paese. Un esempio su tutti: il comportamento dell’informazione, in particolare televisiva, che si è mossa al totale servizio di una visione bipolare. L’esito della competizione elettorale ci consegna un consolidamento dell’assetto bipolare. Sono stati distrutti o è in corso la distruzione di chi sta fuori dal bipolarismo. Penso alle forze che vogliono ricreare un centro nel sistema politico del paese. Penso alle forze che si identificavano nel verdi. Penso alla distruzione di quella sinistra che si poneva come un condizionamento nei confronti del centrosinistra. Penso a realtà politiche significative in alcune zone del paese. Questa situazione avrebbe potuto annientare anche noi. Persino noi abbiamo sottovalutato questo pericolo, anche confortati da consensi che ottenevamo in campagna elettorale. Proprio per queste ragioni non si può sfuggire alla domanda: come mai ce l’abbiamo fatta? Perché. Seppure con molte approssimazioni abbiamo saputo fornire un’altra idea della politica. Questa si basa su una connessione tra l’analisi delle nuove condizioni sociali e la critica politica culturale all’ordine di cose esistente, che si configura anche in una sorta di rinascita dello spirito repubblicano: la connessione tra questi elementi fornisce il retroterra per quella che abbiamo chiamato la ricerca comunista. Questa connessione avviene per la prima volta. Il primo elemento deriva dalla tradizione del movimento operaio, il secondo dalla rinascita di uno spirito repubblicano che si contrappone alla perdita di unitarietà e di laicità dello stato, come ai pesanti processi di privatizzazione e di annullamento dello spazio pubblico. Siamo l’unica forza politica, fuori dalle due coalizioni, ad avere superato il quorum. Abbiamo ottenuto un significativo (oltre mezzo milione di voti in più) aumento in termini assoluti dei nostri voti, se comparati alle elezioni europee del ’99 e alle elezioni regionali del 2000. Qui si è verificata una maggiore partecipazione di votanti, ma va soprattutto detto che il ricatto sul "voto utile" è stato molto più incisivo in questa elezioni che non nelle precedenti. Il confronto con il 1996 è del tutto improponibile e privo di significato politico, tali e tante sono le differenze tra la situazione attuale e quella di allora. Qui e ora abbiamo risolto positivamente l’alternativa tra l’avanzare o l’essere massacrati. Abbiamo garantito il futuro non solo per il nostro partito ma per tutta la sinistra anticapitalista. Tuttavia resiste una domanda critica, espressa anche da persone autorevoli, come Rossana Rossanda, che ci interroga su come mai noi non riusciamo ad intercettare i voti dell’ex Pci. Questo è un terreno reale su cui confrontarsi. La risposta che do è che noi non possiamo ancora farlo. Le ragioni di questo stanno, io credo, nel fatto che il terremoto provocato dallo scioglimento del Pci non è intervenuto solo nella sfera della politica ma nel corpo vivo del popolo della sinistra. Lì è intervenuto un processo di destrutturazione, di mutazione genetica. Ora siamo ben oltre la "Bolognina". Quando abbiamo parlato dell’esistenza di due sinistre abbiamo inteso sottolineare l’esistenza di una divisione culturale, ideologica, politica e di riferimento sociale fra le sinistre. Infatti per l’una la modernizzazione è una nuova tigre da cavalcare, per l’altra essa impone un processo di trasformazione della società capitalista, perché altrimenti si verificherebbe una regressione generale nella società. Per tutte queste ragioni non è possibile pensare in termini di una trasmigrazione dal popolo della sinistra moderata a quello della sinistra antagonista. Non sono riproducibili i processi tipici del passato della storia del movimento politico operaio, per cui si verificavano scissioni tra partiti che avevano lo stesso riferimento e insediamento sociale, che di conseguenza poteva spostarsi aderendo a quello o a quell’altro progetto politico. Noi oggi siamo di fronte ad un’implosione di quel popolo, per cui non vale un effetto calamita. Il nostro compito è ricostruire le ragioni e le connessioni di un polo della sinistra. Diceva la Bibbia che c’è il tempo della semina e quello del raccolto. Siamo nel tempio della semina, ma la prima condizione per farlo era sopravvivere: ci siamo riusciti. Siamo riusciti a costruire un consenso malgrado l’esistenza di nostri punti deboli, che bisogna indagare a fondo. In primo luogo è evidente che noi non otteniamo, neppure all’interno del nostro stesso partito, un consenso rispetto a tutti gli aspetti della nostra linea politica. Naturalmente si può dire che questo non avviene mai comunque per nessuno. Ma qui voglio indicare una nostra condizione particolare ancora più arretrata. Noi otteniamo un consenso su una ricerca politica non ancora consolidata, ovvero interpretiamo istanze sociali, le rappresentiamo, ma i loro portatori spesso non si riconoscono nelle soluzioni che proponiamo. La nostra linea politica è quindi più spesso enunciata che praticata e condivisa. Il consenso che otteniamo, in controtendenza con la nostra aspirazione a diventare un moderno partito di massa, è ancora sostanzialmente di opinione e quindi mobile. In secondo luogo dobbiamo valutare con severità lo stato del partito. Vi abbiamo accennato molte volte ma con scarsa profondità. Nelle ultime vicende politiche abbiamo giustamente privilegiato il momento dell’unità. Ora guai se sottacessimo le diversità, perché solo il confronto aperto tra noi ci può fare avanzare. Assistiamo continuamente a fenomeni di generosità straordinaria da parte delle nostre compagne e dei nostri compagni, basti pensare all’organizzazione delle feste di Liberazione. Ma, nello stesso tempo non possiamo nascondere l’inadeguatezza della nostra capacità d’azione che affonda le sue cause in una modalità di organizzazione del partito da superare. Non ci siamo nel rapporto tra partito e società. Voglio ricordare tre elementi. Il primo: l’inadeguatezza del nostro radicamento reale nella società, nella classe, nei luoghi di lavoro. Il secondo: il rapporto con i movimenti che spesso è intriso di integralismo, di sospetto, di superficialità, di plebeismo. Il terzo: l’assoluta insufficienza di un’adeguata apertura culturale. Direi proprio che la resistenza all’innovazione culturale e all’apertura alla società costituiscono un mix negativo di cui liberarsi. Infatti anche l’apertura sui temi della storia del movimento operaio e comunista operata a Livorno non è stata agita come avrebbe dovuto e potuto. Ora è precisamente il momento della massima apertura. Bisogna operare una verifica dello stato del partito non con criteri organizzativistici ma in connessione con la cultura politica che vogliamo realizzare. Questa esigenza emerge anche dal dato elettorale a livello amministrativo. Per noi l’articolazione della linea politica è essenziale, quindi il livello locale è strategico. Per questo, pur differenziando tra città e città, tra luogo e luogo, come è giusto e necessario fare, dobbiamo guardare al quadro di insieme e rilevare che a livello locale il ricatto del "voto utile" è stato contro di noi più efficace che non nelle elezioni politiche. Naturalmente questo non diminuisce il nostri impegno nei ballottaggi. Vorrei tranquillizzare qualche nostro sostenitore che ci ha rivolto un sentito appello: il nostro appoggio a Veltroni o alla Iervolino è pieno e convinto, proprio perché sostanziato da intese programmatiche. Abbiamo realizzato la stessa percentuale di voto alla Camera e al Senato, pur con differenza nella cifra dei voti assoluti. E’ un risultato importante che nessuno si aspettava, poiché al Senato la competizione con l’altra sinistra era aperta e esplicita. Questo dimostra altresì che non si possono sommare i voti, perché essi sono espressione di gente in carne ed ossa. Alla Camera abbiamo saputo intercettare una quota rilevante di voto giovanile. In questo risultato non c’è solo l’elemento della resistenza, lo zoccolo duro. C’è anche questo, ma molto di più. C’è soprattutto un universo antagonista che cerca una rappresentanza politica, una realtà di movimenti che si interrogano su una prospettiva di cambiamento. Abbiamo nuovamente registrato un disgelo nei movimenti. Sia chiaro questo disgelo non si è tradotto immediatamente in un aumento del consenso a noi, ma esso ha determinato la situazione in cui è stato possibile ottenere un risultato soddisfacente. Abbiamo registrato in modo sensibile un’accresciuta presenza giovanile nelle nostre manifestazioni elettorali. Direi che proprio questo è stato uno dei segni distintivi della nostra campagna elettorale, a dimostrazione che la penetrazione delle destre tra le giovani generazioni conosce significativi elementi di controtendenza. C’è stata una grande vivacità nel mondo della scuola, tra gli insegnanti e gli studenti, che ha positivamente movimentato il clima anche nella competizione elettorale. Abbiamo riscontrato una accoglienza nuova e favorevole davanti alle fabbriche, tutt’altro che scontata; nello stesso tempo abbiamo verificato il successo di iniziative verso il lavoro precario. L’incontro che abbiamo tenuto a Roma, al teatro Argentina, ha messo in luce un interesse del tutto nuovo verso di noi, cioè verso una proposta alternativa, del mondo0 della cultura; lì abbiamo saputo ricreare una connessione sentimentale tra cultura e popolo; nel mondo culturale, accanto a fenomeni di regime, si è manifestato un positivo spirito di scissione dal pensiero dominante; e qui nasce una nuova e più ricca possibilità di incontro. Più complicato è valutare l’esito nel Mezzogiorno, ma comunque è indubbio che lì si vedono segni di ripresa elettorale e di consenso, che possiamo probabilmente mettere in relazione con la nostra iniziativa, penso in particolare alla marcia per il lavoro e il salario sociale. Credo che possiamo dire che nel voto al Prc vi è una domanda profonda che dobbiamo sapere soddisfare e che richiede a noi un salto in avanti. In che direzione? In primo luogo bisogna realizzare una grande apertura. Questa consiste in un’operazione politica e culturale da avviare in modo non indifferenziato, ma precisamente nella direzione di una fuoriuscita da sinistra dalla crisi del movimento operaio, cioè in quella della riproposizione della questione della trasformazione della società capitalista. Il quadro nel quale siamo inseriti è quello di una vittoria delle destre e di una sconfitta delle sinistre. Questi due elementi stanno insieme, nel senso che l’elemento casuale di entrambe è la sconfitta del centrosinistra. Per questo abbiamo detto che la vittoria delle destre è un male ma di per sé la vittoria del centrosinistra non sarebbe stato un bene. Per capire questa affermazione bisogna condurre un’indagine su un periodo lungo, almeno relativo all’ultimo ventennio. Lì si vede bene come l’offensiva delle destre ha destrutturato il mondo sociale di riferimento delle sinistre, certamente con la complicità di queste ultime che hanno rincorso le destre sul loro stesso terreno. Per questa ragione la questione dell’alternativa di società non è rinviabile, ma essa stessa costituisce il terreno della lotta contro le destre. Tutte le sinistre sono segnate dalla sconfitta, ma mentre quella moderata è diventata una concausa della vittoria delle destre, la sinistra antagonista ha da rimproverarsi il fatto di non essere riuscita a modificare il corso della sinistra moderata. Le destre intanto si ristrutturano. La sconfitta della Lega non deve fuorviare il nostro giudizio: in realtà i suoi temi, dal neopopulismo, al federalismo, alla xenofobia, hanno pervaso l’intero schieramento delle destre. Nel contempo le destre si muovono nel contesto internazionale: facendo l’occhiolino a Tony Blair esse realizzano una connessione strettissima con l’attuale dirigenza degli Usa. In sostanza le destre mirano a realizzare un nuovo blocco sociale, attorno alla ricomposizione del fronte borghese. La scelta della Fiat non è solo conseguente al tradizionale atteggiamento per cui la principale impresa automobilistica è amica dei governi esistenti, rappresenta un investimento deciso verso le destre e il loro governo che si spinge fino a scegliere e imporre direttamente la figura del ministro degli esteri. Questi processi creano enormi difficoltà a chi pensava di porsi in mezzo tra le destre e il centrosinistra ed apre una crisi nel sindacato. Lo scenario è quello di una crisi irreversibile del centrosinistra. I Ds appaiono incapaci di una risposta, la Cgil si sottrae ad un abbraccio mortale con il padronato ma senza aver la capacità di un ripensamento strategico. Nello schieramento del centrosinistra si verifica un successo della Margherita e un ulteriore perdita di peso e di consensi dei Ds. Ha ragione Noam Chomsky: si è realizzato un punto drammatico, l’assenza di speranza, che va assolutamente superata. Come si reagisce a questa situazione? Le risposte che giungono dalla sinistra moderata sono deludenti. L’alternativa tra chi vuole un partito democratico e chi uno nell’ambito del socialismo europeo, appare del tutto inconsistente. La prima prospettiva è esaurita. La seconda non ha fondamento. Per fare una socialdemocrazia bisogna garantire un forte referente sociale tra i lavoratori dipendenti e un nuovo programma fondamentali. Entrambe le condizioni sono inesistenti nel nostro paese. Noi non dobbiamo perciò prendere parte in questa disputa ma certamente dobbiamo cercare di influire sulla crisi dei Ds. Dobbiamo mettere a fuoco la questione della sinistra plurale. Dobbiamo sapere condurre una sfida sulle strategie e su un progetto di governo per la nostra società e per l’Europa all’interno delle sinistre. Perché dai Ds non viene una risposta? Perché lì si manifesta una curvatura neocentrsista. Neppure l’offensiva della Confindustria riesce a smuoverli. Il sindacato è una componente di rilievo del dibattito, ma il punto è che esso riconquisti un’autonomia contrattuale. Per fare questo bisogna uscire da sinistra dalla evidente crisi delle politiche concertative. Il congresso della Cgil può essere una grande occasione in questo senso, e molto può fare la sinistra sindacale. Il contratto dei metalmeccanici mette in luce una contraddizione evidente tra l’ampiezza e la consistenza delle lotte di massa e l’internità della piattaforma allo schema concertativo. Per questa ragione è necessaria una critica radicale alla linea confederale, è necessario avanzare esperienze di lotta alternative da parte della sinistra sindacale, è necessario fare crescere esperienze concrete di ricostruzione del sindacato di classe. Come vedete la questione non è se Cofferati deve o no diventare il nuovo segretario dei Ds. Questa questione è una trappola. Il problema è ridiscutere la collocazione del sindacato nella società, altrimenti anche i metalmeccanici rimarranno imprigionati. Qual è il punto che ci permette di animare una nuova ricerca? Io penso che la questione cruciale sia l’analisi della fase. In questo senso se ci sono opinioni diverse, è bene che emergano. Siamo di fronte ad una situazione rovesciata rispetto al ’96. Allora l’Ulivo più Rifondazione vinsero le elezioni, ma le destre operarono una conquista della società. Ora le destre vincono, però avviene una rottura nel dominio delle destre sulla società. Ci troviamo di fronte ad una grande instabilità. La globalizzazione conosce un’incertezza strategica. L’onda lunga del pensiero unico s’infrange anche sul piano culturale. Sul piano economico si verificano elementi di crisi rilevante. Proprio per questo le destre chiedono mano libera, ma la loro azione non risolve le contraddizioni. E’ singolare il caso Montedison: dopo la retorica della privatizzazione si verifica una conquista dell’elettricità italiana da parte di una società estera interamente pubblica. D’altro canto, registriamo una crescita dei movimenti di ogni tipo. Non ci illudiamo, da soli non risolvono la situazione, la costruzione di un massa critica sufficiente è il problema che abbiamo di fronte, ma la loro crescita – da Seattle in poi – è reale. La reazione militare alle annunciate manifestazioni di Genova contro il governo oligopolistico del mondo rappresentato dal G8, è indicativa di una paura reale. C’è una ripresa ovunque delle lotte operaie, in Francia come a Torino. Gli insegnanti non sono domati. Tra i precari si verificano nuovo forme di lotta. Non sono episodi isolati ma una nuova tendenza. Nelle scuole continuano le lotte, sul terreno della difesa dell’ambiente malgrado la crisi politica dei Verdi, si allargano e si approfondiscono i movimenti. Sulla questione della laicità dello Stato si muove una nuova coscienza critica. Aree intellettuali si oppongono al regime bipolare. Siamo perciò di fronte ad un disgelo, al cospetto del quale dobbiamo definire i nostri compiti a partire dall’appuntamento di Genova, che vogliamo pensare non solo come un’occasione di lotta, ma come un laboratorio politico per tutte le sinistre.
In conclusione, tracciamo cinque direttrici di lavoro:
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